Vent’anni dopo possiamo guardare Dawson’s Creek senza vergognarcene

Il 13 gennaio del 2000 avevamo scoperto da pochi giorni che nessun Millenium Bug ci avrebbe annientato e che i duemila sarebbero stati anni “normali”, esattamente come i mille e novecento. D’Alema, al suo secondo mandato da Premier, aveva dato le dimissioni da un mese e ancora non potevamo sapere che ci saremmo ritrovati Giuliano Amato per un altro anno di Governo. Proprio come non potevamo sapere che, quella sera del 13 gennaio, alle 20:45, su Italia Uno, sarebbe andata in onda la prima puntata di Dawson’s Creek, una nuova serie teen che avrebbe plasmato l’immaginario sentimentale della mia generazione per molti anni a venire.

Lo dico con una punta di vergogna, perché Dawson’s Creek è considerata quasi all’unanimità un guilty pleasure di cui ridere imbarazzati nelle serate revival con gli amici, una serie dalle dubbie qualità che tutti hanno visto, di cui tutti ricordano il “a-do-wana-uei” storpiato della sigla, ma di cui nessuno ama parlare in termini realmente critici. Sono passati vent’anni dalla creazione di Dawson’s Creek e l’anniversario sembra essere un’ottima occasione per capire cosa è rimasto del triangolo amoroso Joey-Pacey-Dawson, per approfondire il modo in cui Dawson’s Creek ha influenzato il racconto dell’adolescenza negli anni a venire e per ammettere una volta per tutte che aver visto la serie creata da Kevin Williamson non è qualcosa di cui dobbiamo vergognarci.

Kevin Williamson nel 1998 ha 33 anni. All’età in cui molti uomini italiani ancora si definiscono “ragazzi” e vivono stipendiati da papà, Williamson ha già scritto tre sceneggiature di successo: Scream, So Cos’hai Fatto e Scream 2. Williamson si fa riconoscere per un’arguzia nella scrittura e per un gusto nell’utilizzo di meta linguaggio cinematografico che colpisce l’immaginario dei teen-ager di quegli anni. Gioca con il genere horror e thriller con una leggerezza e un divertimento che mancava da qualche tempo sugli schermi americani. Il produttore Paul Stupin, uno degli artefici del successo di Beverly Hills 90210,  dopo aver letto lo script di Scream chiama Williamson e gli chiede di lavorare a un’idea per una serie teen. Kevin scrive Dawson’s Creek pescando direttamente dal suo passato di giovane innamorato del cinema che, tutte le sere, divideva il letto con un’amica del cuore guardando film in televisione. Fox non apprezza il progetto, che passa nelle mani di una titubante Warner Bros. Ci sono molti dubbi rispetto al trattamento e, ancora prima che la serie vada in onda, già si parla del modo scandaloso in cui viene affrontata la tematica sessuale. Si mormora, addirittura, che in un episodio un adolescente faccia sesso con la sua insegnante. La serie, nonostante le molte critiche negative, è subito un successo e, in totale, vengono prodotti 128 episodi distribuiti in sei stagioni. In Italia, Dawson e i suoi amici arrivano prima su Tele+ e poi su Italia 1 e, anche da noi – a giudicare dai comunicati stampa dell’epoca – si poneva l’accento sulla scabrosità di questa nuova serie, su l’eccessiva attenzione dedicata nella trama al sesso e ai rapporti sessuali.

Dawson Leary è un liceale di Capeside con la passione per il cinema, in particolare per Spielberg. È un sognatore, un uomo d’altri tempi. Lungo il fiume che scorre vicino a casa sua abita Joey Potter, amica d’infanzia con cui Dawson passa le serate guardando film nella sua cameretta. Il migliore amico di Dawson è l’insolente Pacey che, al contrario del suo verboso amico, vive la vita alla giornata. A Capeside arriva per il nuovo anno accademico Jen Lindley, la ragazza di città, sgamata e non più vergine. Dawson, Pacey, Joey e Jen sono i protagonisti assoluti delle sei stagioni, in un avvicendarsi di drammi amorosi dove tutti limonano con tutti. Si aggiungono al cast Jack, un giovane gay, e sua sorella Andie, con problemi psichici, giusto per non farci mancare nulla. In uno sviluppo narrativo in cui una stagione corrisponde pressappoco a un anno scolastico dei protagonisti, osserviamo i nostri eroi crescere e confrontarsi con le difficoltà del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Può sembrare che il centro della narrazione sia il triangolo amoroso tra Joey, Pacey e Dawson, ma la verità è che il cuore tematico di Dawson’s Creek è l’amicizia, e come quest’ultima sia il legame più forte e duraturo che si possa instaurare, anche tra uomo e donna.

Rivedere oggi Dawson’s Creek è un’esperienza spesso gratificante, a tratti un po’ noiosa, sicuramente interessante se si fa attenzione a come il nostro gusto critico si sia evoluto in questi anni in cui la serialità televisiva è diventata centrale nelle nostre vite.

