I duellanti di Ridley Scott è la metafora perfetta dell’inutile ossessione umana per la competizione - THE VISION

Nel 1977, il giovane regista britannico Ridley Scott lasciava definitivamente il mondo della pubblicità per esordire sul grande schermo con I duellanti. Tratto da un racconto di Joseph Conrad, il film è ambientato nella Strasburgo napoleonica di inizio Ottocento e racconta del giovane ufficiale dell’esercito Armand d’Hubert che viene incaricato di arrestare un altro ufficiale, Gabriel Feraud, colpevole di aver ferito il nipote del sindaco durante un duello d’onore. Il primo incontro tra i due ufficiali, ben interpretati da Keith Carradine (d’Hubert) e Harvey Keitel (Feraud), si presenta subito come il possibile preambolo di una contesa tra due personalità molto forti e allo stesso tempo strettamente dipendenti dalla necessità di ribadire la propria autorità sull’altro: un sentimento che inizialmente viene alimentato solo da Feraud, straripante d’orgoglio e accecato dal senso di rivalsa per l’offesa ricevuta durante la visita di d’Hubert, per poi attirare mano a mano anche quest’ultimo e tutta la comunità.

La contesa originale, che vede i due scontrarsi nel giardino dell’abitazione di Feraud, pone le basi di una vera e propria guerra privata che durerà quindici anni e segnerà la struttura di tutta la pellicola vincitrice del Premio Miglior Opera Prima al Festival di Cannes e che valse a Scott il premio come Miglior regista straniero ai David di Donatello. È proprio da questo duello che iniziano a mostrarsi i due personaggi, con le loro contraddizioni e debolezze velate, magistralmente messi in scena e diretti da Scott: d’Hubert, uomo riflessivo e diligente, soldato sopraffatto dalle provocazioni di Feraud; e Feraud, violento e risolutivo che accende la loro rivalità non appena gliene capita l’occasione. Il film segue quindi una linea narrativa che accompagna l’incessante conflitto tra questi due uomini, nato per motivi banali e legati esclusivamente a un presunto onore militare. La trama non lascia spazio a eventi paralleli o personaggi secondari: ogni elemento esterno serve solo da accessorio per la disputa, realisticamente immotivata nella sua violenza.

Un duello senza fine, inframezzato da scene di vita quotidiana ed episodi bellici, come per esempio l’incontro che avviene durante la terribile ritirata della Grande Armata da Mosca, nel 1812, in cui d’Hubert riconosce tra i superstiti lo sguardo impietrito di Feraud e i due si trovano poco dopo a dover fronteggiare insieme un cosacco incrociato per caso nella steppa gelida e desolata. Ma sono, più che altro, gli equilibri politici plasmati a far ricongiungere i due alcuni anni dopo, in seguito all’esilio di Napoleone e la nomina di Re Luigi XVIII: tutto farebbe pensare a una tregua, a maggior ragione in una fase storica in cui il bonapartista Feraud cade in disgrazia e viene arrestato, mentre d’Hubert riesce a occupare un posto di rilievo nell’esercito monarchico. Ed è invece quest’ultimo che, stuzzicato da un passato che continua a rivivere nella sua mente, chiede al Presidente della Commissione del Tribunale Speciale di rimuovere il rivale dalla lista degli ufficiali bonapartisti condannati a morte, con il desiderio di salvargli la vita solo per poter avere lui stesso la possibilità di togliergliela.

I duellanti rappresenta il dramma generazionale di due uomini che si oppongono l’uno all’altro, ognuno agendo in nome di valori diversi, ma entrambi spinti da un irrefrenabile bisogno di rivalsa che non tende a spegnersi neanche con il passare del tempo, come se fossero legati da una relazione clandestina che li porta a cercarsi incessantemente. Anzi, quel desiderio continua a vivere nell’ombra e attende, silenzioso, la sua occasione per riemergere e creare i giusti presupposti per l’ennesimo scontro. Da una parte d’Hubert, che vive il concetto di onore militare con diffidenza e critica, dall’altra l’irriducibile Feraud, che trova nel duello e nei codici non scritti l’unica soluzione possibile a un conflitto che mette in disequilibrio un certo tipo di regola sociale. Il rinnegare questa assurda e violenta quanto accettata dal sistema socio politico e tradizionale via d’uscita, però, non basta a d’Hubert per allontanarsi da Feraud: il conflitto che coltiva quest’ultimo è infatti prima di tutto una forma di nutrimento e soddisfazione esistenziale per entrambi. Ciascuno vede nell’altro un soggetto da estirpare, ma allo stesso tempo da mantenere in vita per poter esistere, definire per litote la propria identità, come fosse una vera e propria dipendenza reciproca.

