L’Italia ha bisogno di programmatori. Ma fa di tutto per impedire alle donne di diventarlo.

L’11 febbraio si è celebrata la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza: 24 ore per ricordare al mondo che non ci sono abbastanza professioniste capaci di sviluppare codici, isolare il ceppo di virus sconosciuti o sviluppare una app. Questo non dipende dal fatto che le donne non siano capaci di fare questi lavori. Se per buona parte della società italiana una ricercatrice è una sorta di figura esoterica al punto da far diventare le scienziate dello Spallanzani “gli angeli della ricerca”, una sviluppatrice donna è ancora di più una figura ibrida a cavallo tra l’essere immaginario e la rarità assoluta.

È un fenomeno strano se si pensa che sebbene la scienza informatica sia oggi dominata dagli uomini, all’inizio la disciplina era soprattutto appannaggio di studiose di matematica e di ingegneria elettronica. Come racconta Npr, la National Public Radio degli Stati Uniti, fino al 1984 le scienziate hanno dominato la programmazione dei computer. Oltre alla pioniera della programmazione dei primi dell’Ottocento Ada Lovelace che viene spesso ricordata, durante la Seconda Guerra Mondiale Joan Clarke fu tra i decifratori di codici che insieme ad Alan Turing riuscirono a trovare un meccanismo per violare la macchina tedesca di crittografia Enigma. Le programmatrici del computer Eniac – il primo super calcolatore della storia – erano le sei esperte Marlyn Meltzer, Betty Holberton, Kathleen Antonelli, Ruth Teitelbaum, Jean Bartik, e Frances Spence, anche conosciute come le “ragazze dell’Eniac”. Furono loro le professioniste che in maniera del tutto inedita, dato che non esisteva niente di simile fino ad allora né manuali con le corrette istruzioni, si occuparono di far funzionare un’enorme macchina collocata in una stanza di 180 metri quadri.

Le “ragazze dell’Eniac”

Le programmatrici sostituivano le valvole, spostavano cavi, aggiustavano le componenti hardware rotte perché invase dagli insetti e le disinfestavano (operazione da cui deriva il termine debuggare), assicurando la corretta routine della macchina. Quando molti anni più tardi furono commercializzati gli home computer, la loro limitata potenza di calcolo iniziale li rendeva poco più che console per videogiochi. Proprio in virtù di questa caratteristica ludica, viene ipotizzato in un articolo, furono indirizzati soprattutto al pubblico maschile. In poco tempo i Pc e le loro evoluzioni sempre più complesse diventarono prodotti da maschi o identificati come tali. Paradossalmente, le donne hanno costruito, sviluppato e fatto evolvere potenti calcolatori proprio come i loro colleghi uomini, ma il loro consumo di massa è diventata a livello culturale e sociale un’esclusiva dei secondi.

La scarsità di donne nell’informatica è ancora più strana se pensiamo che ci troviamo nel mezzo di una quarta rivoluzione industriale basata sulle nuove tecnologie e che le opportunità di lavoro in Italia non mancano. Oggi l’Ict (Information and Communications Technology) e l’It (Information Technology) comprendono una ramificazione di professioni tanto complesse quanto richieste: dall’esperto di intelligenza artificiale, al programmatore, all’esperto di cybersecurity. Tra le venti professioni più pagate per i giovani in Italia troviamo il developer, il consulente applicativi Erp (pianificazione delle risorse d’impresa) e il solution architect. Secondo Confindustria e Istat, tra il 2019 e il 2021 le imprese Ict avranno bisogno di 45mila tecnici, ma stanno avendo molte difficoltà nel trovarli. Quindi, da una parte c’è la scarsa occupazione femminile – un fenomeno che sappiamo non essere dettato solo dall’offerta di lavoro sottopagato o precario –  e dall’altra la necessità di figure professionali di alto profilo, resa più grave dalla mancanza di offerta. Un paradosso che ha le sue basi già nell’accesso all’istruzione.

Nonostante la giornata dedicata al gap di genere nelle scienze, molte donne evitano ancora di studiare informatica per il pregiudizio che sia una “cosa da maschi”. Secondo una recente ricerca promossa da Repubblica degli stagisti con Spindox e Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo sul perché i giovani tra i 20 e i 34 anni non studino informatica, il principale ostacolo per le donne è il concepirsi come “naturalmente poco portate”. Appena il 54,9% delle intervistate non è per nulla d’accordo sul fatto che esistano mestieri prettamente da uomini e che l’informatica sia un mestiere totalmente maschile. Questo significa che appena una donna su due si fa una sonora risata davanti alla possibilità che esista una superiorità o una predisposizione genetica e immutabile degli uomini verso questo settore.

