“Lamb” dà vita a una leggenda islandese contemporanea che rende il surreale credibile - THE VISION

Le emozioni che viviamo da piccoli – in particolare le paure – a differenza di altre esperienze fatte in età adulta hanno la capacità di segnare profondamente il nostro immaginario e le nostra fantasia. Mi ricordo che da bambino mia nonna mi spingeva ogni giorno dentro al pollaio, urlandomi poi da fuori, con fare incitatore, di acchiappare le uova che le galline avevano deposto durante la notte. L’attività costituiva un preludio alla merenda, dove il tuorlo sarebbe stato sbattuto insieme allo zucchero e poche gocce di caffè per fare lo zabaione, ma il terrore che mi assaliva appena varcata la soglia di legno e posati i piedi sulla paglia superava di gran lunga il piacere di quella promessa. Avanzando piano verso l’angolo della cova, infatti, già percepivo gli occhi di quegli animali farsi attenti su di me e premonivo il momento in cui, con un balzo, mi sarebbero stati addosso, beccandomi ovunque. A posteriori, mi rendo conto che parte di quella paura – che mi ferma ancora oggi davanti a una gallina – era dovuta alla percezione di star compiendo una sorta di sopruso. Ero un ladro, o almeno tale mi sentivo.

Sicuramente i ricordi dell’infanzia trascorsa nell’allevamento di ovini dei nonni devono essersi mescolati ad alcuni miti del folklore islandese, ancora vivi e radicati nel territorio, per ispirare l’esordio alla regia del regista Valdimar Jóhannsson. Lamb, presentato nel 2021 nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes – dove è stato premiato per la sua originalità – e in uscita nelle sale cinematografiche italiane da oggi, 31 marzo, in un certo senso è stato ispirato da un sogno che Jóhannsson fece da adolescente e che, come ha raccontato lui stesso, trascrisse in un diario poi ritrovato solo dopo la realizzazione del film da sua madre. Nel sogno, il futuro regista si trovava in un campo dove grandi arieti, dalle corna pronunciate, gli pascolavano tutt’intorno. “È un ricordo che avevo completamente rimosso, ma più di vent’anni dopo è confluito inconsciamente in uno dei sogni fatti da Maria [la protagonista del film]”.

La Maria di cui parla (interpretata da Noomi Rapace) è la protagonista del film, che vive insieme al marito Ingvar (Hilmir Snær Guðnason) in una fattoria isolata immersa nella natura islandese. Le loro giornate trascorrono prendendosi cura dei campi e delle bestie, o a riparare guasti al trattore, scandite da gesti sempre uguali e da conversazioni di circostanza. Il dolore per una perdita passata, e che sembra impregnare la vita e i pensieri di entrambi, in lui si manifesta con un’attenzione spasmodica per il lavoro quotidiano, mentre in lei in un silenzio costante e in un’apparente apatia. Qualcosa si è rotto dentro di loro, compromettendone la relazione. Ognuno, infatti, cerca di andare avanti a modo proprio, e la loro distanza si percepisce anche nei piccoli scambi, come quando Ingvar annuncia di aver letto che si fa sempre più concreta la possibilità di viaggiare nel tempo: se lui non vuole saperne perché ormai vive stretto al presente, a Maria più che la facoltà di conoscere il futuro importa la possibilità di tornare nel passato.

Il silenzio, interrotto solo da brevi rimbrotti – “Non so come è messo il fienile di sopra, potresti iniziare da quello” – è tanto denso che la prima voce umana a spezzarlo proviene da un programma alla radio, dove la conduttrice invita alla preghiera e augura buon Natale. È una dimensione scandita dal vento che batte la terra, dai versi di un mondo animale che sembra poter essere turbato solo da una presenza divina. Un giorno, infatti, avviene il miracolo: una delle pecore della fattoria partorisce un cucciolo che non è come tutti gli altri. Metà ovino e metà umano: ha il corpo, le gambe e un braccio di una bambina, mentre la testa e l’altra zampa sono quelle di un agnello. Ada è un nuovo inizio. È nell’amore per lei che Maria e Ingvar sciolgono le proprie distanze. Nel modo in cui la coppia si prende cura della piccola coesistono un’enorme tenerezza ma al tempo stesso una sorta cupidigia nei confronti di ciò che simboleggia e della possibilità che per loro rappresenta. Sembrano infatti avere la paura – e forse la consapevolezza – che la loro felicità non possa che durare poco, temendo che il futuro si ripeta uguale al passato, ma nonostante questo sono disposti a tutto pur di non farsi scappare questa occasione e di ricreare anche solo per un momento l’armonia che hanno vissuto in precedenza. Quanto possono prendere dalla bambina per risanare il proprio passato, tanto basta. 

