Perché Fight Club ha rovinato una generazione di uomini

Fight Club è un film che ha segnato il cinema e la cultura anni Novanta. Il film di David Fincher è indiscutibilmente diventato un cult e la storia, basata sul romanzo epocale di Chuck Palahniuk, è rimasta impressa nell’immaginario di moltissime persone, soprattutto ragazze e ragazzi giovanissimi. Il film con Brad Pitt ed Edward Norton, con la sua filosofia anticapitalista, ha convinto gli spettatori ad abbracciare quelle che sarebbero le sue tematiche portanti, ovvero la decadenza del mondo occidentale e la liberazione dalle catene della vita moderna. Ma riguardando il film attraverso un’ottica più analitica, si può vedere come il romanzo, e quindi il film di David Fincher, possieda nella sua trama una chiara linea rossa che ne svela caratteristiche più inquietanti e disattese. Fight Club non è una semplice storia contro l’asservimento alle logiche consumistiche, ma realizza dapprima una critica poco approfondita e populista sul capitalismo occidentale, beandosi di una violenza e di un odio non sempre giustificati – per quanto la violenza e l’odio possano esserlo – e addirittura finisce per accogliere, come conseguenza naturale di una ribellione anti-sistema, l’idea di formare un gruppo terroristico di matrice anarco-fascista col fine di liberare l’uomo moderno dalla gabbia in cui lo costringe il sistema.

Edward Norton interpreta il narratore senza nome del film, che possiamo chiamare Jack, secondo la sceneggiatura. Inizialmente Jack è insonne e depresso. Fa un lavoro modesto, possiede tutto ciò che gli serve ma la sua vita è desolata. Jack ben presto scopre che l’unico mezzo per poter dormire è piangere. Piange tantissimo quando frequenta i gruppi per malati terminali con il cancro ai testicoli. Poi conosce Bob e Marla Singer e da quel momento in poi la sua insonnia (dalla grande valenza simbolica) tornerà a fargli compagnia. “Quando soffri di insonnia non sei mai realmente addormentato e non sei mai realmente sveglio”. Durante un viaggio di lavoro conosce Tyler Durden, un po’ maestro zen un po’ bowery boy, che lo aiuterà a sentirsi vivo. Jack trova così la sua catarsi nella lotta. E il risultato è la creazione del Fight Club, dove, in una cantina sotterranea, gli uomini si riuniscono e si prendono a pugni per provare gli effetti liberatori del dolore.

Nel corso della narrazione capiamo perfettamente come Jack non sia una persona capace di vivere felicemente. La sua capacità di sentirsi vivo è stata abbattuta dal raggiungimento di un sogno (americano) fallace. Jack è vittima di una cultura del consumo che dà più valore ai bei mobili, a un lavoro adeguato e a un abbigliamento rispettabile che ai valori, estremamente maschilisti (e tipicamente americani), come coraggio e forza. Ed è in questo punto che Tyler interviene, identificando i suoi problemi e facendogli scoprire come ci si possa sentire uomini veri combattendo e picchiandosi l’un l’altro: solo nel dolore si può dimenticare la fatuità di Dio e diventare uomini.

Tyler rende Jack un uomo libero attraverso la celebrazione della violenza, al limite della pornografia. Ma Palahniuk, quando ha scritto Fight Club, lo ha concepito come una satira, non solo verso la società occidentale ma verso gli orrori che abitano il maschio bianco, considerato che le figure femminili sono praticamente assenti, fatta eccezione per Marla Singer. Eppure la critica che viene mossa verso questi uomini, rabbiosi e sfiduciati, abitati dal malessere, che si sentono vivi solo quando provano dolore e fanno del male, durante la narrazione del film si perde. E la reazione del pubblico, negli anni, è stata quella di lasciarsi affascinare dai comportamenti distruttivi di Tyler e Jack, trascurando le argomentazioni e l’esposizione analitica di Palahniuk e di Fincher. Per molti aspetti, Fight Club sembra essere il sequel di Arancia Meccanica, ma la favola nichilista di Palahniuk ci spinge ad abbracciare qualcosa di populista, offensivo e altrettanto diseducativo, mentre lo sta criticando. Il film espone i suoi aforismi e le sue frasi a effetto come “Le cose che possiedi alla fine ti possiedono”, ma ciò che si evince è il decadimento di una generazione perfettamente benestante e lamentosa che si sente rovinata dai privilegi delle donne e da un’economia in grande espansione.

