Disincanto è il peggior lavoro di Matt Groening

Prima dell’arrivo sui nostri schermi de I Simpson, almeno in Occidente, era difficile pensare che un cartone animato potesse catturare l’interesse di un pubblico adulto. Il cartoon era uno strumento creato con due precise finalità: intrattenere i bambini e garantire del tempo libero ai genitori. È vero che già negli anni Ottanta si era assistito alla nascita di un filone di cartoni animati pedagogici – tipo Esplorando il corpo umano – ma, anche questo tipo di format, era pensato per attrarre un pubblico di giovanissimi.

I Simpson colonizzarono i nostri teleschermi in un periodo in cui persino la Disney viveva un periodo di stasi. Gli spettatori iniziavano a essere stanchi dei lungometraggi ispirati alle favole ma, allo stesso tempo, non apprezzavano i primi tentativi di proporre qualcosa di più coraggioso: Taron e la pentola magica nel 1985 si rivelò un clamoroso insuccesso anche a causa  delle atmosfere gotiche, quasi horror, create dal giovane art director Tim Burton. Gli unici adulti interessati ai cartoni in epoca pre-Simpson erano gli addetti ai lavori, ma il loro interesse era focalizzato soprattutto sullo stile del disegno, sul comparto estetico.

In un panorama del genere il successo dei “gialli” era assolutamente impronosticabile: la serie fu capace di intercettare un pubblico che fino ad allora non esisteva, o quantomeno non sapeva di esistere. Dopo il trionfo dei Simpson sono nati moltissimi altri show che, estremizzando l’intuizione alla base del cartone, hanno utilizzato l’animazione come mezzo per raccontare sostanzialmente qualunque cosa. Con il successo di serie come Beavis and Butt-head o South Park il cartone non aveva più paura di mostrarsi volgare, di satirizzare qualunque cosa dalla società, fino alla televisione stessa. Poteva essere anche esteticamente brutto, non era più così importante: il contenuto, dissacrante, aveva preso il sopravvento sulla forma.

In questo scenario, la grande colpa di Disincanto, il nuovo lavoro del creatore de I Simpson, è quella di arrivare fuori tempo massimo, quando qualcuno ha già detto meglio quello che la serie vorrebbe comunicare. La qualità dell’animazione è altissima ma Disincanto finisce per essere “solo” una serie divertente e questo, nel 2018, può essere un problema. La verità è che tutto quello che fino a un decennio fa ci sembrava rivoluzionario oggi ci appare normale, se non quasi scontato. Disincanto ci ripropone la stessa marea di citazioni per cui una volta avremo strabuzzato gli occhi, ma ormai siamo cambiati come spettatori: non ci stupiamo più se vediamo un richiamo a una serie di successo come Game of Thrones all’interno di un cartone animato, perché ormai giornalmente vediamo cose diversissime ibridarsi tra loro anche in tv. In un mondo in cui Orange is The New Black fa ironia su Harry Potter e a Kanye West basta un album di mezz’ora per citare Trump, #Metoo e Corea del Nord, trovare un riferimento a una serie fantasy all’interno di un cartone animato che pesca a piene mani da quell’immaginario sembra ovvio, se non proprio necessario.

© 2018 The ULULU Company

Nel 2003 in California nascevano corsi universitari che mettevano assieme i Simpson e la filosofia. Questo era possibile perché, fino a un decennio fa, la psicologia degli abitanti di Springfield ci appariva molto più complessa di quanto non fosse in realtà. Ormai siamo abituati a trovare, anche all’interno di un cartone, dei protagonisti estremamente più sfaccettati: come Bojack, che parla di depressione in termini decisamente complessi. I protagonisti di Disincanto, paragonati con quelli di altre serie nate negli ultimi anni, sembrano fuori fuoco, svuotati. La principessa Bean e tutti gli altri non sono in alcun modo originali: possiamo ritrovare tratti della personalità di Lisa nella protagonista e molte delle battute di Luci non suonerebbero male in bocca a Bart.  Un cartone come Adventure Time, poi, citando un articolo di qualche anno fa di Maria Bustillos, può essere considerato: “un trattato di filosofia morale profondamente rigoroso, un emozionante capolavoro comico, una riflessione sulle politiche di genere e sull’amore nel mondo contemporaneo”.

© 2018 The ULULU Company

Disincanto somiglia un po’ a Crisis in Six Scenes, la serie creata da Woody Allen per Amazon Video, che era di fatto un bignami dei temi rintracciabili nella filmografia di Allen. Anche Disincanto lascia la stessa sensazione di già visto, quasi riciclasse spesso e volentieri situazioni e gag già proposte ne I Simpson e in Futurama. Ma a differenza di Crisis in Six Scenes, che era stata creata a tavolino per assecondare i fan dell’Allen degli ultimi vent’anni, Disincanto covava ambizioni maggiori: non era stata pensata per essere un riempitivo, per rimanere confinata ai margini del catalogo Netflix. La serie aveva creato delle aspettative nel un pubblico, che si aspettava qualcosa di rivoluzionario, un potenziale fenomeno di costume a livello de I Simpson.

