Anche le piante sono soggette alle epidemie. Proteggerle significa garantire la nostra sopravvivenza.

Una cosa che il 2020 ci sta insegnando è quanto sia importante controllare le epidemie, prevenirle per quanto possibile e limitarne la diffusione in ogni modo. Questo non vale però solo per i virus – e quindi le patologie – che attaccano esseri umani e animali, ma anche per quelli che colpiscono le piante, spesso meno visibili ai nostri occhi, ma con un grande impatto impatto sulla nostra vita. La produzione alimentare e forestale, oltre che gli habitat di numerose specie, sono infatti a rischio quando le piante si ammalano, ed è per questo che l’Onu ha nominato il 2020 anno internazionale della salute delle piante per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sull’ urgenza del problema. 

Si stima che ogni anno tra il 10 e il 40% della produzione alimentare mondiale sia danneggiata e distrutta da parassiti e patogeni. La risorsa per cercare di abbassare questa percentuale sono la biosicurezza – cioè l’insieme di misure e procedure che puntano a difendere l’ambiente e la salute dalla diffusione di organismi nocivi – e i sistemi di gestione della salute vegetale. Questi si fondano su quattro pilastri: la prevenzione all’ingresso di un Paese, la preparazione (cioè la capacità di individuare precocemente un organismo nocivo e di controllarlo), la risposta nel contenere o gestire i parassiti e le patologie e, infine, il recupero attraverso sistemi di regolazione e gestione. Questi meccanismi di biosicurezza hanno però difficoltà a gestire il problema delle epidemie, che si diffondono principalmente attraverso il commercio di vegetali o loro parti, un settore complesso controllare date le sue dimensioni a livello mondiale. La criticità riguarda particolarmente i Paesi in via di sviluppo, specialmente quelli africani che hanno sistemi di ispezione e verifica spesso carenti per fare fronte a parassiti e virus che passano liberamente le frontiere, trasportati dagli insetti o da inconsapevoli viaggiatori. Le epidemie, infatti, possono derivare da virus, batteri, funghi, nematodi o insetti, che nascono in una certa parte del mondo per poi diffondersi rapidamente in tutto il globo. Possono passare da una pianta – che convive con loro più o meno tranquillamente – a un altra che non ha invece alcuna difesa per quel tipo di attacco. Il mondo vegetale, infatti, non conosce confini né frontiere (motivo per cui, per esempio, sono poco efficaci i divieti imposti, anche in Italia, agli Ogm, che sono comunque trasportati dal vento e dagli insetti verso le colture tradizionali). È per questo che le epidemie possono raggiungere in poco tempo proporzioni disastrose, mettendo a rischio l’economia e la sicurezza alimentare di interi continenti.

La situazione si è aggravata durante la pandemia di COVID-19, quando il lockdown di gran parte del mondo ha costretto a rallentare o cessare il lavoro sul campo e in laboratorio, indispensabili per lo studio e la gestione delle malattie, comprese quelle del mondo vegetale. I centri ricerca specialistici e le università sono stati temporaneamente chiusi o, nel migliore dei casi, hanno lavorato a basso regime. Uno stop di qualche mese in questo campo significa per i ricercatori perdere momenti chiave nel ciclo vitale di un parassita, e di conseguenza l’opportunità di fermarne l’avanzata. Un rischio è anche che ora i settori della ricerca che si occupano del Coronavirus siano (comprensibilmente) agli occhi della politica l’ambito di studio prioritario e verso cui convogliare la quasi totalità dei limitati fondi a disposizione, limitando ancora di più lo studio delle epidemie e delle patologie vegetali.

Invece questo ambito necessita di grande attenzione e di risorse, perché a essere a rischio è anche il sistema agricolo e alimentare. A fare le spese dei contagi è, infatti, innanzitutto il rendimento agricolo – sia in termini di quantità che di qualità – con perdite economiche immense. Viene anche colpita la sicurezza alimentare a livello locale, nazionale e mondiale, aggravando il problema ancora non debellato della fame. Le ricerche basate sui danni causati da 137 tra patogeni e parassiti alle più diffuse colture mondiali valutano una perdita a livello planetario che per grano, soia e mais è di circa il 21% della produzione, del 30% per il riso e del 17% per le patate. Per di più, le maggiori perdite riguardano regioni che già hanno problemi a livello di produzione alimentare e dove la popolazione cresce più in fretta. 

