Come l’emergenza climatica sta cambiando quello che mangiamo

Il rapporto presentato dall’Ipcc nell’ottobre 2018 ha messo in luce un altro aspetto della nostra esistenza influenzato dal cambiamento climatico, tenuto ancora in scarsa considerazione: il nostro modo di nutrirci. Si parla molto di come tra le cause della crisi climatica ci siano anche le scelte alimentari di massa – dagli allevamenti intensivi alle monocolture – ma allo stesso tempo, stando alle ricerche, anche il cambiamento climatico sta già influendo negativamente su gran parte delle nostre colture. Questo deve preoccuparci e dovrebbe spingerci a prendere nel nostro piccolo delle iniziative, soprattutto perché tra poco dovremo trovare il modo di sfamare 10 miliardi di persone, possibilmente senza autodistruggerci o arrivare a far scoppiare delle guerre. Oggi più del 10% della popolazione mondiale è denutrita, con percentuali ancor più alte in Africa (20%), Asia meridionale (14%) e Caraibi (17%), ma queste cifre, proprio a causa dell’emergenza climatica potrebbero aumentare del 20% entro il 2050, con picchi del 65% in Africa subsahariana. È sempre più probabile che si replichino le crisi agricole avvenute in diversi episodi recenti – come nel 2008 – causati da crolli dell’offerta dovuti a diversi fattori, tra cui condizioni climatiche estreme. Gli attuali sistemi di produzione alimentare, infatti, basati su poche colture di massa e quindi più esposte agli eventi climatici estremi, sono estremamente fragili. Anche il sovrasfruttamento dei suoli e dei regimi idrici e la scarsa cura fanno la loro parte, contribuendo alla fragilità di un sistema che vive sull’orlo del collasso.

Somalia

L’effetto più immediatamente percepibile del cambiamento climatico è l’aumento dei prezzi, causato dal calo di produzione delle derrate alimentari, i prezzi di alcune delle quali potrebbero aumentare del 70-90%. Quelli di mais, frumento e riso potrebbero lievitare addirittura del 120-180%. Anche l’orzo, che già nel 2018 ha avuto una pessima annata per caldo eccessivo e scarsità di precipitazioni, ha visto un calo della produzione; l’anno scorso in Europa la produzione media è stata del 30% più scarsa della norma, con conseguente aumento dei costi. Secondo gli studi, se le emissioni di gas serra proseguono sulle traiettorie attuali, la produzione di vegetali e legumi potrebbe crollare del 35% entro il 2100 per scarsità d’acqua, presenza di ozono ed eccessiva salinità dei terreni; a provocare quest’ultima intervengono inondazioni e innalzamento del livello del mare, che infiltra i terreni: succede presso il delta del Mekong, nel sud-est asiatico, dipendente in larga parte dalla coltura del riso, la cui produzione nei prossimi anni calerà del 15%. E aumenterà anche il rischio di crolli nella produzione per tutti i maggiori esportatori di mais (Usa, Brasile, Argentina e Ucraina). A livello mondiale la variabilità del clima spiega oltre il 60% dei casi di diminuzione di rendimento di prodotti come mais, riso, grano e soia e si calcola che ogni grado di aumento della temperatura media si traduca in un calo delle produzioni agricole tra il 5 e il 15%. Se l’aumento delle concentrazioni di anidride accresce alcune rese, su larga scala prevalgono in realtà le riduzioni dovute al cambiamento climatico. E siccome il cambiamento climatico non è una novità, anche la produzione agricola ne è influenzata da tempo: precisamente, tra 1980 e 2008 le rese agricole mondiali sono diminuite del 3,6% per il mais, del 5,5% per il grano, mentre negli Stati Uniti la produzione di questi cereali sarebbe stata del 4-5% più abbondante se non fosse stata frenata da problemi legati al clima, secondo uno studio della Stanford University.

Shenyang, Provincia di Liaoning, Cina

Per effetto dell’aumento di anidride carbonica nell’aria e nel suolo potrebbe, la produzione di grano potrebbe crescere del 15%, secondo esperimenti condotti a livelli di CO2 pari a quelli previsti per il 2050, perché in presenza di più biossido di carbonio il grano richiede meno acqua. Ma c’è poco di che stare tranquilli: il pericolo in questo caso è comunque rappresentato dagli eventi meteorologici estremi. Lo stesso discorso vale per le patate, che nel 2018 hanno visto un raccolto eccezionale per quantità, ma sotto la media per le dimensioni dei tuberi. Anche le barbabietole da zucchero, come il grano, sembrano beneficiare del climate change, perché l’anidride carbonica funge da fertilizzante e permette di ricavarne più zucchero, ma a discapito dei nutrienti proteici. Anche la qualità, infatti, è influenzata dal clima: il contenuto proteico dei vegetali calerà quando l’anidride carbonica nell’aria raggiungerà i livelli previsti per il 2100 ed alimenti basilari come orzo, grano, patate e riso avranno concentrazioni di proteine tra il 6 e il 15% inferiori se cresceranno a quei livelli di CO2; in particolare nel grano anche zinco e calcio diminuiscono per effetto dell’anidride carbonica, ma il problema forse maggiore è posto dal riso, che attualmente sostiene circa 2 miliardi di persone con pochi altri nutrienti a disposizione: in 10 varietà studiate calano anche le vitamine B1 (tiamina) e B2 (riboflavina) del 17%, B5 (acido pantotenico) del 13% e B9 (acido folico) del 30%, e oltre a queste proteine fondamentali, zinco e ferro. Tutti questi sono elementi nutritivi fondamentali per la salute di tutti gli esseri umani.