Tra le cause di questa mentalità si trova la sfiducia generata dalla società e dal sistema educativo: oltre una ragazza su tre percepisce una resistenza culturale che pesa sulle scelte delle donne e sulla percezione di se stesse e delle proprie capacità. È l’effetto del “gender confidence gap”, ossia la mancanza di fiducia nei propri mezzi che comincia già da piccolissime. Dall’età di sei anni molte ragazze assimilano l’idea di non essere intelligenti quanto i maschi. Se il gap è così precoce, probabilmente venire a contatto con uno spot per la parità quando si hanno già 12 o 13 o 18 anni è già tardi per combattere stereotipi e distorsioni di genere. Intervenire è fondamentale, ma va fatto molto prima. E non solo per una questione di diritti. Secondo le stime della Commissione europea, un aumento delle esperte di economia digitale si tradurrebbe in un aumento del Pil comunitario di di 16 miliardi di euro l’anno. Capire i motivi di un deficit così notevole del mondo del lavoro è anche una questione economica, perché l’innovazione è sia individuale che di sistema. Innanzitutto, però, bisogna abbattere il pregiudizio per cui l’informatica sia un campo poco adatto alle donne per un puro fatto ontologico e che la segregazione occupazionale sia frutto di minori capacità e non di una distorsione nei ruoli di genere e nell’accesso allo studio.

Sempre secondo la ricerca di Repubblica degli stagisti, gli ostacoli maggiori allo studio dell’informatica sono due: la percezione che le materie Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) siano geneticamente lontane dalle donne e l’assenza di occasioni di confronto con professionisti e professioniste dell’informatica. Per l’Unesco avere delle figure di riferimento a cui ispirarsi è fondamentale per coinvolgere le ragazze. Oggi, per ottenere questo risultato, si parla molto di approccio integrato, individuando tutti i livelli di formazione dell’individuo come fondamentali: dall’empowerment individuale e da quello dato dalla famiglia, alla scuola, fino alla società e ai media. Infatti, seppur rare rispetto agli uomini, le donne ai vertici Ict esistono (come l’amministratrice delegata di Microsoft Italia Silvia Candiani), ma spesso vengono raccontate o elogiate con toni paternalistici.

Il problema, con tutto il rispetto per le giornate di sensibilizzazione e per gli anniversari che ricordano pioniere come la matematica Ada Lovelace e i suoi meriti nel campo, è che parliamo di icone che esistono in maniera bidimensionale per le giovani generazioni. Quando parliamo di modelli ‘aspirazionali’ più dinamici dovremmo pensare all’impatto di logiche sessiste e mediatiche sull’identità personale. Essere circondati in prevalenza da un’ideale femminile di successo fondato solo sulla giovinezza e la perfezione fisica ha infatti un impatto profondo sulle future piccole donne.

Silvia Candiani

Un ultimo punto è che bisogna cominciare presto a lavorare sui ruoli di genere. I libri di testo adottati nelle scuole sono i primi strumenti capaci di veicolare l’immagine di una donna informatica o matematica, e i giocattoli prima di loro. Tutte le iniziative per adeguare questi strumenti con un approccio più moderno nel nostro Paese sono spesso ostacolate da chi chiama in causa la fantomatica “teoria del gender” e da chi crede che mettere in discussione ruoli secolari possa avere un impatto negativo sulla società. Per incoraggiare le donne a mettersi in gioco nel campo dell’informatica e delle scienze in generale conta per esempio venire a contatto con materie, professoresse e professori di informatica. L’Istituto Toniolo con Repubblica degli stagisti certifica invece che oltre il 50% delle ragazze e il 43% dei ragazzi non ha avuto alcuna occasione di conoscere questo settore durante le lezioni. E anche se le aule sono diventate da qualche anno più tecnologiche grazie a registro e lavagne elettroniche e lo smartphone è indispensabile, questo processo somiglia più a un massiccio dispiegamento di tecnologia che non a un reale cambio nelle tecniche di apprendimento. Saper usare un device non significa conoscere come è stato costruito e il processo creativo che ne permette il funzionamento.

Per ora il governo è al lavoro per rilanciare il Piano nazionale digitale e si moltiplicano gli appelli per inserire l’informatica nel programma di studi a partire dalla scuola primaria. La vice presidente della Camera Mara Carfagna ha invece depositato nel settembre 2019 una proposta di legge per creare un fondo che azzeri le tasse per le studentesse che vogliano misurarsi con le materie Stem. Oggi la percentuale delle iscritte in queste facoltà è infatti ferma al 17,71%; è il dato più alto degli ultimi dieci anni sebbene rappresenti solo il 18% delle donne iscritte all’università. “Cosa vuoi fare da grande?” è da sempre una domanda difficile per i bambini e le bambine. Ma ancora oggi non stiamo facendo abbastanza per fare si che sempre più bambine possano rispondere con la stessa sicurezza di un loro coetaneo: “Ceo di Microsoft o Google”.

Foto credit: WebFactory Ltd

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