Le epidemie provocate dall’introduzione in una regione di parassiti o insetti non nativi non sono un fenomeno nuovo: il Sirex noctillo, una tipologia di vespa europea, fu introdotto intorno al 1900 in Nuova Zelanda e poi in tutto il mondo, provocando danni ai sistemi forestali per miliardi di dollari, prima che si iniziasse a usare un parassita nematode per sterilizzarla, salvando così l’industria forestale. Con la crescente interdipendenza delle economie a livello mondiale e gli scambi di merci e persone da un capo all’altro del globo, i rischi sono aumentati negli ultimi anni, anche perché crisi climatica e perdita di biodiversità hanno reso gli ecosistemi ancora più vulnerabili agli attacchi. Così, per esempio, la Lafigma – una specie di coleottero – ha impiegato solo un anno per raggiungere il Sudafrica dalla sua scoperta in Africa occidentale nel 2016, provocando danni alla produzione di mais stimati tra i 2,4 e i 6,2 miliardi di dollari. Lo stesso insetto nocivo nel 2018 ha colpito l’Asia, mettendo a repentaglio i 200 milioni di ettari coltivati a mais e riso nel continente, oltre alla vita di migliaia di agricoltori. 

L’Italia paga ancora oggi le conseguenze della diffusione della Xylella fastidiosa, un batterio diffuso nel Paese nel 2013 molto aggressivo nei confronti degli olivi. Il batterio blocca l’assorbimento di acqua e sostanze nutritive all’interno della pianta causandone la morte, e si diffonde con facilità, veicolato dagli insetti che si spostano tra un albero e l’altro. Gli oliveti secolari del Salento, in Puglia, sono stati decimati, ma l’epidemia ha colpito anche gli altri Paesi dell’Europa meridionale – dove Italia, Spagna e Grecia forniscono circa il 95% della produzione europea di olio d’oliva –  attaccando le aree tradizionalmente ricoperte di olivi e stravolgendo non solo l’economia , ma anche il paesaggio e l’indotto turistico. Uno studio pubblicato ad aprile scorso ha calcolato che il danno economico alla produzione italiana potrà superare i cinque miliardi di euro nei prossimi 50 anni. Scenari più rosei si prospettano invece nel caso l’infezione rallentasse o se si riuscisse a trapiantare con successo una varietà di olivo resistente al batterio: si potrebbe risparmiare con questa soluzione una cifra tra il mezzo miliardo e 1,3 miliardi di euro nei prossimi 50 anni, rallentando la corsa del contagio da oltre 5 chilometri all’anno a 1. Per raggiungere questo risultato la ricerca deve però concentrarsi per trovare una soluzione efficace – dato che sono state già individuate le specie di olivo più resistenti alla Xylella, ma non si hanno prove certe che questa strategia funzioni – per salvare non solo l’economia direttamente connessa alle olive, ma anche un patrimonio culturale antico di secoli.

Non sono solo le coltivazioni a scopo alimentare a essere colpite dalle epidemie, ma anche le foreste e ogni specie vegetale, che rischiano di essere considerati meno importanti perché non sfruttati per il profitto economico, rischiando così di essere meno salvaguardati. Ma gli scienziati avvertono che anche le piante non alimentari svolgono un ruolo fondamentale per gli ecosistemi di cui fanno parte, per esempio fungendo da habitat di diverse specie animali, ma anche contribuendo a rendere l’aria più pulita e respirabile.

In un mondo alle prese con emergenza climatica e alimentare la salvaguardia delle piante è quanto mai essenziale. Se da un lato la pandemia ha portato a nuovi stimoli e collaborazioni tra istituti di ricerca, università e aziende anche di Paesi diversi, ha anche imposto rallentamenti, quando non veri e propri stop a molti studi. Ora serve una valutazione dell’impatto del COVID-19 sui sistemi di biosicurezza che si occupano di salute delle piante e sulla relativa ricerca, in modo da trovare linee guida per il prossimo futuro. Ancora prima c’è bisogno di una nuova consapevolezza sul fatto che i sistemi alimentari mondiali sono sempre più connessi e che gli organi di controllo dei diversi Paesi dovrebbero adeguarsi di conseguenza. Rivedere i propri regolamenti, ridiscutere i sistemi su cui si basa l’approvvigionamento alimentare e aumentare i fondi destinati alla ricerca nel campo sono soluzioni urgenti e fondamentali per evitare che un’altra epidemia, anche se non direttamente, possa colpirci in modo ancora più duro del COVID-19.

Segui Silvia su The Vision