Ma a essere colpiti non sono solo i campi: questi, infatti, hanno un’influenza diretta anche sugli allevamenti di bestiame. La diminuzione delle colture foraggere influisce sulla qualità dei mangimi, quindi, sulla nutrizione animale e, indirettamente, sulla diffusione di parassiti e malattie. Quanto alla pesca, gli impatti dei cambiamenti climatici nei mari e negli oceani stanno aumentando i problemi per pesci e acquacoltura, sia sul piano della fisiologia, della resistenza alle malattie e della capacità riproduttiva delle specie acquatiche – dovuti all’aumento dell’acidità delle acque e alla diminuzione dei livelli di ossigeno – sia sul piano dell’habitat, con conseguenze sulle migrazioni, il rischio di estinzione e l’arrivo di specie invasive, a causa dell’aumento di temperatura delle acque. Si stima una diminuzione della cattura annuale di pesci di circa 1,5 milioni di tonnellate con un surriscaldamento delle temperature globali di 1,5 °C e di oltre 3 milioni di tonnellate con 2 °C; nelle aree tropicali già nei prossimi 20 anni potrebbe registrarsi un calo del pescato di alcune specie compreso tra il 40 e il 60%, con gravi conseguenze sull’economia locale e sulla dieta delle popolazioni costiere.

Per una combinazione di fattori – tra cui la crescente frequenza e intensità degli eventi meteorologici estremi e la scarsità idrica in altri periodi – si prevedono peggioramenti delle condizioni igienico-sanitarie in regioni già vulnerabili. Alte temperatura e umidità fanno infatti proliferare batteri, virus e parassiti dannosi, facendo aumentare le infezioni da salmonella del 5-10% per ogni grado di temperatura in più. Il caldo provoca anche problemi nella refrigerazione dei cibi e favorisce, quindi, la presenza di mosche e insetti, ma potrebbe aumentare anche il numero di insetti e roditori che intaccano le rese e diffondono i patogeni trasmessi da alimenti. Le micotossine, formate da alcuni funghi, inoltre, a quelle condizioni crescono sulle coltivazioni e possono causare tossicità sia negli animali sia negli uomini.

D’altro canto il riscaldamento climatico può favorire le attività agricole ad alte e medie latitudini, espandendo le aree coltivabili in Russia, Scandinavia ed Europa centro-settentrionale (in Germania, nella valle del Meno, è possibile coltivare fichi croati), tanto che oggi la produzione di vino non è più un miraggio nemmeno in Inghilterra. Questi apparenti benefici sono contrastati dall’aumento degli eventi meteorologici estremi, con effetti economici potenzialmente devastanti, oltre che per i consumatori – che alle nostre latitudini possono scegliere cosa mettere nel carrello – per i produttori. Se da noi sta scomparendo (la data prevista è il 2100, con un calo di oltre il 70% già tra 50 anni) il tartufo bianco d’Alba – remunerativa eccellenza locale che passerà dai già cospicui 1000 euro al kg fino a quattro milioni e mezzo – nel mondo sono varie le specie alimentari minacciate. Tra queste, già da qualche anno, c’è il cacao, che sostiene centinaia di produttori in Africa equatoriale e in America meridionale. Tra cataclismi imprevedibili e  devastanti che mandano in fumo il raccolto e i proventi di un’intera stagione, alla riduzione dell’area di coltivazione a causa dell’aumento della temperatura, i produttori sono i primi a soffrire gli effetti dell’emergenza climatica.

Poti-Kro, Para, Brasile

Una ricetta magica dall’effetto immediato non è possibile. Per nutrire tutti servono terre da coltivare, ma se si prosegue a ricavarne, come si sta facendo, disboscando le foreste tropicali e sovrasfruttando il capitale naturale, non si va da nessuna parte. Una soluzione sta, ancora una volta, almeno parzialmente, in pratiche agricole più sostenibili che, se nel breve periodo possono sembrare meno produttive, ma che a lungo termine risultano vincenti, permettendo di conservare le risorse naturali, contenere le emissioni, ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e limitare, in definitiva, lo sfruttamento delle risorse. Se continuiamo come stiamo facendo, invece, dietro l’impressione della crescita a breve termine, peggioreremo l’attuale tendenza. Ridurre gli sprechi su tutta la filiera, è poi indispensabile e – con il surriscaldamento globale che rende più difficile il trasporto e la conservazione dei cibi nelle giuste condizioni igieniche – ancora più problematico. Parallelamente, bisogna far fronte alla scomparsa di interi raccolti e specie: si studiano le possibilità alternative, dalla quinoa coltivata in Germania, al cibo a base di farina di insetti. Mettendo in conto che il clima cambia e ridimensiona anche quello che portiamo in tavola.

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