Atlanta è la serie che spiega meglio il razzismo nell’America di Trump

La geografia immaginaria delle serie tv si fa più precisa di anno in anno, di stagione in stagione, man mano che accumuliamo ore di fronte allo schermo. Qualche anno fa camminavamo per le piazze di spaccio della Baltimora di The Wire, poi siamo passati alle stanze del potere di Washington DC in House of Cards, passando per le fughe nei deserti del New Mexico di Breaking Bad. Dal 2016 c’è una nuova località cerchiata a penna sull’ipotetica cartina: si tratta di Atlanta, capitale della Georgia, che dà il nome all’omonima serie ideata, prodotta e interpretata dall’artista afroamericano di cui ultimamente si è parlato molto, il trentaquattrenne Donald Glover, e che in questi giorni sta concludendo la sua seconda stagione negli Usa – mentre in Italia sarà disponibile dal 17 maggio ogni giovedì su FOX o, per gli amanti del binge-watching, su Sky On Demand.

Donald Glover ha lo sguardo rassicurante del ragazzo che studia accanto a te in biblioteca, indossa le camicie dell’universitario in procinto di laurearsi, ha l’eloquio e il background del nativo metropolitano che sa brillantemente destreggiarsi in società. È facile considerarlo un proprio pari, ammirarlo per la sua carriera poliedrica e lasciarsi affascinare dai suoi progetti – che in fin dei conti sono la realizzazione di tutti quelli in potenza che spuntano dai Mac della classi creative di mezzo Occidente. Il passo successivo è attribuire a Glover lo status di genio: nessuno avrà da obbiettare. Proprio ciò che in questi giorni stanno facendo più o meno tutti, a seguito della visione dell’ultimo video di Glover/Gambino, la cui bravura, secondo la vulgata comune, sta nell’iscrivere in un contesto pop la questione razziale in America, per di più proponendone una visione metaforica.

Il suo operato sembra andare in una direzione opposta a quello di Kanye West, recentemente protagonista di un acceso dibattito in seguito a dichiarazioni poco ortodosse sulla schiavitù dei neri – che hanno suscitato tanto scalpore da scomodare un intellettuale del calibro di Ta-Nehisi Coates. Al contrario di Kanye West, che rivendica la sua libertà tentando di smarcarsi dal ruolo di “artista nero”, Glover sembra aver imboccato la strada di Kendrick Lamar, quella di un afroamericano che riflette sulla propria cultura e sui rapporti di forza di una società costruita dai bianchi. Sinceramente provo un po’ di disagio a investire il video di Gambino del carico di speculazioni di questi giorni – eccessivo – così come faccio fatica a riconoscere in Kendrick Lamar uno spessore intellettuale che esuli dai canoni del panorama pop. Il pezzo DNA di Lamar, ad esempio, è giocato sulla contrapposizione, testuale e musicale, fra gli elementi “buoni” della cultura nera – come il rispetto per la famiglia, il senso di comunità, il dolore per la propria storia di schiavi che trasforma nel bisogno di emancipazione – e la degenerazione di questi ideali – l’arrivismo, l’ostentazione, la caduta nell’illegalità. Il tutto prendendo in prestito la grammatica dell’hip hop più duro.

È un discorso meno romantico di quanto si pensi: da ragazzo bianco mediamente acculturato che in questo momento storico non può che ascoltare black music, lasciarsi affascinare da Lamar o Glover può rivelarsi un semplice palliativo per la coscienza, baloccarsi con musica “impegnata” per non guardare la confezione pop, il retroterra costituito da un’industria che non punta di certo alla rivolta – tantomeno alla rivoluzione. Un po’ come bere un cappuccino di Starbucks e sentirsi tranquilli perché la multinazionale ci dice che il 5% della nostra spesa andrà in beneficenza – e qui cito un noto apologo di Žižek. Come spiega il filosofo sloveno, la blanda beneficenza di una multinazionale o le vaghe pretese politiche di un artista ben inserito nell’industria culturale sono cornici che rendono il prodotto più digeribile: un tentativo di indorare la pillola di un’azione – quella del consumo – che non va a modificare niente. Glover, come evidenzia bene anche Spin, ci sbandiera il fatto di essere cosciente del razzismo in America, ma non ci indica il suo punto di vista. “L’accoglienza di This Is America,” conclude l’autore dell’articolo, “ ci dà un’idea del cinismo dell’era post-Trump, dove qualsiasi cosa lontanamente allineata con la nostra politica progressista viene lodata senza riserve mentre le battute e i meme sono trattati come una forma di resistenza.”

