Dogman è la prova che non è necessario sacrificare il contenuto per la forma

Non so se abbia ancora senso aprire dibattiti sul grande cinema italiano e sulla sua tragica dipartita. Si tende ad adagiarsi su un confortevole senso di nostalgia che legittima ogni carenza attuale, e ne siamo tutti complici. Non ci sono più i Fellini, i Pasolini, il neorealismo e gli Zavattini, però quanta gloria che risiede nel nostro passato, quando Sophia Loren volava negli Stati Uniti come testimonial della nostra bellezza infinita. Ed è vero che l’industria cinematografica non è mai più stata così prolifica e allo stesso tempo valida come in quel frangente immacolato che va dal Dopoguerra agli anni Settanta – esclusa qualche eccezione degli anni Ottanta e Novanta, ma mai tanto abbondanti. Ma è anche doveroso dare a Cesare quel che è di Cesare. È giusto riconoscere quando un regista riesce a smuovere la palude culturale dei tristi anni Zero in cui la tendenza postmoderna di riscaldare minestre dà vita solo a eterne rivisitazioni o rielaborazioni di cose già fatte, viste e sentite. Si parla sempre tanto di Paolo Sorrentino come un faro nella notte della produzione artistica nostrana, e in effetti ha dato più volte prova delle sue innegabili capacità; ma del suo ultimo e tanto atteso film Loro (1 e 2, senza troppe differenze) personalmente mi è rimasta solo una gran voglia di dire in faccia a Toni Servillo che è meglio se continua a parlare in napoletano – oltre a una certa delusione mista a noia. Senza nulla togliere all’uomo che ci ha regalato un Oscar con la dedica più bella di sempre e senza scadere in paragoni inopportuni e sterili, a oggi credo però che il regista italiano che più di ogni altro sta dando prova della sua bravura, rendendo onore al passato che tanto rivanghiamo, sia Matteo Garrone. E il suo ultimo film, Dogman, si merita tutti i minuti di applausi che Cannes gli ha dedicato.

Si tratta di due autori molto diversi, e metterli uno accanto all’altro può sembrare una forzatura. Eppure si tratta anche degli unici due artisti che in campo cinematografico oggi, a livello di grandi produzioni, suscitano forte interesse e dibattito a livello sia nazionale che internazionale. E poi non è colpa mia se hanno deciso di fare uscire i loro film nello stesso periodo: c’era da aspettarsi che sarebbero stati messi a confronto. Ciò che mi sono trovata a biasimare in Loro è stata, come nel caso di altri film di Sorrentino, l’eccessiva discrepanza tra una forma curatissima e spettacolare e un contenuto piuttosto vuoto. Il fatto che dopo aver visto Dogman non abbia provato minimamente questa sensazione mi ha aperto uno spiraglio di speranza sul presente: allora non si deve per forza rinunciare al contenuto in favore della forma. Grazie al cielo – e a Matteo Garrone – no, si può dare vita a un film che abbia delle immagini belle e allo stesso tempo una storia interessante, profonda e complessa. Ma non complicata perché abbia chissà quale intreccio articolato che ci obbliga a sforzarci a tenere il filo della trama altrimenti ci perdiamo il punto: è la complessità della natura umana che fa da protagonista in Dogman, la rappresentazione dei vizi morali e delle zone d’ombra che compongono anche i personaggi più canonicamente “buoni”.

La storia si basa su un fatto realmente accaduto, quello del famoso caso de Er Canaro della Magliana, ma con una rivisitazione narrativa importante. Invece di raccontare la storia fedele di Pietro de Negri, l’assassino del giovane pugile che negli anni Ottanta lo seviziò dentro una gabbia da cane, Garrone riutilizza questa vicenda – già di per sé molto cinematografica – per farne una metafora molto più intensa di una semplice ricostruzione splatter. Al centro del film, infatti, non c’è un criminale folle che gode nel torturare un vecchio amico/nemico, ma un uomo che ci appare sin da subito capace di una dolcezza e di una sensibilità che cozzano con l’ambiente corrotto e fatiscente in cui si trova. Marcello, il protagonista di Dogman, è un concentrato di bellezza, ma non solo per via del suo aspetto così delicato, minuto ed elegante: è bello perché è buono, giusto per ricorrere a ideali greci che fanno coincidere le due cose. Ma la sua bontà non è artificiosa, edulcorata da qualche manicheismo narrativo che mette il buono da un lato e il cattivo dall’altro; è reale perché è anche ambigua, sporca, egoista. Le sue azioni sono determinate dall’esigenza personale di riscattarsi, dal desiderio di poter rendere felice sua figlia, ma anche da una profonda e morbosa fedeltà – proprio come quella dei cani – verso una persona che lo maltratta e lo sfrutta. È questo il suo rapporto con Simoncino, la testa calda di questa periferia così brutta e triste da sembrare finta, il mastino di cento chili che suscita odio e pena allo stesso tempo. Marcello si prende cura dei cani e Simoncino è il più difficile dei randagi, il più violento e pericoloso; e forse non è un caso che il film si apra con un pitbull indemoniato, con le orecchie tagliate e le cicatrici sul muso, che non fa altro che abbaiare e ringhiare ma che Marcello non smette mai di accudire con amore e dedizione.

