L'epica zombie racconta l'umanità in crisi - THE VISION

Quando si parla di zombie il primo nome a venire in mente di solito è quello di George Romero, il regista che ha fatto del genere revenant un cult. In realtà fu un giornalista, William Seabrook, il primo a menzionare i morti viventi in un suo reportage dall’isola di Haiti, dove venne a contatto con alcuni sciamani che riducevano gli abitanti in uno stato di decesso apparente. Poco importa se, negli anni Ottanta, l’antropologo Wade Davis riuscì a dimostrare che alla base delle pratiche rituali haitiane c’era l’uso di neurotossine: lo zombie aveva ormai travalicato i confini dell’immaginario collettivo.

William Seabrook
Wade Davis

Romero va annoverato tra coloro che hanno presentato al pubblico occidentale lo zombie dandogli le sembianze di un ordinario cittadino americano. Sviluppare un racconto a partire da vicende reali, o presunte tali, era nell’antica Grecia prerogativa della tradizione orale e ci sono voluti dunque secoli affinché si formasse un vero e proprio racconto su personaggi e leggende. Hollywood ci ha messo circa vent’anni a creare un’epica dello zombie, riuscendo a mettere in piedi un filone che gode ancora di vita lunga e fiorente, come dimostra il successo delle ultime due serie prodotte dalla AMC, The Walking Dead e Fear the Walking Dead. Non solo: il genere revenant è stato oggetto di tutte le forme narrative contemporanee, dal reportage e saggio scientifico al racconto cinematografico e televisivo. La ragione di questa trasversalità può dirci molto su di noi.

George Romero

Ciò che spaventa di questa creatura è la capacità di trasformarci in qualcosa di molto lontano dall’essere umano: un ominide senza coscienza né consapevolezza, un corpo che non evolve, affetto da regressione motoria, incapace di formulare parole e con un incontrollabile istinto a mangiare. Quando nel ’32 uscì nelle sale Freaks, di Tod Browning, gli spettatori furono respinti dall’idea di vedere in scena personaggi deformi, per poi trovarsi a dover gestire un senso di colpa nei confronti dei medesimi. Come ha esplorato in un suo saggio lantropologo Leslie Fielder, nel freak entrava in gioco la consapevolezza che attori e spettatori condividessero, comunque, la stessa umanità. Ma i conti non tornano nel genere revenant, perché lo zombie non ha un’umanità da spartire. Questo spiega anche perché gli sceneggiatori del genere abbiano presto abbandonato le teorie sulle origini della trasformazione: è come se l’ansia infantile che spinge a indagare sui “perché” perdesse di senso davanti alla minaccia dell’estinzione del genere umano. Quello tra zombie ed esseri umani, nei suoi lati surreali, è uno scontro di civiltà di proporzioni immense, e sarà pure che la mole di film sul genere ci permette di sublimare questo panico collettivo: il terrore di un collasso rimane e non si tratta soltanto di fiction.

Freaks, film del 1932, diretto da Tod Brownin

Marco Pacini su L’Espresso ha dedicato un reportage al nostro modo di esorcizzare la paura della fine del mondo, dove la finzione e i romanzi distopici mascherano il timore reale di una conclusione prossima. Cita le parole del biologo Edward Wilson:  “Per la prima volta nella storia tra coloro che riescono a prevedere ciò che avverrà tra più di un decennio si è sviluppata la convinzione che stiamo giocando un finale di partita globale. […]. La popolazione umana è troppo numerosa per sopravvivere al sicuro e in condizioni di benessere. L’acqua potabile è sempre più scarsa e l’atmosfera e i mari sono sempre più inquinati. [ … ] Il clima si sta modificando in modi non propizi alla vita, tranne che per i microbi, le meduse e i funghi”. Più che fine del mondo, sarebbe insomma un ‘mondo senza di noi’ ”. Come osserva Pacini, basta fare un giro nelle librerie o leggere i giornali per rendersi conto di quanto la crisi globale sia al centro delle nostre attuali preoccupazioni.

