Una foresta delle dimensioni della Grecia è bruciata in Siberia. E ti dovrebbe terrorizzare.

L’Artico sta bruciando e a nessuno interessa. Potrebbe sembrare il titolo allarmistico di un giornale online in cerca di click, ma è proprio quello che sta succedendo, con conseguenze che colpiranno l’intero Pianeta. In Jacuzia, nella Siberia orientale, stanno bruciando 4,3 milioni di ettari di foresta, stando ai dati forniti da Greenpeace. In pratica è andata in fumo un’area di foresta grande come il Piemonte e la Lombardia. In tutto il 2019 sono bruciati 13 milioni di ettari, un’area grande quanto la Grecia.

Il danno provocato dal fuoco è ben visibile da una foto scattata dal satellite Copernicus Sentinel-3 dell’Esa. Il progetto Copernicus è nato nel 2001 su iniziativa dell’European space agency (Esa) e della Commissione europea con l’obiettivo di fornire dati sempre più aggiornati e di qualità sui cambiamenti climatici. In particolare la foto in questione è stata scattata dal satellite Sentinel-3, cioè quello utilizzato per monitorare le aree terrestri e oceaniche.

Oltre alle immagini della devastazione in corso da due mesi, il mondo scientifico è preoccupato per le tonnellate di anidride carbonica emesse da questi incendi fino a fine luglio (una stima di Greenpeace parla addirittura di 166 milioni di tonnellate di CO emesse al 5 di agosto) sono equivalenti a quelle emesse in tutto il 2017 dal Belgio. Il fuoco divampato a Nord del circolo polare Artico rischia di aggravare l’emergenza climatica: le fiamme avanzano velocemente, bruciando non solo gli alberi, ma anche la torba che abbonda nella regione. La torba è un deposito fossile di materiale organico, come carcasse di animali o insetti, non totalmente decomposto e quindi molto ricco di carbonio.

Alaska

È proprio l’anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera a preoccupare di più i climatologi. La natura riesce ad assorbire solamente una parte della CO di origine antropica prodotta ogni anno, mentre il resto si accumula nella nostra atmosfera. Per questo motivo l’anidride carbonica nel maggio 2019 ha raggiunto e superato la soglia delle 415 parti per milioni (ppm), con una concentrazione più alta del 48% rispetto all’era pre-industriale (280 ppm).

È anche e soprattutto a causa dell’anidride carbonica che la temperatura media globale continuerà a crescere. Le stime dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il gruppo intergovernativo nato nel 1988 per studiare il cambiamento climatico, parlano di un innalzamento delle temperature che nel 2100 potrebbero registrare un aumento nelle medie stagionali tra gli 1,8 e i 7,1 gradi, anche se le stime più condivise dalla comunità scientifica parlano di un valore compreso tra i 2,5 e 4,7 gradi.

L’aumento di temperatura sarà maggiore alle alte latitudini, con una crescita soprattutto delle temperature minime rispetto alle massime. Sapendo che questa crescita è legata alle emissioni antropiche di gas serra, è facile calcolare gli anni rimasti prima di superare il limite di 1,5 gradi rispetto all’era pre-industriale, che l’Ipcc considera la soglia da non superare per mantenere la Terra con un clima ospitale per la sopravvivenza della razza umana.

Partendo dal presupposto che ora siamo già a + 1,1 gradi rispetto alla metà dell’Ottocento, sappiamo che ci resta un margine di appena mezzo grado. Joeri Rogelj, del Grantham Institute for Climate Change and the Environment dell’Imperial College di Londra, e un gruppo di suoi colleghi sono partiti proprio da questo dato per pubblicare uno studio su Nature che cerca di stimare la quantità di anidride carbonica che può ancora essere rilasciata nell’atmosfera prima di mettere a serio rischio la nostra sopravvivenza.

L’analisi non è semplice, ma si basa su alcuni punti fermi: se riuscissimo a restare sotto alle 320 Gt (miliardi di tonnellate) in atmosfera, avremmo il 66% di possibilità di contenere l’aumento della temperatura media globale sotto la soglia del grado e mezzo di aumento. Alle condizioni attuali, però, la potremmo superare già nel 2037. Il calcolo si basa sulla produzione mondiale di anidride carbonica del 2018: i 42 Gt di CO prodotti lo scorso anno porterebbero ad avere il 66% di possibilità di contenere la temperatura entro 1,5 gradi nel 2026, il 50% nel 2031 e il 33% nel 2037, con un crollo vicino allo zero dopo quella data.  Senza azioni coordinate su larga scala da parte dei maggiori produttori mondiali di anidride carbonica e gas serra, tra soli sei anni potremmo già trovarci nello scenario che prende in considerazione un aumento di due gradi delle temperature.