In Dogman non ci sono solo loro due, ma c’è anche un coro che determina il procedere delle azioni dei due protagonisti. C’è una comunità che respinge Simoncino in quanto outsider, cocainomane violento che spacca nasi e slot machine al bar, e che omertosa e vigliacca programma di espellere tutto ciò che turba l’equilibrio già precario (o inesistente, piuttosto) di un luogo disgraziato, povero e maledetto. E c’è il ricatto del senso di appartenenza, del branco: anche in questo si intravede il parallelismo con il mondo animale, l’inversione della percezione che ci spinge a notare le contraddizioni disumane dell’umano stesso. Il branco, invece di stringersi con forza per la salvezza di uno delle sue schegge impazzite, trama la sua uccisione; allo stesso modo, quando Marcello rimane coinvolto nella rapina che lo condannerà al carcere, il rigetto sarà immediato e violento. Non c’è perdono, non c’è comprensione, non c’è razionalità, ma solo una legge naturale che predomina incontrastata in quei luoghi dimenticati da dio – e da noi che andiamo al cinema a guardarli. E il pensiero che tormenta Marcello è proprio quello di essere buttato fuori dalla comunità, di rimanere isolato e solo in quel deserto di decadenza. L’unico modo per farsi riaccettare dal branco diventa dunque fare ciò che nessuno vuol fare ma che tutti tramano: abbattere la bestia rognosa che infesta le strade, uccidere una volta per tutte Simoncino.

Nella storia originaria del canaro della Magliana, questa esecuzione è diventata il centro del caso per via della sua natura cruenta e sadica; alla vittima vennero staccate le dita dei piedi e delle mani, venne versato dello shampoo per cani nel cranio aperto. In Dogman invece questa componente violenta viene convertita in una rabbia impotente e in un senso di oppressione che non lascia via di fuga al protagonista. Marcello non riesce a sottrarsi ai ricatti di Simoncino e allo stesso tempo non vuole liberarsi di lui. Anche quando gli si presenta l’occasione di poterlo sbattere finalmente in carcere lo protegge e si sacrifica in nome di un patto che non è scritto da nessuna parte e in nome di un’amicizia che non ha niente di sano. È come se fosse schiacciato da una fedeltà e da un legame che lo obbligano a reiterare all’infinito questo senso di sottomissione a un padrone che lo prende a calci non appena ne ha l’occasione. Anche nella vendetta – o nel riscatto, dipende da come lo vediamo – che Marcello pianifica, l’epilogo è comunque un errore, e la morte di Simoncino rimane appesa tra una sorta di fratricidio involontario e una rivalsa per la quale non riusciamo veramente a tifare. Sì, Marcello è libero dal suo aguzzino, ma è comunque troppo tardi per recuperare ciò che ha perso e il sacrificio che compie tramite quella morte ha il sapore amaro di un’azione inutile, che non servirà in alcun modo a fare rientrare il protagonista all’interno della comunità che lo ha sputato fuori e, di conseguenza, all’interno della normalità.

Anche in Dogman, così come ne L’imbalsamatore, Garrone gioca su degli elementi estetici che bastano da soli a rendere le immagini dense di significato: un piccolo uomo senza scrupoli che imbottisce animali morti, un piccolo uomo che lava e cura i cani fino a farli mangiare direttamente dal suo piatto. C’è del grottesco nei protagonisti dei suoi film, ma non sfocia mai in un eccesso estetico o in una caricatura esagerata; anzi, la bravura del regista romano consiste proprio nel costante equilibrio tra una rappresentazione realistica e una fantastica. Così come in Reality, altro lungometraggio a mio parere perfettamente riuscito di Garrone , la storia si muove su un terreno immaginario, con qualche piccolo elemento di colore che aggiunge quel senso di finzione che ci ricorda che stiamo guardando un film, ma sfocia sempre in una dimensione reale e molto concreta. È la prova che si può mettere in scena un circo di personaggi e di situazioni assurde, ma allo stesso tempo si possono mantenere i piedi a terra, dando luogo a una rappresentazione della verità. Ed è anche la prova del fatto che non bisogna necessariamente rinunciare al contenuto in favore di una forma perfetta.

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