"La Casa di Carta” è lo Stranger Things dei populisti - THE VISION

“Nel 2011 la Banca Centrale Europea ha creato dal nulla 171mila milioni di euro. Proprio come stiamo facendo noi, però alla grande. 185mila nel 2012, 145mila milioni di euro nel 2013. Sai dove sono finiti tutti quei soldi? Alle banche. Direttamente dalla zecca ai più ricchi. Qualcuno ha detto che la BCE è una ladra? Iniezione di liquidità, l’hanno chiamata. E l’hanno tirata fuori dal nulla Raquel, dal nulla.” Questa invettiva potrebbe essere facilmente attribuita a un Gianluigi Paragone, a un Di Maio – non quello fresco e azzimato del post voto, ma il giovane naïf di un tempo – a un Salvini, o a un Di Battista neogenitore in collegamento da casa propria durante una puntata di Otto e mezzo. Non questa volta: la filippica in questione infatti ha ben altro autore, né italiano né politico.

Da giorni in Spagna la zecca di Stato si trova in mano a una squadra di rapinatori professionisti che, con una cinquantina di ostaggi (tra cui la figlia di un importante ambasciatore britannico), continuano a stampare banconote a palate. I criminali adottano nomi di città per mantenere celata la propria identità agli occhi dei compagni e tutti, prigionieri compresi, indossano un’inquietante maschera con impressa la faccia di Salvador Dalì. È la rapina più ambiziosa di sempre: oltre due miliardi di euro, appena stampati. Fuori dalla zecca, nascosto in uno scantinato buio e umido, un uomo di mezza età, con la barba e un fascino da intellettuale, gestisce il colpo a distanza, trattando con la Polizia. Si fa chiamare “il Professore” ed è la mente di questa operazione: l’ha ideata nei minimi dettagli, dedicando alla sua progettazione quasi metà della propria vita.

Non è una notizia reale, ovviamente, ma il soggetto della fortunata serie tv La casa di carta, di cui Netflix ha rilasciato giusto qualche giorno fa la seconda stagione, e se ancora non vi siete messi al passo con le puntate, vi avverto che parlerò proprio della sua trama. Siamo verso la fine della rapina, e il Professore sta parlando con Raquel Murillo, ispettore incaricato del caso e, allo stesso tempo, amante di quest’ultimo – ma questa è un’altra storia. È proprio qui che il Professore inizia a inveire contro la Bce e le banche. Vuole far capire a Raquel che la differenza tra giusto e sbagliato è molto labile. “Ti hanno insegnato a distinguere il bene dal male, ma se quello che facciamo noi lo fanno anche altri ti sembra giusto?”, chiede il Professore all’ispettore ammanettato.

All’avvicinarsi del finale di stagione, gli indizi più o meno sibillini che si rincorrono per tutta la durata della vicenda ci vengono restituiti in una forma più chiara: la rapina, che è diventata lo scopo ultimo della vita del personaggio interpretato da Álvaro Morte, non è solo un espediente come tanti altri per fare soldi facili. Certo, anche lui vuole diventare ricco, ma non è questa la ragione principale del colpo alla zecca. Il Professore infatti è un idealista, ma non solo: si sente un partigiano. Tutti i rapinatori lo sono. Ed è per questo che cantano Bella ciao” a più riprese durante il susseguirsi delle vicende. Una banda di delinquenti scapestrati, ognuno con la propria storia travagliata di reati e drammi personali, guidati da un intellettuale illuminato: ecco la Resistenza 2.0, che combatte l’establishment politico e finanziario, lo inganna e mostra davanti all’opinione pubblica le sue contraddizioni. Così, mentre si lotta, capita anche di morire in trincea. Come il cinico Berlino, ultima retroguardia che protegge, dietro il fuoco della mitragliatrice, la fuga dei compagni. Dopotutto anche il nonno del Professore perse la vita proprio facendo la resistenza, quella vera; ecco spiegato perché il nipotino crebbe con in testa quei valori e quella narrazione rivoluzionaria.

Tutto ciò suona molto familiare, e a sinistra. Non sono, questi, echi di Gramsci? L’intellettuale al servizio del popolo, che lo guida, lo istruisce, nella lotta contro la classe dominante. Un popolo che ne La casa di carta è rappresentato in primo luogo dal gruppo di rapinatori, tutti di estrazione popolare e insofferenti al potere costituito. Si pensi così alla sensibilità degli sceneggiatori nel mettere in risalto il gap di classe nella storia d’amore tra la piccolo-borghese Mónica Gaztambide e il classico tamarro di periferia Denver. Quest’ultimo, peraltro, accusato di plagiare una povera donna indifesa che agli occhi della banda soffrirebbe della sindrome di Stoccolma, solamente perché risulta difficile da credere che il loro amore sia puro, vista la differenza sociale . Ma non solo: è inevitabile notare come all’interno della banda gli ideali del Professore trovino rifugio sicuro nella figura del padre di Denver, Mosca, che è un socialista convinto. Nato il giorno della festa del lavoro e operaio in miniera per anni, è lui l’anima semplice e paterna che guida la squadra sotto l’egida del buonsenso fino alla fine dei giochi.