Questi sono solo appunti, perché a un artista come Glover è bene concedere il beneficio del dubbio. In effetti l’ex-attore di Community spiega molto meglio la sua visione del mondo in Atlanta. In quella precedente abbiamo conosciuto Earn, personaggio con cui è impossibile non empatizzare, loser per definizione, precario perenne, giovane troppo sensibile per la realtà che si trova ad affrontare. Earn ha una famiglia da mantenere, è brillante, ma ha poche strade da intraprendere, perché proviene dai sobborghi di Atlanta, e la via verso l’emancipazione non è affatto facile. Per guadagnare, si reinventa manager del cugino Alfred, spacciatore legato alla cultura gangsta divenuto improvvisamente famoso come rapper.

Il canovaccio di Atlanta segue principalmente le vite dei due cugini e si regge su un doppio dissidio. Il primo è quello di Earn che, a contatto con la cultura bianca, sviluppa un senso di appartenenza verso la propria comunità. Vede infatti che la propria cultura, che lui vorrebbe emancipata, viene quotidianamente fraintesa, commercializzata e svenduta, utilizzata dai bianchi solo come strumento per sentirsi “trasgressivi”. D’altro canto, l’alter ego di Glover è cosciente delle pratiche autoassolutorie della propria cultura, si rende conto che nascondersi dietro lo stereotipo non serve a nulla, e per questo rimprovera al cugino di scimmiottare gli atteggiamenti gangsta.

Il secondo dissidio è quello di Alfred: da una parte bramoso di fama, della vita da rapper, di tutti gli status symbol che questa comporta; dall’altro a disagio con i nuovi contesti social, con l’imperativo di soddisfare il fan, di essere sempre in contatto con i propri seguaci, azzerando la propria vita privata. Paper Boi, nome d’arte di Alfred, è legato al contesto della malavita, tenuto in piedi da codici d’onore che hanno un senso nella comunità di provenienza; sentirsi in dovere di avere Instagram o di soddisfare le richieste di un fan stalker lo fa sentire come un clown che si dimena sullo schermo dello smartphone di qualcuno.

A questi due personaggi se ne aggiungono molti altri: lo stralunato Darius – depositario dei momenti più surreali della serie – e Vanessa, l’ex-ragazza di Earn, alle prese con i medesimi problemi del coniuge ma da una prospettiva femminile, dunque se vogliamo – dato il maschilismo autoreferenziale di gran parte della cultura nera – in una posizione più difficile. La prima stagione scorre via facilmente, velando tematiche spinose dietro scenette sopra le righe e dialoghi brillanti, Atlanta risulta un distillato dell’acume di Glover. Era andata in onda nel 2016, quando il sogno obamiano di uguaglianza era già andato in frantumi dopo i disordini di Ferguson. La seconda stagione si trova invece a riflettere sull’America del 2018, in cui l’elezione di Trump ha dato nuova voce al razzismo, e il cuore contraddittorio degli Stati Uniti è tornato allo scoperto. Nelle nuove puntate, infatti, la scrittura di Glover enfatizza gli elementi surreali, Atlanta diventa una serie gotica, in preda a fascinazioni da film horror. La realtà sfugge di mano, il razzismo ritorna sotto forma di persecuzione. Glover sembra dirci: non basta più l’ironia e la brillantezza per sviscerare i problemi dell’America contemporanea, e allo spettatore sembra di guardare delle scene degne di Twin Peaks.

