10 anni fa gli italiani votarono no a privatizzare l’acqua ma il loro volere è stato tradito - THE VISION

Dieci anni fa, il 12 e 13 giugno 2011, si votò per un referendum contenente – tra gli altri quesiti, compreso quello sull’energia nucleare – la proposta di abrogazione parziale della norma in materia ambientale che stabiliva la modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici e la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua. L’obiettivo dei promotori del referendum era impedire che la gestione delle risorse idriche fosse affidata ad aziende private, passando invece a un modello in tutto e per tutto pubblico, con tariffe di erogazione del servizio più eque per tutti, annullando il profitto su questo bene fondamentale. In vista della consultazione, i movimenti del forum Acqua Bene Comune avevano portato avanti una massiccia campagna popolare di mobilitazione, in cui il referendum era stato prontamente ribattezzato “Referendum sull’acqua pubblica” a sottolineare una forma di resistenza di massa contro la liberalizzazione dei servizi pubblici essenziali. Dopo dieci anni, nonostante la cittadinanza all’epoca si fosse espressa per l’abrogazione con oltre il 95% dei voti, il carattere pubblico di un servizio basilare per la vita quotidiana e quindi il benessere della popolazione, non è ancora garantito come dovrebbe. La volontà dei cittadini italiani non è stata ascoltata e questo fa dubitare quantomeno del senso delle consultazioni referendarie.  

L’acqua è uno di quei servizi che lo Stato rende alla collettività, garantendone l’universalità, la continuità e l’economicità, per il soddisfacimento dei bisogni dei cittadini; questo sulla carta: il suo carattere pubblico, infatti, è stato messo in dubbio più volte, a prescindere dall’esito del referendum. Persino nel nostro Paese la continuità del servizio e la disponibilità di un’acqua corrente potabile, pulita e sicura non sono sempre garantite: stando ai dati Istat, nel 2018 ben 18 milioni di residenti non erano collegati al servizio pubblico di depurazione, mentre alcuni comuni del Sud hanno dovuto razionare l’acqua. E non si può essere certi nemmeno dell’economicità del servizio, dato che le tariffe sono aumentate, tra il 2014 e il 2018, in media di oltre il 10%, a fronte di un servizio che continua a presentare problemi e che periodicamente continua a subire tentativi di privatizzazione, che vorrebbero promuovere gli interventi infrastrutturali e di manutenzione, ma che di fatto favoriscono le speculazioni. 

Nonostante resti vietata la vendita delle reti idriche, infatti, a essere permesso è l’affidamento della gestione ai privati, come stabilito dal decreto 112/2008, frutto del liberismo berlusconiano e tecnica per aggirare legalmente la normativa, separando l’acqua, che è pubblica, dalla sua gestione, che può essere privata. Il referendum del 2011 mirava proprio a estromettere i privati dall’intero processo, ma non per questo i tentativi di privatizzazione si sono fermati – ne è un esempio quello a opera dell’ex ministra Marianna Madia, che prevedeva l’obbligo di gestione dei servizi a rete – come, appunto, l’acqua – tramite società per azioni, reintroducendo in tariffa i profitti per i gestori; e che dovette scontrarsi con la Corte Costituzionale che vi vide un vizio di legittimità a causa della lesione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni. Negli anni si è verificato un vero e proprio tira e molla giocato sulla rete idrica e in genere sui servizi pubblici, che ha dimostrato come i risultati del referendum del 2011 non abbiano avuto pienamente seguito.

Qualche tentativo di ripristinare un servizio davvero pubblico c’è stato, come la proposta di legge – presentata dalla deputata del Movimento 5 Stelle Federica Daga a marzo 2018 e ancora bloccata alla Camera – che vorrebbe definire il servizio pubblico come “di interesse generale non economico”, affidandone la gestione ai comuni, ad aziende speciali o ad enti di diritto pubblico, liquidando gli azionisti privati e finanziando la manutenzione attraverso la fiscalità generale. Interventi di questo tipo sarebbero forse inattuabili a causa dei costi, ma in ogni caso è improbabile che vengano accolti proprio durante il governo guidato da quel Mario Draghi che, quando era alla BCE, indirizzò all’allora presidente del consiglio Berlusconi una lettera che indicava come necessaria “una piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali […] attraverso privatizzazioni su larga scala”. 