Nei dieci episodi, però, non c’è nulla di nuovo. In sede promozionale si era molto insistito sull’alcolismo della protagonista, ma un personaggio con problemi di alcolismo in un cartone non è più una novità da almeno un decennio. Bean, che comunque beve molto meno di Bojack o di Bender, non vede mai la sua passione per l’alcol diventare un tema centrale all’interno degli episodi. L’alcolismo resta più un tratto caratteristico del personaggio: non è realmente affrontato come un problema “concreto” e non vediamo mai Bean deragliare completamente a causa del suo vizio. Si era parlato di lei come di un’anticonformista, ma di fatto resta la solita principessa contesa da due personaggi. L’unica azione non conforme all’etichetta che si spinge a compiere è ruttare, una cosa che Fiona di Shrek faceva senza problemi già una quindicina di anni fa.

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Proprio come Shrek, anche Disincanto si diverte a parodiare in continuazione gli stereotipi che trovavamo all’interno dei classici Disney. Il problema è che tutti quei luoghi comuni, dalla principessa senza personalità alle canzoni che partono da un momento all’altro senza motivo, non si trovano più nemmeno all’interno dei cartoni della casa di Topolino. Ormai anche negli stessi cartoni Disney si fa ironia su quanto stereotipate e ingenue fossero certe rappresentazioni. Le figure femminili che presentavano certe storie proponevano modelli superati dall’attuale realtà sociale, ormai la cosa è data per assodata. Come d’incanto, prodotto dalla Disney undici anni fa, aveva definitivamente decostruito la figura della principessa in attesa del principe, inserendola nella cinica New York degli anni Zero. Disincanto si trova quindi a voler essere alfiere di una rivoluzione già compiuta, ed è palese se si pensa che la premessa della serie di Groening – una principessa non vuole sposare il suo principe e allora scappa – è esattamente la stessa di Ribelle-The Brave, un cartoon prodotto dalla Disney nel 2012.

© 2018 The ULULU Company

Disincanto, poi, rimane un prodotto più adatto a essere visto secondo le logiche di fruizione proprie della vecchia televisione. Nonostante ci sia una striminzita trama centrale ogni episodio può essere visto senza problemi come un qualcosa a sé. Questo andava bene per i ritmi della televisione del decennio scorso. Chi ha almeno vent’anni si ricorda quando a dettare legge erano i palinsesti Mediaset e Rai: dopo pranzo potevi trovare su Italia Uno il quarto episodio della quinta stagione oppure il terzo della sesta, ma tutto ciò era ininfluente: in fondo si trattava quasi sempre di serie che, anche oggi, non avrebbe senso guardare facendo binge watching. Si può iniziare a vedere Friends partendo da un qualunque punto della trama e comunque se ne coglierebbe lo spirito. I personaggi di certe serie, come appunto Friends o I Simpsons, non si evolvono così tanto da una stagione all’altra restando bene o male “tipizzati”. Le serie di Netflix però ci hanno abituato a un altro tipo di fruizione. Gli utenti ormai sono alla costante ricerca di una struttura complessa, dove gli eventi sono interrelati fra loro e, anche per questo, difficilmente sarà interessato a trasformare Disincanto, con la sua struttura simile a quella delle sitcom del passato, nella sua nuova serie-feticcio.

Uno dei punti di forza di Netflix è la sua capacità di creare un dibattito attorno alle proprie produzioni, siano esse considerate o meno dei capolavori. Disincanto da questo punto di vista può essere considerato un fallimento: non è così brutto da scatenare sollevazioni popolari sulle bacheche Facebook ma non è neanche così interessante da diventare un fenomeno di costume. La serie funziona come parodia di tutto quell’immaginario fantasy che va da Vikings alle favole dei fratelli Grimm ma manca di quei sottotesti che erano la vera forza dei passati lavori di Groening. Anche Futurama si presentava in superficie come la parodia di un genere, ma all’interno di ogni singolo episodio si trovavano citazioni e gag che facevano riferimento ai vizi e alle virtù del mondo contemporaneo allo spettatore.

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Disincanto è un po’ come il terzo disco di una band che abbiamo amato da adolescenti. Se I Simpson era il sorprendente album d’esordio che aveva aperto un filone, e Futurama era stato il disco della conferma per Groening, questo è il disco post-reunion fatto per i fan, che se lo ascolteranno con affetto ripensando a quando tutto questo profumava di avanguardia. Dentro Disincanto ritroviamo tutto quello che ci era piaciuto, ma non ci basta più: la formula è diventata maniera e, nel tempo che intercorre tra un’opera e l’altra, c’è stato chi ha riproposto la stessa intuizione, apportando però a quel format una chiara evoluzione.

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