Un milione di specie rischiano l’estinzione. Se non agiamo i prossimi saremo noi.

Dopo i numerosi appelli ai governi mondiali a prendere provvedimenti tempestivi per contrastare il cambiamento climatico, le Nazioni Unite hanno lanciato un nuovo allarme: le attività umane stanno mettendo a repentaglio l’esistenza di molti ecosistemi con il rischio di causare l’estinzione di oltre un milione di specie di piante e animali in poco più di un secolo. È il contenuto di un report di circa 1500 pagine redatto dall’Ipbes, la Piattaforma intergovernativa per la biodiversità e i servizi ecosistemici delle Nazioni Unite, che sarà pubblicato entro la fine dell’anno. Il 6 maggio scorso, a Parigi, ne è stato reso noto un estratto di 40 pagine. Il report, compilato da 145 autori esperti provenienti da 50 Paesi diversi, si basa sulla revisione di 15mila fonti scientifiche e governative, ed è il dossier più completo sullo stato della biodiversità a livello globale dal Millennium Ecosystem Assessment pubblicato nel 2005. 

I risultati sono preoccupanti, come ha spiegato durante la conferenza di presentazione il presidente dell’Ipbes, Sir Robert Watson: “Le evidenze del Global Assessment, provenienti da diversi ambiti di studio, dipingono un’immagine inquietante. La salute degli ecosistemi da cui dipendiamo sia noi che tutte le altre specie si sta deteriorando più rapidamente che mai. Stiamo erodendo la base stessa della nostra economia, i mezzi di sussistenza, la sicurezza alimentare, la salute e la qualità della vita in tutto il mondo”. Secondo il report, per la prima volta nella storia dell’umanità, almeno un milione di specie è a rischio estinzione a causa dell’uomo, alcune nell’arco di pochi decenni. Dagli inizi del Novecento, l’abbondanza media di specie nella maggior parte degli habitat è diminuita di circa il 18%. Secondo le stime, sono a rischio estinzione più del 40% delle specie di anfibi e il 10% degli insetti, un terzo dei mammiferi marini e il 33% dei coralli che formano le barriere coralline.

È una crisi della biodiversità senza precedenti, che non risparmia nessuno degli ecosistemi presenti sul pianeta. Un allarme lanciato nei mesi scorsi anche dal Wwf, che nel suo Living planet report ha denunciato il fatto che la popolazione media del vertebrati (intesa come la media di ogni popolazione di ciascuna specie presente nel database dell’organizzazione, indipendentemente dal numero di individui) è diminuita del 60% a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. “Gli ecosistemi, le specie, le popolazioni selvatiche, le varietà locali di piante e animali si stanno restringendo, deteriorando o stanno sparendo. La rete essenziale della vita sulla Terra sta diventando sempre più sottile e fragile. Questa perdita è una diretta conseguenza dell’attività umana e costituisce una minaccia diretta al benessere dell’umanità in tutte le regioni del mondo”, ha spiegato Josef Settele, ricercatore dell’Helmholtz Centre for Environmental Research – UfZ.

Anche se molti lo ignorano o fingono di farlo, l’ecosistema e l’ambiente sono fondamentali per l’esistenza e la qualità della vita della specie umana. Dalla natura prendiamo cibo, acqua, energia, sostanze medicinali e materie prime, spesso senza pensare che la maggior parte di queste risorse non è inesauribile e ignorando il ruolo della nostra specie nelle dinamiche che la regolano. Lo ha dimostrato Jimmy Kimmel, noto conduttore televisivo americano: all’indomani della presentazione del report delle Nazioni Unite, nel corso del suo programma ha chiesto ad alcuni passanti se fossero preoccupati per l’eventuale estinzione dell’Homo sapiens. Un’eventualità che dovrebbe preoccupare tutti, dato che parliamo della nostra specie. Ma a essere davvero preoccupanti sono state le risposte, tra chi afferma di non sapere cosa sia un Homo sapiens, chi pensa che, dal momento che non abbiamo mai vissuto con Homo sapiens, non cambia molto se si estingue o meno e chi si dichiara convinto di averlo visto una volta in uno zoo.