Edward Wilson

Negli Stati Uniti l’ansia della fine assume da anni risvolti ideologici: esiste una lunga tradizione che si rifa alle teorie dell’Armageddon di stampo fondamentalista, come gli insegnamenti di Rushdoony e le “teologie dominioniste”. Negli ultimi decenni questo filone ha assunto sempre di più un aspetto politico, arrivando a influenzare diversi presidenti americani. Steve Bannon, l’ex braccio destro del presidente Donald Trump, è da sempre un teorico dell’Apocalisse. La sua visione manicheista pone l’uomo ai vertici del dominio sul mondo, con risvolti dannosi per il creato, che diventa un luogo da sfruttare più che da preservare.

Ma sono altri i presupposti che rendono la narrazione sulla fine del mondo un orizzonte sempre più reale. Un recente articolo del New York Times disamina la sfiducia che serpeggia tra i giovani americani nei confronti del futuro: i precari equilibri geopolitici della presidenza Trump hanno reso familiare alle giovani generazioni l’idea di una minaccia globale inevitabile.

Il mondo distopico dove zombie barcollanti deambulano, dunque, altro non è che una realtà che si disfa gradualmente della presenza umana, fagocitandola pian piano. Le conferenze nazionali sui cambiamenti climatici e i preoccupanti dati sulla soglia mondiale di inquinamento traducono la nostra reale minaccia all’esistenza del pianeta. Il filosofo Rocco Ronchi, autore del saggio Zombie outbreak, scrive: «Quando nella terra dei vivi i morti cominciano a camminare, l’Apocalisse è già in corso, il mondo dell’uomo è già finito». La prima puntata di The Walking Dead è fortemente simbolica in tal senso: lo sceriffo Rick, ignaro di ciò che stia accadendo ad Atlanta, si aggira in città in sella al proprio cavallo. La sua presenza, in opposizione all’ambiente dominato da grattacieli mastodontici, non può che interpellarci sul nostro attuale modo di vivere. Il silenzio surreale interrotto solo dagli zoccoli evoca quelle domande spesso sovrastate dalla globalizzazione. La nostalgia espressa nei confronti di un mondo primordiale, fatto di piccole comunità, sottende una critica feroce alla nostra situazione esistenziale. A esser presa di mira è la degenerazione del capitalismo: non è un caso che L’alba dei morti viventi sia uscito nei cinema proprio nel ’68, e una delle sequenze più iconiche del film sia quella in cui gli zombie appaiono ammassati sulle vetrine di un centro commerciale – una scena disturbante in un luogo simbolo del consumismo di massa. L’orda disordinata di zombie diventa così una metafora grottesca dell’uomo schiavizzato da bisogni non necessari. La società neo-liberista in cui viviamo ha operato una mutazione antropologica sulla nostra evoluzione sociale e questo è ancora più evidente nell’uso, talvolta spasmodico, delle tecnologie. Nel consumismo di massa i beni diventano oggetti di prestazioni usa e getta, consumate in modo superficiale.

L’alba dei morti viventi
The walking dead

La gestualità dello zombie, così primordiale, è più affine alla mimica dei nostri tempi, fatta di swipe e click. Per lo storico Yuval Noah Harari, autore del saggio Homo Deus, la tecnologia sta modificando a fondo il nostro ecosistema e la sua portata futura ci è ancora ignota: “Il ritmo e il volume del flusso di dati nel mondo contemporaneo è tale che gli elettori non sono più in grado di reggerlo». The Walking Dead e Fear the Walking Dead non risparmiano questa critica sferzante al modo di vivere di oggi. Il pessimismo antropico che pervade ogni puntata è evidente nell’ambiente in disfacimento. I sopravvissuti alla post-apocalisse si organizzano in piccole comunità e, a dispetto di un senso di accoglienza iniziale, diventano una minaccia l’uno per l’altro, tanto quanto gli zombie. Gli spazi umani riorganizzati si trasformano in luoghi di regressione sociale e violenza: la setta di cannibali di Terminus o il violento Neagan in The Walking Dead rappresentano un modo di convivenza che ha cancellato ogni norma in nome della bieca lotta alla sopravvivenza, anche a costo di una parziale eliminazione del genere umano.

Nell’ambiente post-apocalittico dei morti, dunque, la relazione diventa un rapportarsi secondo regole di vantaggio personale. Lo zombie contribuisce al processo di distruzione dell’umanità che è già in atto nell’uomo stesso. In fondo, l’immagine distopica che emerge dei sopravvissuti ci stimola a domandarci se stiamo preservando o davvero disintegrando la nostra stessa civiltà.

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