Il Miracolo è la migliore serie italiana dopo Gomorra

Il dibattito sulle serie tv italiane si sviluppa sempre più o meno nelle stesse direzioni: ci chiediamo, scuotendo la testa con disapprovazione, perché vengano rinnovate infinite stagioni di Don Matteo o di polizieschi vari con protagonisti à la Gabriel Garko, pur sapendo che si tratta di prodotti che funzionano bene e che non c’è in realtà nessuna ragione per cancellarli. Quando invece un’eccellenza nostrana spicca anche all’estero, siamo soliti fiondarci in celebrazioni commosse e incredule o in alternativa a sventolare bandiere di dissenso. È il caso di Gomorra, del Young Pope sorrentiniano o di Suburra, centri del dibattito su un possibile – e in parte effettivamente realizzato – exploit italiano nel mercato delle serie internazionali. A mio parere, le due categorie possono tranquillamente convivere, e potremmo tollerare sia una dose di prodotti in stile Un medico in famiglia – come Tutto può succedere, serie gradevole e intelligente, anche se in formato famiglia Rai – che una spinta verso il mondo oltre le colonne d’Ercole che ci consacri al tanto agognato mercato estero. In realtà, poi, ci sono pure le eccezioni come Montalbano, che nonostante il formato pienamente conforme alle policy della televisione nazionale si scaglia con prepotenza anche molto al di fuori del nostro Paese. È chiaro che negli ultimi anni ci siano state tutte le intenzioni di alzare la posta in gioco e di espandere il raggio d’azione della serialità italiana, oltre ai singoli casi fortunati come quello del commissario di Vigata.

Il rischio che si corre nel porsi obiettivi ambiziosi – anche se in realtà non lo sono poi così tanto, considerato che il cinema italiano nel corso della storia è stato spesso esportato – è di far prevalere la parte formale, sperando che funzioni da traghetto per l’estero. Non basta dare a una serie l’aspetto di una produzione importante nella quale si sono investiti un pacco di soldi per avere un risultato effettivamente di buona qualità. È il caso di 1992, per esempio, che nonostante avesse tutta l’aria di uno show più che dignitoso, a me è sembrato mancasse molto dal punto di vista della scrittura – tant’è che non sono riuscita ad andare oltre la metà della prima stagione. E magari mi sbaglio, non le ho concesso il giusto tempo, ma di solito quando la noia mi attanaglia tanto in fretta difficilmente riesco a riqualificare qualcosa. Lo scorso 8 maggio, però, sono andati in onda su Sky Atlantic i primi due episodi de Il Miracolo, la serie che potrebbe essere in grado di mettere d’accordo sia i detrattori del povero Don Matteo che gli esigenti del made in Italy. E il motivo per cui potrebbe essere annoverata tra le cose che vale la pena di vedere anche se non sei nato nel Bel paese è molto semplice: è scritta bene. Non c’è solo un contorno di luci e atmosfere che rifuggono dalla sensazione “troppo italiana” del set in stile Gli occhi del cuore, ma ci sono anche un intreccio interessante e personaggi che non rimangono sospesi in aria, schiavi della loro funzione narrativa.

Il principale merito di questa combinazione azzeccata è di chi l’ha scritta, Niccolò Ammaniti (insieme a Francesca Manieri, Francesca Marciano e Stefano Bises). Pur non essendo un’appassionata di questo autore, devo riconoscergli il merito di aver costruito una trama davvero affascinante, che gioca molto bene con la dualità del sacro e del profano, della carne e dello spirito, alla base di tutta la serie. In un’epoca in cui la fede è sempre meno presente nelle nostre vite, mentre lascia spazio al progresso laico – o almeno così si spera – l’unico modo per entrare in contatto con la misticità delle nostre profonde origini cristiane, per definirle con Benedetto Croce, è agganciarle all’aspetto più estetico e misterioso. Non ho mai recitato la preghiera prima di andare a dormire, ma se qualcuno mi racconta di un esorcismo o di un fenomeno bizzarro – un miracolo, appunto – provo comunque un leggero brivido. E da un punto di vista prettamente immaginifico, non si può negare il fascino della simbologia cristiana, altrimenti nell’ultimo Met Gala non avremmo visto modelle, attrici e cantanti avvolti in pizzi neri, croci d’oro, aureole e sfarzo papalino. Le Madonne che piangono, come quella al centro della trama de Il Miracolo, sono proprio il colpo di coda più inquietante e allo stesso tempo affascinante che la spiritualità può fornire nella contemporaneità progressista, in cui tutto ha una spiegazione razionale. L’idea di inserire un evento del genere nella vita del più logico e lucido dei personaggi, il Presidente del Consiglio che lotta contro una possibile uscita dell’Italia dall’Europa, è una trovata che dà spazio a un’articolazione complessa dei vari protagonisti. Il miracolo, infatti, tocca solo chi non ha fede, o chi l’ha persa: una scienziata, un prete corrotto sia da un punto di vista spirituale che carnale, una donna annoiata e incattivita – una stronza, per dirla altrimenti.