Intanto, nel febbraio scorso, la popolazione umana ha superato la quota di sette miliardi, con il conseguente aumento delle attività che hanno un impatto sull’ambiente, come l’agricoltura, il taglio di legname e la pesca, solo per citarne alcune. La crisi della biodiversità dipende principalmente da noi per una serie di fattori diversi, a partire dall’incremento dell’uso del suolo e delle risorse marine. Le aree in cui è del tutto assente l’intervento dell’uomo, infatti, sono in continua riduzione. Attualmente circa un terzo delle terre emerse è occupato da attività agricole o zootecniche, che tra il 1980 e il 2000 hanno causato la scomparsa di circa cento milioni di ettari di foresta tropicale e della sua fauna caratteristica. Altre specie scompaiono per via dello sfruttamento diretto come la caccia non regolamentata, il bracconaggio e l’abbattimento di alberi. 

Anche il cambiamento climatico impatta a vari livelli sulla sopravvivenza delle specie. Il rapporto dell’Onu fa notare che, dal 1980 a oggi, le emissioni di gas serra sono raddoppiate e la temperatura media globale è aumentata di almeno 0,7 gradi, con effetti disastrosi sull’ambiente e sulle specie che vi abitano. Pensiamo agli orsi polari che, per vivere e nutrirsi, dipendono dallo stato delle banchise polari la cui estensione è in costante riduzione, o alla ridotta ossigenazione delle acque dovuta al surriscaldamento globale, che provoca danni alle specie acquatiche, già minacciate dalla presenza sempre più massiccia della plastica. In Italia e nel mondo sono sempre più frequenti, infatti, i casi di animali marini trovati morti con diversi chili di plastica nello stomaco. Plastica che entra nella catena alimentare, diventando un rischio per la nostra stessa salute. 

La biodiversità è minacciata anche dalle specie aliene invasive che, per azione dell’uomo, riescono a colonizzare un territorio diverso dal loro areale storico (ovvero la superficie abitata da una specie), con gravi ripercussioni sul nuovo ambiente. Possono infatti diventare invasive per l’assenza di predatori naturali, competere con le specie autoctone o cacciarle, portandole gradualmente all’estinzione. Ne sono esempi noti la zanzara tigre (Aedes albopictus), una specie originaria dell’Asia arrivata in Europa e negli Stati Uniti grazie al commercio di copertoni usati, o la tartaruga palustre americana (Trachemys scripta), che ha quasi portato all’estinzione la specie europea autoctona Emys orbicularis.

Allo stato attuale, nonostante le politiche di conservazione già in atto, secondo il report non verranno rispettati gli obiettivi Onu di salvaguardia della biodiversità fissati per il 2020. I trend negativi in termini di biodiversità e di ecosistema, inoltre, rallenteranno dell’80% i progressi relativi agli Obiettivi delle Nazioni Unite di sviluppo sostenibile per il 2030, relativi alla povertà, alla fame, alla salute, all’acqua, alle città, al clima, agli oceani e al suolo. La perdita di biodiversità, quindi, non è solo un problema ambientale, ma anche economico, sociale, di sviluppo e di sicurezza. Ma non tutto è perduto. Secondo Sir Robert Watson “Non è troppo tardi per cambiare le cose, ma solo se cominciamo da ora, a tutti i livelli, dal locale al globale. Attraverso una riorganizzazione radicale dei fattori economici, sociali e tecnologici la natura può ancora essere preservata, salvaguardata e utilizzata in modo sostenibile”.

Già da qualche anno gli scienziati affermano che siamo ormai entrati nella fase della sesta estinzione di massa. Il nostro pianeta ne ha già vissute altre cinque, scatenate da catastrofi geologiche, come eruzioni vulcaniche o caduta di asteroidi, oppure da fattori biologici, come la competizione tra specie, le epidemie o la mancanza di risorse. Questa sarebbe la prima nella storia della Terra a essere causata dall’azione di una singola specie, la nostra. Uno studio pubblicato sulla rivista statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) nel 2018 mostra che ci vogliono dai tre ai sette milioni di anni perché, dopo un’estinzione di massa, l’evoluzione permetta la formazione di nuove specie. La specie umana abita il pianeta da circa 200mila anni, un lasso di tempo insignificante se paragonato all’età della Terra. Nonostante questo, siamo riusciti a causare danni che, sicuramente, sopravviveranno alla nostra specie. 

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