    

Il sottotitolo di questa seconda prova è Robbin’ Season, in gergo il periodo sotto Natale in cui aumenta il numero di rapine, quando si ha bisogno di soldi per provvedere ai propri figli. Attraverso l’escamotage narrativo di questa etichetta entriamo in un mondo in cui la realtà supera l’immaginazione: il corpo sociale è in fermento, i vettori della realtà prendono traiettorie impreviste, e così le vite nella suburbia di Atlanta. Non è tanto la “cruda” vita di strada a essere mostrata sullo schermo, ma il surrealismo dell’esistenza quotidiana in un’America divisa, in cui bisogna convivere a stretto contatto con gente che ti odia, che ti invidia, che crede che la povertà sia causata dalla concorrenza del vicino di casa, o anche solo dal colore della pelle. Ci sono però un paio di scene esemplari che sintetizzano le ambizioni narrative di Glover. La prima è ambientata nella sede di un’azienda che ricorda Spotify: Paper Boi incontra un altro rapper, che gli comunica di aver accettato di girare uno spot pubblicitario con cui potrà fare molti soldi. Alfred è a disagio e, sebbene ostenti rispetto verso il collega, crede in realtà che si sia venduto, che snaturi le radici della propria cultura, e, allo stesso tempo, prova invidia perché sa che avrà più successo di lui. Lancia un’occhiata a Earn fra lo smarrito e l’incazzato, il cugino evita lo sguardo, neanche Glover sa conciliare la contraddizione insanabile fra genuinità e mercato. E così si ritorna al tema della spettacolarizzazione così bene indagato nella prima stagione.

Ma c’è un’altra scena che mette in luce le contraddizioni dell’America di Trump. Paper Boi e la sua cricca sono invitati in un campus universitario per un concerto; dopo varie vicissitudini si perdono, finché giungono alle porte di una confraternita. I ragazzi bianchi – impegnati in una festa – riconoscono Paper Boi e li invitano a entrare. Nel salone campeggia una bandiera sudista, ai muri sono esposti armi e trofei di caccia. Earn e Paper Boi, confusi, si passano una canna offerta dal capo della confraternita, un ragazzetto magro e claudicante che, nonostante comandi gli amici con fare imperioso, sembra solo voler impressionare il rapper. Nel frattempo Tracy – il nuovo entrato nella crew di Paper Boi, stereotipo del nero ancorato alla street culture delle origini – si esalta per le pistole appese alle pareti e ne discute con i ragazzi bianchi. La scena ha diversi livelli che si sovrappongono: da una parte, i membri di una confraternita sudista – probabili elettori di Trump – vedono nel rapper una fonte di divertimento, un personaggio innocuo partorito dal sistema mediatico; dall’altra il feticcio delle armi finisce per mettere d’accordo neri del ghetto e criptorazzisti.

In fondo, il personaggio di Paper Boi in Atlanta sembra mettere in scena tutte le paure dell’artista Glover: la paura di essere fraintesi, strumentalizzati, di rimanere bloccati nelle maglie di industria culturale che vuole sempre di più e sempre più velocemente. Ma allo stesso tempo Glover – in primis con il progetto Gambino – si ostina a imbracciare le armi usurate della cultura pop, ad accogliere tutto ciò che potrebbe appiattire il suo messaggio, come se il bisogno di approvazione minasse alla base il bisogno di esprimere una critica sensata. Il paradosso nell’operato di Glover evidenzia la contraddittorietà dell’Occidente contemporaneo. Lo scontro fra culture ha sfumato i suoi contorni, ma non ha smesso di essere traumatico: razze differenti vengono a contatto senza legare davvero. In questi momenti surreali, meno didascalici, si esprime la vera bravura di Donald Glover, in scene in cui il giudizio è sospeso, e l’autore sembra aggiungere un punto interrogativo al suo “This is America”. Allo stesso modo noi, fra le battute brillanti di Atlanta, gli sguardi persi nel vuoto, o i balletti di Childish Gambino, sospendiamo le lodi o le critiche e ci chiediamo: Is this America?

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