Nonostante negli Stati Uniti sia stato descritto come un horror, Lamb è un dramma familiare onirico, con l’aggiunta di un elemento surreale che estende la narrazione ai temi del dolore, della salvezza e del rapporto tra umanità e ambiente. Della paura restano l’ignoto – ciò che accade fuori dalla scena, che ci mantiene sempre sulla soglia dell’inaspettato grazie anche a un simbolismo che attinge alle oscure tradizioni e ai racconti allegorici dell’Islanda – e le molte parole non proferite. La pellicola procede infatti quasi in silenzio, i dialoghi sono scarni e non aggiungono né tolgono nulla all’azione, che progredisce esclusivamente per immagini. È come se Jóhannsson ci chiedesse da un lato di accettare senza alcuna titubanza quel patto di sospensione che ogni narrazione richiede e dall’altro cercasse di rendere il cinema un linguaggio universale, di cui si può godere anche senza capire la lingua.

“Volevamo creare qualcosa di nuovo che desse la stessa impressione di una leggenda, una nostra leggenda,” ha spiegato il regista, autore della sceneggiatura insieme a Sjón, nome d’arte di Sigurjón Birgir Sigurðsson, poeta islandese già collaboratore di alcune canzoni di Björk. Delle leggende e della mitologia il film recupera la dimensione narrativa in cui il confine tra animale e umano si mescola: nelle tradizioni contadine e nei racconti del folklore tradizionale gli animali parlano, entrano in comunicazione con gli umani, si mescolano con essi, li aiutano, chiedono supporto o ne diventano gli antagonisti. In Lamb la relazione tra uomini e bestie si concretizza nel peso che le espressioni di confusione, sospetto, rabbia e dolore degli animali acquistano sullo schermo. “Siamo […] convinti che i social media e la tecnologia siano la nostra realtà, ma quando si entra davvero in contatto con se stessi ci si rende conto che anche noi siamo animali”, ha detto Rapace, la cui interpretazione di Maria è così intensa e precisa da mostrare come la determinazione del personaggio sia un riflesso della sua stessa disperazione. “Sono emersi il mio lato e i miei istinti primordiali, e mi veniva di usare sempre meno la parola e sempre più il linguaggio del corpo”. 

Girato in Islanda, durante l’ultima settimana della stagione delle nascite degli agnelli, il film presenta un’ampia varietà di specie animali – cavalli, pecore, cani, gatti – i cui comportamenti – grazie al supporto dei numerosi allevatori, che hanno aiutato il regista a dirigerli sul set – sono gli unici elementi che ci fanno percepire una presenza invisibile e misteriosa sulla scena. Ci si manifesta come un soffio di vento che fa imbizzarrire i cavalli; una folata che si infila nella stalla dove la pecora darà alla luce Ada, e che spaventa gli animali ci sono stati rinchiusi; la intravediamo nello sguardo fisso di un gatto, nell’istinto di difesa del cane di Ingvar verso un mostruoso che non si scorge ma si percepisce. 

Se simbolicamente l’agnello è fatto coincidere nel credo cristiano con la categoria ontologica del bene e dell’innocenza, in Lamb la presenza di Ada e l’origine mitologica del racconto si aprono a una moltitudine di significati, mai completamente definiti, ma da cui emerge che dalla trasgressione e dallo sfruttamento dell’ordine naturale non ci si possono che aspettare conseguenze negative. Nel corso dei secoli l’ibridazione con cui si è fabbricato il mostruoso – centauri, sirene, arpie – è stata infatti spesso utilizzata per rimarcare la differenza tra l’esperienza umana e quella animale. Gli esseri umani si sono sempre immaginati come superiori agli animali, come i prediletti da Dio e di conseguenza il centro dell’universo, e questa triade di credenze ha portato alla tragica situazione attuale. Dimenticando di essere noi stessi animali, abbiamo finito per dare una connotazione negativa a tutte quelle forme di vita che non sono umane, allontanando e condannando tutto quanto ci ricorda di appartenere al regno delle bestie. Dovremmo imparare invece a ripensarci a partire da ciò che abbiamo escluso da noi per ridefinire i nostri confini. Cambiare la nostra relazione con gli animali avrebbe ricadute positive per tutti: sull’ambiente, che abbiamo consumato fino a renderlo inospitale; sul benessere individuale, grazie alla capacità di riscoprirsi empatici e superare le angosce che derivano dalla paura dell’altro e dalla solitudine; sul pensarsi come una tra le specie e non la specie eletta, per smetterla di considerarci in diritto di sfruttare gli altri e la natura a nostro piacimento. Tutto questo ci permettere di assumere una posizione molto più conveniente per aspettare un vero miracolo, che non abbia a che fare col divino, ma con la nostra predisposizione verso ciò che ci circonda.

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