Mario Draghi

Oggi, tra tante belle parole, il governo ci riprova, inserendo quasi di soppiatto in un programma più ampio di stanziamento dei fondi – che dovrebbero rilanciare l’Italia, affossata dalla batosta della pandemia, e proiettarla in un futuro più green e digitale – un altro tentativo di privatizzazione. Suonano quindi superficiali i commenti rilasciati dal presidente della Camera Roberto Fico a marzo scorso, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, che ribadivano l’importanza di comprendere che quest’ultima non sia una risorsa inesauribile e invitavano a sensibilizzare la popolazione per un suo utilizzo più responsabile. Queste dichiarazioni, se da un lato sono sacrosante, dall’altro appaiono un po’ come una presa in giro se si pretende ancora una volta di scaricare la responsabilità sui cittadini, come succede sull’altro grande tema socio-ambientale della produzione di carne (che consuma ingenti quantità d’acqua), rispetto cui si  continuano a finanziare – come fa l’Unione Europea – campagne di marketing per favorirne il consumo, quando è ormai ben noto che gli allevamenti intensivi siano uno dei principali problemi ambientali. A livello globale, infatti, con circa due miliardi di persone a rischio di restare senz’acqua, un grosso problema per l’approvvigionamento idrico è costituito dalla crisi climatica, nelle sempre più vaste aree non solo dell’Africa, ma anche degli Stati Uniti e dell’Europa, alle prese con periodi prolungati di siccità. Problema che in Italia è aggravato dalle condizioni di una rete di distribuzione vecchia e malandata, su cui la sensibilizzazione dei cittadini può avere ben poco effetto, per non dire alcuno.

Il problema è rilevato anche dal governo, che nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) tra le urgenze da affrontare ha inserito anche la questione dell’approvvigionamento e della distribuzione idrica. Al punto del PNRR intitolato “Tutela del territorio e della risorsa idrica” – per il quale sono stanziati 15 miliardi di euro – si legge infatti che la missione è quella di garantire la sicurezza dell’approvvigionamento e una gestione sostenibile ed efficiente delle risorse idriche, da raggiungere anche attraverso interventi diretti sulle perdite, che oggi ammontano a circa il 42% del prelievo totale, in modo da ridurle del 15%. Se l’Italia è al secondo posto in Europa per quantità d’acqua potabile prelevata è solo per questo, anche perché siamo in cima alle classifiche mondiali per consumo d’acqua in bottiglia. La prima causa di una gestione reputata insoddisfacente sarebbe la frammentarietà, soprattutto al Sud, per cui, secondo il governo, un miglioramento si otterrebbe affidando il servizio “a gestori efficienti” e, se necessario, “affiancando gli enti con adeguate capacità industriali per provvedere agli interventi programmati”. Nello specifico, come si legge più avanti, si cerca di rafforzare il processo di industrializzazione del settore favorendo la costituzione di operatori integrati, pubblici o privati, per realizzare economie di scala. Si cerca, cioè, di agire sulla normativa che regola il Piano Nazionale per gli interventi nel settore idrico, da un lato unificando le risorse economiche per le infrastrutture di approvvigionamento e dall’altro semplificando le procedure; ma anche, di fatto, favorendo la privatizzazione attraverso la promozione di modelli dei gestione delle grandi aziende multiutility quotate in Borsa.

Se per il momento in molti non si possono nemmeno rendere conto degli effetti della graduale privatizzazione, introdotta poco per volta e in maniera subdola, è proprio questo lento sgretolamento del pieno accesso ai diritti essenziali e la lenta negazione dei beni comuni che un giorno potrebbe presentarci brutte sorprese. Intanto, nel dicembre scorso l’acqua è diventata una merce quotata alla Borsa di Chicago: un segnale della scarsità idrica che avanza, da un lato, e dell’apertura alle speculazioni sulle future siccità dall’altro, dal momento che è diventato possibile scommettere sull’andamento del suo valore. La compravendita d’acqua, in realtà, esisteva già prima, ma in questo modo secondo gli esperti, i prezzi potrebbero anche salire a livelli non direttamente legati alla disponibilità di questo bene essenziale, con conseguenze che minacciano i diritti umani. Si tratta di un segnale inquietante, specialmente ora che si avvicina l’estate e con essa le grandi siccità, che periodicamente ci mostrano l’aggravarsi della crisi climatica.

Guardando alla situazione del servizio idrico, prima e dopo il referendum, viene quanto meno da chiedersi quale sia la considerazione che la classe politica riserva ai suoi cittadini e quale il senso di consultazioni che li chiamano a esprimersi attraverso l’unico strumento di democrazia diretta, quando la loro opinione e le loro richieste poi non vengono ascoltate – o peggio, vengono accolte sulla carta e poi aggirate un passo alla volta, senza fare scalpore, minando gradualmente la tutela dei beni comuni. Viene poi spontaneo preoccuparsi anche per quello che la crisi climatica, con le sue siccità e i suoi disastri idrogeologici, sempre più intrecciata alle crisi socio-economica, ci riserverà. Di fronte a questo scenario bisogna rispondere con una transizione ecologica reale, equa, che garantisca a tutti l’accesso all’acqua e agli altri beni essenziali, proprio come avevano già deciso dieci anni fa i cittadini italiani.

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