Partiamo da un dato di fatto: fare binge watching con Dawson’s Creek è praticamente impossibile. Ci ho provato – le sei stagioni sono disponibili su Amazon Prime, oltre che su Sky – ma mi sono spesso arreso alla tentazione del fast forward. In diverse puntate non succede praticamente nulla. I tormenti amorosi ed esistenziali di Dawson Leary stagnano in una palude di scenette il cui sviluppo è spesso senza alcuna dinamica. I personaggi vengono frequentemente coinvolti in feste, situazioni, concerti che, in modo splendidamente pretestuoso, li pongono in condizione di confrontarsi in lunghissime discussioni. Ma credo che il problema non sia solo della serie, quanto del mutato metodo di fruizione. Il binge watching ci ha ormai abituato a una frequenza di colpi di scena e punti di svolta altissima. Vediamo quattro o cinque ore seriali come un lungo film e ci aspettiamo una costante emozione. Anche la nostra soglia di attenzione è cambiata profondamente rispetto al 2000. Il nostro è un presente clippato, dove micro video, stories di 15 secondi, dirette e feed richiedono un’attenzione tanto vorace quanto rapida. Per fissare oltre il minuto uno schermo servono persone che si ammazzano, o al massimo gattini. Alla fine degli anni Novanta non era così. Sapevamo, noi diciottenni, che il martedì sera saremmo tornati a Capeside e che lì avremmo ritrovato i nostri coetanei, o presunti tali, persi nei loro tortuosi drammi. Poco importava che la settimana prima fossero successe pressapoco le stesse cose. Non ce lo ricordavamo e, a dirla tutta, neanche ci importava.

Non riuscendo a vedere in fila tutti gli episodi, mi sono quindi convinto che avrei potuto rivedere solo alcune puntate specifiche, in cui la storia subiva dei cambi di direzione. Ma, risolto l’anacronismo narrativo, rimaneva comunque la questione dei dialoghi. Michelle Williams, ora attrice nominata all’Oscar, all’epoca interprete della seduttrice Jen Lindley ha recentemente confessato di avere avuto accanto un dizionario durante la lettura dei copioni di Dawson’s Creek. La magnifica eloquenza di Dawson era pari soltanto a quella di un laureato in filosofia con grossi problemi di egocentrismo. Ogni argomento veniva sviscerato approfonditamente in un costante esubero di citazioni e battute sagaci. Neanche per un secondo si può credere che degli adolescenti parlino così. Non solo quindi l’aspetto, ma anche le battute dei personaggi rimandavano a un immaginario più adulto di quello adolescenziale. Eppure noi, veri adolescenti, rimanevamo lì davanti allo schermo, a volte perplessi ma, più che altro, rapiti. Vicino ai miei quarant’anni capisco il significato di tutte le parole dette da Dawson e sì, ammetto che il patto di verosimiglianza sia tradito dopo il primo dialogo della prima puntata, ma non per questo riesco a trovarlo oltraggioso o fastidioso. Molte battute sono divertenti e, pur nell’assurdità di quel mondo così loquace, i personaggi vengono caratterizzati in modo estremamente coerente. Guardando le puntate una dopo l’altra non si soffrono i cambi di umore e di direzione dei personaggi perché ogni singola azione viene spiegata approfonditamente in lunghe battute di dialogo. Quindi io ci credo che Joey, a un certo punto, rinunci a stare con Pacey perché non si sente pronta. Come credo a Dawson che vuole lasciare libera Joey di stare con Pacey. Perché ci credo? Perché Dawson me lo spiega in quattro pagine di sceneggiatura.

Un po’ più difficile è il discorso su alcune tematiche affrontate nella serie. Molti temi raccontati in Dawson’s Creek sono invecchiati quanto il 4:3, il formato di messa in onda. Uno su tutti è l’omosessualità di Jack. È straniante e fa un po’ imbarazzo pensare che vent’anni fa l’essere gay venisse dipinto in quel modo. L’amore di Jack per gli uomini viene visto come un peccato originale di cui vergognarsi, che solo gli amici veri possono accettare. Il padre che rifiuta Jack per le sue tendenze sessuali resiste nelle storyline per oltre due stagioni. I compagni di confraternita di Jack non vogliono dormire con lui “perché gli sembra strano” e tutti gli omosessuali di cui Jack si innamora nascondono le loro preferenze sessuali al mondo. L’approccio al sesso, in generale, non tiene il passo con i tempi e tutto suona arcaico, un po’ reazionario e bigotto. Sì, proprio in quella serie che, all’epoca dell’uscita, veniva tacciata di eccessivo libertinismo.

Quindi, vale la pena rivedere Dawson’s Creek? Assolutamente sì. Certo, le prime due stagioni sono nettamente le migliori (fatta eccezione per la clamorosa doppia puntata finale) e la serie, una volta che i protagonisti hanno raggiunto l’età adulta, si avviluppa un po’ su se stessa. Ma, fosse solo per un effetto madeleine, Dawson merita di essere rivisto.

Dawson’s Creek ci rimanda a un modo di raccontare l’adolescenza che non poneva il realismo come valore fondamentale della storia. Andando avanti negli anni si è pensato che avvicinarsi alla verità del mondo dei teenager fosse il modo migliore per dipingerli. Addirittura gli ultimi esperimenti – uno su tutti SKAM, serie norvegese ora trasposta in Italia, in onda su Tim Vision – tentano di portare la narrazione fuori dallo schermo e di farla intrufolare nelle vite private, nei telefonini e dei social dei protagonisti. Credo, personalmente, che sia un approccio sbagliato. Non esiste realismo nel racconto degli amori che ci sconvolgevano duranti gli anni di liceo. Nessuna macchina da presa potrà mai restituire fedelmente la ferocia dei sentimenti dei nostri sedici anni. Perché tutto era sovradimensionato e intangibile. Uno sguardo rubato tra i banchi era un mondo e un bacio a ricreazione qualcosa di cui parlare per giornate intere.

Non c’è realismo nell’adolescenza. Tanto vale, allora, lasciarsi andare alla irrealtà dei discorsi di Dawson e agli eterni dubbi della sognatrice Joey. Nella loro dichiaratissima finzione rimandano alla magia di quegli anni in modo molto più efficace di tante, acclamate, serie teen successive.

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