Keith Carradine e Harvey Keitel si rincorrono per tutto il film e, mentre la storia dell’occidente viene riscritta e il potere passa di mano in mano, restano avvinghiati ai valori che vigevano nel contesto del loro primo duello. Il gioco delle parti, animato dai loro istinti cavallereschi, diventa gradualmente un’ossessione, trasformando il loro rapporto in uno stato di guerra permanente. L’estenuante competizione tra i due è il motore di un odio nato da futili basi e culminato con l’ultimo duello, in cui però vengono meno le motivazioni stesse di quell’odio così intenso, che ha tormentato entrambi e che al tempo stesso ha dato loro la forza per continuare a vivere. Per questo l’epilogo, apparentemente tiepido, è ancora più sorprendente.

Il loro tormento sembra giustificato soprattutto dall’incolmabile ricerca di competizione, che si può tradurre come chiave di lettura della vita di molte persone ancora oggi.

Il senso di sfida con i propri simili, nelle relazioni affettive, sociali e professionali e in generale in molte possibili situazioni della nostra vita quotidiana, è per certi aspetti lo stesso che sta alla base del conflitto tra d’Hubert e Feraud, che trova le sue radici nella potente componente ossessiva che può caratterizzare in alcuni contesti il nostro confronto con l’altro. Questa ossessione è la stessa che non abbandona Feraud nel film e lo stimola a cercare ovunque il suo antagonista, in virtù di una logica completamente sfasata, un desiderio insostituibile di sopraffazione che supera di gran lunga il senso stesso di rivalità.

Un consistente numero di persone non ha infatti la capacità di intavolare i propri rapporti sociali se non attraverso le modalità dell’offesa, del conflitto e della sfida reciproca. Il desiderio di contesa non per forza ha motivazioni giustificate, eppure accomuna gli individui grazie a una sorta di rituale d’attrazione nei confronti della contesa. La competizione, in questo senso, dà forma a mostri interiori che inficiano gravemente i rapporti personali, spesso portando a costruire legami basati solo su un antagonismo perenne. Conrad poi stila questo breve racconto anche per analizzare il rapporto incolmabile tra la nostra vita quotidiana e la violenza istituzionalizzata del conflitto militare, che affianca e inficia in silenzio il buon senso.

L’opera di Conrad prima e di Scott poi ripercorre quindi il fenomeno che porta alcuni individui a convivere incessantemente con la lotta, come se tutta la loro esistenza si riducesse a un chi cede per primo, chi si piega all’altro definendo la sua superiorità come una sorta di tollerato sopruso. Scott, però, si prende la libertà autoriale di reinterpretare il finale: durante l’ultimo incontro, infatti, d’Hubert condanna Feraud a vivere, obbligandolo però all’oblio e rompendo le catene che lo tenevano imprigionato a quel rito d’onore che si ripeteva in modo irragionevole, simbolo di un grande fraintendimento. Feraud, a sua volta, si ferma a osservare il mondo intorno a sé, che torna almeno ai suoi occhi a vivere nella pace, nel silenzio e soprattutto al di fuori della ripetitività dell’assurdo tarlo competitivo che lo animava. Una vittoria che arriva con il tempo, ma che ottiene chi riesce a sopraffare l’altro attraverso qualsiasi mezzo, anche manipolatorio, e che appare affascinante agli occhi di chi vive questa circostanza ma non ne comprende a pieno le sottili conseguenze. Ed ecco che la violenza mascherata con l’eleganza illusoria del duello cavalleresco è una delle componenti di una dimensione umana che, non potendo sottrarsi al senso della competizione connaturato in noi, lo rende parte della quotidianità normalizzandone l’esistenza. D’Hubert, a suo modo, vive questa costante sfida con il desiderio di liberarsene, ma alla fine lo fa utilizzando quegli stessi strumenti che ha condannato fin dall’inizio e che lo hanno portato a quella logorante situazione.

In una società altamente competitiva come la nostra, il messaggio espresso nel film appare più come un presagio che come una trasposizione ideologica di quello che ci accade intorno. Eventi che ci portano volenti o nolenti a prendere delle decisioni sulla base del confronto con l’altro, con l’obiettivo di oscurare le sue capacità per far emergere le nostre, soprattutto quando intraprendiamo una strada fatta di decisioni ambiziose, in un’ottica di sopraffazione. È proprio quell’ambizione, quel desiderio di sfida e confronto che spesso ci porta a tollerare un modello competitivo anche molto violento che trova la sua forza nella determinazione con cui viene applicato, in modo acritico, perché “è sempre stato così”. Queste giustificazioni, però, non fanno altro che rendere ordinaria la costrizione sociale che ci sprona a dover superare gli altri, grazie a performance sempre più impeccabili e superiori a chi conduce le nostre stesse battaglie quotidiane e ha i nostri stessi problemi e debolezze. Tutto ciò avviene all’interno di un ambiente sociale in cui la vita si pone ormai come una radicata e incessante gara, o ancor meglio “giostra”, a cui si è forzati a partecipare, a qualunque costo, pena l’esclusione e la non esistenza.

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