La strategia che sottende alla rapina identifica nell’opinione pubblica il vero ago della bilancia di tutta l’operazione. La grande messinscena del Professore infatti è un monito indirizzato al popolo spagnolo e a quello di tutto il mondo. “Guardateci fregare il sistema, noi siamo dalla vostra parte, anche noi odiamo la Bce.” Questo è il messaggio che i rapinatori vogliono far passare. E il bello è che funziona, il popolo rimane sempre dalla parte dei rapinatori, sia durante che dopo il colpo.

Alziamo per un solo momento il viso dallo schermo del pc, mentre siamo immersi nel binge watching della serie tv spagnola. Basta appena un secondo per ricollocare la narrazione sovversiva de La casa di carta nell’universo culturale postmoderno. Gli esempi sono molti, ma in particolare i film che forse meglio incarnano la ribellione contro i detentori del potere mondiale sono due: Fight Club e V per Vendetta. E per quanto il primo dei due possa viaggiare a mio parere su un altro livello rispetto al secondo, questo però non nega il fatto che anche nella storica pellicola con Brad Pitt ed Edward Norton la società venga dipinta secondo canoni populisti, in questo caso spinti all’estremo, anche oltre il recinto dell’etica. Secondo Tyler Durden infatti il potere finanziario deve essere destabilizzato tramite qualsiasi mezzo per dare inizio a una nuova, più giusta, epoca.

Più del racconto di Palahniuk, però, è V per Vendetta a meritare una menzione d’onore per somiglianza con La casa di carta; in primis sotto l’aspetto del culto che è riuscito a costruire attorno ai personaggi e alla stereotipizzazione che sottende alla narrazione rivoluzionaria, più o meno verosimile, che nel film di orwelliana memoria diretto da James McTeigue raggiunge picchi di kitch notevoli. V, come il Professore, è la macchietta del rivoluzionario senza tempo, un mix di solitudine, intellettualismo e grandi ideali. Inoltre, come V, anche i rapinatori indossano una maschera e combattono l’establishment a modo loro, anche se magari non a colpi di spada. È incredibile l’hype che si è creato attorno al personaggio che si nasconde dietro la maschera di Guy Fawkes, forse uno dei ribelli più amati della filmografia recente, il tutto a suon di frasi fatte e di immagini facilmente vendibili sui social, con foto profilo che ammiccano alla rivoluzione – cosa che si è verificata peraltro anche con le immagini de La casa di carta.

Questi esempi ci dimostrano che noi, il popolo, rimaniamo sempre dalla parte di chi si ribella, anche se spesso, purtroppo, ingenuamente o indebitamente. La colpa della politica, dell’economia, della polizia è solo quella di esistere, di perpetuare attraverso la loro presenza all’interno della società – che è facile scordare essere saldamente democratica – una lotta tra buoni e cattivi, tra la bontà popolare e un potere viziato e dispotico. Una faida che evolve e trova sempre nuove sponde dove fare pressione, nell’immaginario collettivo così come nella realtà. Dall’industria culturale alla politica, dall’infotainment al bar sotto casa, il rancore dissimulato concorre sempre di più a costruire un vacuo senso di frattura sociale escatologica. È molto semplice immedesimarsi in una narrazione superficialmente sovversiva come quella proposta da La casa di carta. Ed è proprio per questo che la serie funziona: ci fa sentire dalla parte giusta, mentre allo stesso tempo godiamo nel sentire i nostri neuroni specchio eccitarsi fino a bruciare ogni residua parvenza di buonsenso.

Ecco che alla fine tutto torna. La casa di carta ci insegna che il populismo è la forma politica più immediata e che mette d’accordo tutti. Piace al popolo iberico come piace anche a chi ha passato pomeriggi interi comodamente davanti al pc assorbito da una storia – diciamolo apertamente, malgrado i giudizi soggettivi – molto appassionante. Non dobbiamo lamentarci allora se la sinistra è in crisi, e soprattutto se non si riesce a colmare quella frattura profonda che, come tutti ben percepiamo ogni giorno, riguarda la questione culturale.

Dopotutto, non c’è dialettica che tenga. Per dirlo con il Professore: “In una partita tra Brasile e Camerun, chi vorreste che vincesse? Il Camerun. Se notate, istintivamente, l’essere umano sempre prende le parti dei più deboli, dei perdenti. Quindi se noi mostreremo al mondo le nostre debolezze, le nostre ferite, che siamo sul punto di arrenderci, susciteremo una grande commozione.” Sotto sotto, anche noi teniamo ogni volta per il Camerun. E il Camerun ti fa fare incetta di voti, sempre. Perché il Camerun è solo un simbolo che ha poco a che fare con la realtà.

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