Dobbiamo ripensare il nostro rapporto con il mondo animale

Nel 1992, sulla rivista scientifica Science, la studiosa Sonja Yoerg evidenziava come sollevare domande sulla questione animale fosse ancora mal visto, a tal punto da distruggere brillanti carriere. Accettare, come ha ampiamente dimostrato l’etologia, che tutti i vertebrati e molti invertebrati siano senzienti e abbiano consapevolezza di sé e degli altri, infatti, ci costringe a rivedere la nostra relazione con gli altri esseri eventi e la nostra posizione nel mondo, destituendo il punto di vista antropocentrico su cui si fonda la metodologia di analisi umana. È l’Antropocene, la prima epoca geologica in cui l’ambiente terrestre viene fortemente condizionato dall’azione umana, che ha destabilizzato l’atmosfera, acidificato gli oceani e ridotto la dimensione e la qualità di ogni habitat. Eppure anche l’uomo è un animale e con gli animali condivide strutture fisiche, abitudini e gran parte della genetica. Fatichiamo ad accettarlo “per due motivi principali”, racconta al Messaggero il biologo statunitense Carl Safina. “Il primo, evidente, è che ci piace considerarci speciali. Il secondo è che, se noi riconoscessimo il diritto all’esistenza e alla vita degli altri animali, ciò che facciamo loro ci metterebbe in una posizione molto sconveniente. Forse perché riconoscendo agli altri una mente è più difficile abusare di loro?”. Rivedere il rapporto con le altre specie, significa prima di tutto cambiare prospettiva e capire quanto loro siano simili a noi, e quanto noi lo siamo a loro.

Carl Safina, Photo courtesy: Carl Safina

Nel saggio Al di là delle parole Safina, che è anche docente di Natura e umanità alla Stony Brook University e fondatore dell’organizzazione no-profit Safina Center, indaga il comportamento animale attraverso l’esperienza dei ricercatori che per decenni hanno studiato sul campo tre particolari specie: gli elefanti di una riserva africana (Loxodonta africana), i lupi del parco di Yellowstone, negli Stati Uniti (Canis lupus), e le orche del Pacifico nordoccidentale (Orcinus orca). Tramite la storia dell’elefantessa Echo e della scienziata Cynthia Moss, si scopre così che gli elefanti creano un’intricatissima rete di legami e che, quando uno di loro muore di vecchiaia o viene ucciso dai bracconieri, ne seppelliscono il corpo sotto strati di terreno e fogliame, provando un sentimento simile al lutto. Nel 2013, come parte di uno studio, vennero nascosti nella vegetazione alcuni altoparlanti per riprodurre il barrito di un esemplare femmina deceduta, registrato in precedenza. Il risultato fu che “i familiari, come impazziti, la chiamarono e la cercarono dappertutto, e la figlia continuò a chiamarla per giorni”. 

Le orche come Luna, studiate da Kenneth Balcomb, sono credute tutte uguali, ma sembrano invece divise in popolazioni simili alle “culture” umane, ognuna caratterizzata da una dieta particolare. È comune che si lascino morire di solitudine e, al contrario dell’appellativo di “assassine” affibbiatogli dall’essere umano, non hanno mai ferito né ucciso nessuna persona nel loro habitat. Anche le dinamiche dei lupi sfatano un altro mito: quello del maschio dominante. Quasi tutte le scelte relative alla caccia, alla tana e a quando lasciare un luogo sono prerogative delle femmine, mentre il compito dei maschi come Twenty-one, il capo branco più famoso, è quellodi accudire gli altri. Rick McIntyre, il biologo che li ha seguiti per quasi vent’anni, ha dimostrato come la reintroduzione dei lupi nel parco di Yellowstone, da cui erano scomparsi per quasi settant’anni, abbia permesso all’ecosistema di riequilibrarsi in un ottimo esempio di rewilding.

L’indagine di Safina evidenza come gli altri animali siano esseri molto più complessi di quanto l’uomo sia portato a immaginare, tanto da aver sviluppato un proprio linguaggio. Alcuni tipi di scimmie hanno infatti “parole” per “leopardo”, “aquila”, “serpente”, “babbuino”, “altro mammifero predatore”, “essere umano non familiare”, “scimmia dominante o subordinata” e “vedi branco rivale”. Versi che i più piccoli imparano con l’esperienza, anche sbagliando, esattamente come avviene per l’uomo. La facoltà di costruire un linguaggio, implica la capacità di percepire il tempo, di compiere un’azione per ottenere un determinato risultato, di prevedere relazioni di causa-effetto. Abilità che di solito non gli vengono attribuite, “benché in realtà siano estremamente capaci, in modi a noi preclusi. Molte creature ci battono nettamente per quanto riguarda vista, udito, olfatto, tempi di reazione, capacità di immersione, volo ed ecolocalizzazione”, analizza Safina.

Basterebbe fare un passo indietro e accorgersi che smetterla di considerare gli animali “qualcosa” non significa, come molti sostengono, subordinare i diritti umani a quelli degli animali, ma dare loro uguale dignità. D’altronde, è la stessa scusa che da secoli viene utilizzata per assoggettare le minoranze: dare loro eguali diritti significherebbe ridurre quelli dellamaggioranza. “È una sfida per noi, come specie, vivere con altri che consideriamo diversi. Non siamo molto tolleranti. E probabilmente, in un qualche stadio dell’evoluzione, era necessario che non lo fossimo, ma oggi abbiamo la possibilità di scegliere di avere una relazione diversa con gli animali non umani”, commenta la filosofa e scrittrice Eva Meijer.

L’antispecismo è proprio la corrente filosofica per cui l’appartenenza biologica alla specie umana non giustifica eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del corpo di un essere senziente di un’altra specie. Comparso per la prima volta nel 1970, il termine “specismo” è passato dall’indicare un pregiudizio e un atteggiamento individuale concretizzato nell’abuso di altre specie al definire un sistema di credenze collettive socialmente condivise. Scardinarle, significa proseguire la lotta portata avanti già da altre istanze sociali umane. Semplificando, si può dire infatti che l’antispecismo si compone di due correnti: una più classica, che ha come obiettivo la fine dell’oppressione animale, e una più politica che, come si legge nel Manifesto antispecista, lega la lotta dell’oppressione animale a quella umana. “L’attivista antispecista è moralmente tenuto a impegnarsi nel quotidiano contro ogni tipo di ingiustizia e di prevaricazione nei confronti dei più deboli o svantaggiati, siano essi Umani o Animali. Le attenzioni verso gli Umani, verso l’ambiente e la Terra sono da considerarsi parte integrante della lotta per la liberazione degli Animali, e viceversa”.

L’umanità dovrebbe ripensarsi a partire da ciò che ha escluso da sé per definire i propri confini. La modifica delle relazioni con gli altri, avrebbe ricadute positive per tutti: sull’ambiente, che abbiamo consumato fino a renderlo inospitale, tanto che secondo alcuni calcoli stiamo utilizzando le risorse del globo come se disponessimo di 1,75 pianeti; sul benessere individuale, grazie alla capacità di riscoprirsi empatici e superare le angosce che derivano dall’atavica paura dell’altro; sul pensarsi come una tra le specie. Non dovrebbe essere necessaria una pandemia per farci riflettere su quanto le nostre azioni abbiano influito sulla vita animale e su quanto la nostra vita sia legata a quella delle altre specie. È una condizione transitoria. Non si deve allora ridurre il discorso a un semplicistico “o noi o loro”, ma pensare a delle vie per vivere gli uni in armonia con gli altri.

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