Quello che inizialmente mi aveva reso scettica nei confronti dei primi quattro episodi de Il Miracolo era l’atmosfera in bilico di un’Italia decontestualizzata e non veritiera. La moglie del Presidente la chiamano la “First lady”, e viene investita di un ruolo sociale e pubblico che in realtà qui non esiste – per quanto Agnese Renzi possa essere stata al centro dell’attenzione mediatica per qualche maglione sbagliato. Anche il Primo Ministro stesso, con quell’aspetto glaciale e risoluto sembra molto distante dagli omologhi italiani che ho visto da quando sono nata a oggi, cioè da subito prima della discesa di Berlusconi. In realtà mi sono ricreduta piuttosto in fretta, attingendo con più decisione al principio di sospensione dell’incredulità e accettando che, in effetti, non mi sarei mai immaginata un Mario Monti alle prese con una situazione simile. Anche la moglie del presidente Fabrizio Pietromarchi, Sole, può in apparenza risultare una caricatura di qualche desperate housewife – e per certi versi lo è – ma il suo carattere forzatamente antipatico serve proprio a mettere in risalto la crisi della normalità che investe la famiglia presidenziale, l’ondata di dubbio che travolge la razionalità del quotidiano.

Nel suo caso, a differenza del marito che si trova a dover far fronte a una questione nazionale (o universale, in realtà) come una statuetta della Madonna che piange nove litri di sangue ogni ora, lo stravolgimento metafisico si articola su un piano privato: il carattere carnale, reale, attaccato con tutta la forza alla materia di Sole, si contrappone alla presenza di una tata estremamente religiosa, una presenza monacale che turba la vita della donna dal momento in cui i suoi figli cominciano a dedicarsi a strani riti mistici e a sepolture di animali. La tata porta in casa la morte e il castigo, la signora Pietromarchi invece vuole per la sua famiglia un luogo pieno di vita e piaceri: annoiata organizza feste, ha rapporti clandestini nei bagni dei gran gala con tenori spagnoli, tenta di corrompere l’animo puro della ragazza slava che accudisce i suoi bambini con cibo dall’aspetto erotico. È il turbamento che porta la castità, sia metaforica che letterale, un ricatto morale che obbliga chi assiste a interrogarsi sulla propria integrità. Quando hai in casa un santo, non puoi non domandarti quali siano i tuoi peccati, e così Sole, nonostante il fastidio che può suscitare un personaggio simile, ci invita a riflettere anche su questo aspetto, al tanto decantato “scagli la pietra chi è senza peccato”, al senso – legittimo o meno – di una rinuncia del corpo in favore di un guadagno dell’anima.

Fuori dall’abitazione del Primo Ministro, invece, attorno alla statuetta, gravitano altre anime in pena, tutte alla ricerca di una risposta e di una soluzione che arrivi dall’alto. La biologa Sandra, interpretata da una sempre mormorante Alba Rohrwacher, prova a mettere insieme scienza e religione in un cocktail di superstizione e disperazione nei confronti della madre che vive paralizzata in un letto. Spera nel miracolo dove la medicina non è arrivata, cura la sua ossessione per la malattia che abita la sua casa con un ricorso divino, o con la speranza di poter essere lei stessa una sorta di deus ex machina tra l’onnipotente e la donna morente. Padre Marcello, invece, vero punto di forza della serie – Tommaso Ragno, l’attore che lo interpreta in Francia ha già vinto un premio – è la quintessenza della contraddizione della religione cattolica: incentrata sullo spirito, ma anche ossessionata dal corpo. La vita di un prete dissoluto che ha tradito il suo passato da missionario per dedicarsi al gioco d’azzardo e alla prostituzione è un ossimoro più reale delle mille ipocrisie di una vita di fede. Ma la svolta esistenziale di Marcello, come si vede nel quarto episodio de Il Miracolo, ha basi scientifiche: non è Satana ad averlo corrotto e portato nella via del peccato, ma un medicinale con effetti collaterali distruttivi, senza il quale rischierebbe di diventare completamente invalido. Anche per lui, contraddizione che cammina, anima dannata che vaga tra l’inferno e il paradiso, la statuetta potrebbe avere un ruolo fondamentale per ritrovare una fede perduta, o semplicemente un senso a una vita sacrificata per un messaggio nel quale non crede più neppure lui.

Il Miracolo, dunque, spazia su diversi piani e mette in comunicazione gli aspetti più arcaici con i dilemmi contemporanei, come le scene ambientate in un luogo sperduto della Calabria, in una società brutale e antica che non risparmia nessuno e dove la statuetta di plastica della Madonna ha cominciato a piangere sangue, che si alternano a una Roma più fredda e nascosta, diversa da come siamo abituati a vederla rappresentata di solito. È una serie che ha saputo evidentemente trovare una via d’ingresso al luogo in cui le grandi produzioni anglosassoni riescono a muoversi con disinvoltura da ormai tanti anni. Non so se riuscirà effettivamente a scavalcare i confini italiani, o se confermerà anche nel suo finale i presupposti di queste prime quattro puntate, ma una cosa di sicuro posso riconoscergliela: è equilibrata e coerente. Anche se tira in ballo delle caratteristiche tipiche del nostro Paese – un po’ come tutte le serie che vengono considerate adatte al pubblico estero, che puntano sulla criminalità o sull’enfasi di certi elementi nostrani – riesce comunque a rimanere bilanciata, senza precipitare in una parodia da vendere alle televisioni internazionali. Ma, a parte questa smania di dover sempre e comunque cercare l’elemento di potenziale esportazione in qualsiasi cosa produciamo in campo artistico, possiamo anche semplicemente godercela da casa nostra, e se agli altri non piace va bene comunque.

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