In meno di un decennio, se non riuscissimo a ridurre le emissioni di CO almeno del 10% ogni anno, il livello del mare potrebbe salire anche di 30 centimetri. Lo scenario più apocalittico però, si verificherebbe nel caso di un regime business as usual (cioè con uno scenario immutato) con l’aumento entro il 2100 delle temperature medie di circa 4 gradi rispetto all’era pre-industriale e un innalzamento dei mari tra i 60 e i 110 centimetri.

Un’altra ricerca sostiene che le stime dell’Ipcc siano fin troppo ottimistiche. Secondo uno studio condotto da un team di ricercatori britannici, statunitensi e olandesi pubblicato sulla rivista scientifica Pnas, c’è una possibilità su venti che il livello del mare si alzi di due metri entro il 2100. Una possibilità su 20 significa il 5% ma, come dichiarato da Jonathan Bamber, uno degli autori dello studio: “Se vi dicessi che c’è una possibilità su venti di essere investiti quando attraversate la strada, probabilmente non vi ci avvicinereste nemmeno”.

Più aumenta la temperatura più è alto anche il rischio che si inneschi un effetto retroattivo. In gergo tecnico questo si chiama feedback positivo, cioè un processo che è in grado di amplificare gli effetti di un fattore climatico. Facendo l’esempio concreto dei ghiacciai polari, lo scioglimento del permafrost, cioè di quel terreno ghiacciato ricco di sedimenti congelati dei fondali marini risalenti all’ultima era glaciale, causerebbe il rilascio di enormi masse di metano. Questo gas ha una grande capacità “riscaldante”, che andrebbe ad aggravare l’emergenza climatica e in particolare il surriscaldamento.

Il cambiamento climatico coinvolge diversi fattori e non è di semplice spiegazione. Una cosa però è chiara alla quasi totalità della comunità scientifica: non c’è più tempo da perdere. Nel solo mese di luglio il sistema di monitoraggio dell’atmosfera Copernico ha segnalato più di 100 incendi intensi e di lunga durata nella regione artica, che hanno emesso più CO di tutti gli incendi registrati nella stessa zona e stagione tra il 2010 e il 2018. Copernico ha anche registrato delle ondate di caldo record in tutta Europa, dove il 25 luglio sono stati superati i 40 gradi in Belgio, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi, fino al record storico assoluto di 42,6 gradi di Parigi.

La situazione disastrosa nell’Artico così come le 10 miliardi di tonnellate d’acqua riversate in mare per scioglimento del ghiaccio in Groenlandia il 31 luglio scorso sono senza precedenti, ma non senza spiegazioni. L’Artico si sta riscaldando due volte più velocemente rispetto al resto del Pianeta, portando all’essiccamento della vegetazione che diventa più vulnerabile al clima torrido e agli incendi. Ci troviamo di fronte a un circolo vizioso dal potenziale devastante. Dal 1880 a oggi, le temperature sono aumentate, così come le ondate di calore, e si è registrato un aumento di intensità, frequenza e quantità delle precipitazioni straordinarie e di fenomeni meteorologici estremi come tempeste tropicali e cicloni. Inoltre, le zone aride della Terra hanno visto aggravarsi la siccità, mentre in molte aree costiere livello dei mari è aumentato di 93 mm dal 1993. Tutti questi fenomeni sono accomunati dalla responsabilità del fattore umano.

Anche se i governi di molti Paesi del mondo sono impegnati nel vendere ai loro cittadini emergenze inventate in vista delle prossime elezioni, l’emergenza climatica è reale e pericolosamente vicina. Non possiamo più permetterci di rimandare la ricerca e la messa in atto di soluzioni che tirino fuori il valore più positivo della globalizzazione, coinvolgendo l’intera umanità in una strategia che salvaguardi la sua stessa sopravvivenza. Non si tratta solo di salvare la Terra per i nostri figli o i nostri nipoti. La minaccia non riguarda un futuro, anche prossimo, ma la nostra stessa generazione.

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