La femminilizzazione degli uomini, come anche la castrazione e l’evirazione sono temi ricorrenti nel film. Queste tematiche vengono affrontate, in modo velato, attraverso alcune scene come il gruppo di supporto per malati di cancro ai testicoli, o il fatto che gli uomini piangano, si aprano, esplorino il loro mondo interiore. In un certo senso, la colpa per la femminilizzazione degli uomini non è mai rivolta espressamente verso le donne, eppure la donna è chiaramente il simbolo di una lacerante colpa della società, una malattia da estirpare: “Se avessi un tumore lo chiamerei Marla”. Una frase di Tyler è essenziale per capire quanto il film sia intrinsecamente maschilista: “Siamo una generazione di uomini cresciuti da donne, mi chiedo se un’altra donna è veramente la risposta che ci serve”. Secondo Tyler, per gli uomini è stato dannoso essere stati cresciuti dalle donne, e per questo non si dovrebbe sentire il bisogno di averne accanto un’altra. Come Fight Club afferma, viviamo in un mondo in cui cerchiamo di esprimere noi stessi attraverso il consumo femminilizzato: solo attraverso l’alienazione dalle istituzioni e la mascolinizzazione dell’io, l’individuo è libero. Pertanto Jack sostituisce la sua evirazione iniziale con lo sfregio inferto da Tyler, la bruciatura di una mano, il primo passo verso l’indipendenza come ingresso in una ideologia di contro-cultura e anti-sistema.

“I nostri padri per noi erano come Dio”. Per Tyler, Dio è un uomo e la donna non è minimamente presa in considerazione nella sua idea di redenzione-liberazione. L’unica esistenza femminile nel film è Marla Singer, una donna che vive in funzione del sesso, e che ha frequenti e violenti rapporti sessuali con Tyler/Jack, la cui forza aiuta lo spettatore a vivere il film come un racconto di dominazione maschile che lavora per soggiogare le donne. Marla rappresenta lo scollamento, la diseguaglianza della società patriarcale in tutta la sua brutalità.

A metà del film Tyler e Jack decidono di ampliare il Fight Club, che vive delle sue celeberrime regole di segretezza e di anti-femminilità. Radunano sempre più adepti fino alla creazione di una cellula terrorista denominata Progetto Mayhem, al centro del quale pulsa il desiderio di distruggere l’intero sistema economico americano e creare il caos più totale. Il cameratismo del Fight Club degenera fino alla formazione di un gruppo che onora l’iconografia nazista, i cui membri si rasano i capelli a zero, indossano uniformi militari completamente nere, veri e propri skinheads senza qualità e senza nomi.

“Non siete speciali, non siete un pezzo bello, unico e raro. Siete materia organica che si decompone come ogni altra cosa”. La società fascista rappresentata nel film nasce a causa dell’insoddisfazione sociale, della decadenza capitalista, e con il progetto Mayhem gli uomini percepiscono di avere nuovamente il controllo della loro vita, di avere uno scopo, anche se ciò significa seguire ciecamente un leader e rinunciare ai loro nomi.

Fight Club glorifica la violenza, è un vangelo di anarchia e fascismo. L’unica differenza è che quest’ultimo, a differenza della prima, ha bisogno di un capo, come Durden. Il film è seducente proprio perché coglie, ma non difende, l’ideologia di Durden; perché offre, attraverso il Progetto Mayhem, un’alternativa unica per sconfiggere il capitalismo. L’obiettivo di Tyler è abbattere la civiltà, nobilitare la violenza maschile per un’esistenza più pura e primitiva. Fight Club esplora l’alienazione dell’uomo moderno e ci mostra come resti facilmente affascinato dalle logiche fasciste; è un problema tragico che sottolinea quanto sia allarmante che così tanti giovani restino attratti da una figura come Tyler, fino a idolatrarlo e a emularlo, com’è accaduto ad un gruppo di ragazzi spagnoli due anni fa e a uno di giovani piacentini ultimamente. Ma Tyler Durden non è un eroe, non sta mettendo in piedi un nuovo mondo in cui vivere, non sta cambiando nulla: è il paladino della follia misogina. Il racconto è ovviamente satirico, non è un manifesto rivoluzionario, le visioni di mascolinità ultra violenta sono aberranti. Fight Club è un film che incita alla violenza e che incoraggia il nichilismo.

La violenza che invade la pellicola è sia sintomatica che narcisista. C’è gente che desidera solo vedere il mondo implodere, e non si preoccupa che tutto possa bruciare: quel tipo di nichilismo è parte integrante del tessuto narrativo del film. Jack alla fine della storia viene ritratto mentre in piedi, all’ultimo piano di un grattacielo, insieme a Marla osserva i palazzi che crollano. Il protagonista rimpiange ciò che sta accadendo, non lo vuole e non l’hai mai desiderato. Eppure, questo non è il messaggio che si coglie per primo. Dalla visione del film si esce galvanizzati, assuefatti alla vista del sangue e alla violenza emersa per due ore. Ma se la maggior parte delle persone non coglie la pungente e intrinseca satira del film Fight Club forse non può definirsi un film satirico.

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