Perché anche la crisi climatica influisce sul conflitto israelo-palestinese - THE VISION

Il 21 maggio è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. L’ennesimo accordo fragile destinato a venire meno per una lunga serie di fattori ancora irrisolti come l’occupazione illegale di territori da parte di Tel Aviv, i giochi di potere tra le potenze coinvolte nella regione e la crisi di consenso tanto della leadership palestinese quanto di quella israeliana. Quello che troppi osservatori internazionali sottovalutano, però, è il ruolo che nel quadro complessivo ricopre l’emergenza climatica, in un territorio in cui, secondo uno studio del 2018 dell’Università di Tel Aviv, il periodo estivo passerà entro il 2100 da quattro mesi a sei e l’inverno si accorcerà a due. Il cambiamento climatico non tiene conto di posizioni politiche, estremismi, appartenenze nazionali e religiose. Ma pensare che tutti ne siano colpiti allo stesso modo è un’illusione. Ecco perché i problemi ambientali della regione mediorientale sono un fattore essenziale che non possiamo più ignorare se vogliamo evitare il ripetersi sempre più frequente di scontri armati nell’area.

Bayt Aww, West Bank, Israele

Dei 20 Paesi al mondo più vulnerabili al cambiamento climatico, infatti, ben 12 sono coinvolti in conflitti. Questi non sono direttamente causati dalla crisi climatica, che però aggrava problematiche di carattere sociale, economico e politico, accendendo le contese latenti e portando a galla disuguaglianze e disparità. In questo senso l’emergenza climatica agisce come un moltiplicatore di problemi, amplificando fattori come la povertà, l’instabilità politica e la criminalità. Tanto che, secondo i ricercatori di Princeton e Berkeley, a un aumento della temperatura media annuale di 1 grado corrisponde un aumento del 4,5% nella frequenza delle guerre civili. Non solo le guerre sono infatti rese più probabili dalla crisi climatica, ma è vero anche il contrario: i conflitti a loro volta peggiorano le condizioni ambientali, in un micidiale circolo vizioso a cui sono connessi fenomeni sempre più massicci come le migrazioni climatiche. Esiste infatti anche una connessione tra il livello di militarizzazione, specialmente se tecnologicamente avanzata, di un Paese e il suo impatto ambientale; non a caso, per esempio, il più grande esercito al mondo, quello statunitense, è anche il più grande inquinatore del Pianeta, come rilevato da uno studio del 2019 della Brown University. Questo avviene perché le operazioni militari non solo impiegano grandi quantità di petrolio, ma possono portare alla contaminazione dell’acqua, del suolo e del terreno anche in modo diretto, per esempio provocando la distruzione di foreste, che minaccia la biodiversità, e danneggiando infrastrutture petrolifere e impianti industriali, che rilasciano grandi volumi di gas serra nell’aria. Un degrado ambientale che riduce la capacità di adattamento di abitanti, economie e governi ai cambiamenti climatici. 

I periodici picchi di tensione tra Israele e i territori palestinesi non si sottraggono a questo meccanismo: lo Stato israeliano, infatti, è tra i più militarizzati e ha uno degli eserciti più tecnologicamente avanzati al mondo. Il suo potenziale militare impatta sull’ambiente in diversi modi, dalla produzione di ingenti quantità di rifiuti – come avvenuto, secondo il professor Yoel Roskin, esperto di geomorfologia, già durante la guerra dello Yom Kippur del 1973, tramite la costruzione di recinzioni di filo spinato e avamposti sulla linea di fortificazione Bar-Lev – ad altre attività impattanti su natura e habitat selvatici, come nel caso delle barriere costruite da Israele che impediscono i normali spostamenti non solo degli uomini, ma anche degli animali. Le guerre non sono mai ecologiche – e questo significa che l’impatto ambientale del conflitto non è, ovviamente, da addossare interamente a una sola parte –, ma il vantaggio economico, militare e tecnologico di Israele non può essere ignorato. E nemmeno le sue conseguenze ambientali.

Lo si vede anche sul piano dell’economia locale. Quella palestinese è strettamente connessa alla terra, poggiando largamente sul settore agricolo colpito non solo dagli esplosivi usati nei bombardamenti aerei e terrestri, ma anche dalle limitazioni poste dall’esercito israeliano all’utilizzo dei terreni della Striscia di Gaza adiacenti la barriera militarizzata, ossia circa il 20% della terra arabile della Striscia. Già durante la Seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005, gli interventi militari nelle aree rurali hanno avuto un impatto significativo sull’ambiente, tra le altre cose alterando i meccanismi di drenaggio del suolo per effetto del passaggio dei mezzi cingolati. Elemento portante dell’economia palestinese, in particolare, è l’indotto dell’olivo, spesso coltivato in aziende agricole famigliari, divenuto uno strumento di gestione e manutenzione del territorio in accordo con la natura e nel rispetto della terra, oltre che simbolo della resistenza palestinese. Resistenza che deve però scontrarsi con la distruzione di migliaia di esemplari nel corso dei sequestri di terre per la costruzione di nuovi insediamenti, ma anche con le limitazioni all’accesso delle coltivazioni. 

Colpendo direttamente le risorse che sostengono le popolazioni locali, le occupazioni fanno ulteriormente crescere la tensione, portando a scontri che si ripetono con periodicità sempre più frequente. Non si tratta, quindi, di occupazioni “solo” militari, dal momento che, come sottolinea l’analista di Arab News Kerry Boyd Anderson, a subire perdite e danni sono anche le infrastrutture idriche palestinesi e le cisterne per la raccolta dell’acqua, cosa che costringe spesso la popolazione all’unica scelta possibile: acquistare da Israele la costosa (e inquinante) acqua in bottiglia. Il risultato è un controllo esercitato sul territorio e sui mezzi di sussistenza che offre, con conseguenze pesanti sull’ambiente e sulla gestione delle risorse.

Demolizione di case palestinesi a Hebron

Non a caso nel 2010 l’Autorità Palestinese ha promosso una strategia di adattamento al cambiamento climatico che identificava nell’acqua il focus prioritario delle azioni da intraprendere, per il suo ruolo di primo piano nel sostentamento del settore agricolo. Proprio l’acqua, infatti, è il nodo irrisolto fondamentale del quadro geopolitico e ambientale della regione, un’area in cui l’aumento del livello del mare causato dallo scioglimento dei ghiacciai mondiali, tra le altre cose, accrescerà probabilmente le infiltrazioni d’acqua salata nelle falde acquifere presso la costa, mentre l’aumento delle temperature potrebbe danneggiare gli equilibri degli stock ittici. Israele, che dispone di scarse fonti idriche sul proprio territorio, ha sempre fatto affidamento su quelle palestinesi per il proprio approvvigionamento: per questo, per esempio, in seguito alla Guerra dei sei giorni del 1967, quando occupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nazionalizzò le risorse idriche dei territori occupati, limitando poi l’accesso dei palestinesi e obbligandoli a chiedere un’autorizzazione per costruire le loro infrastrutture idrauliche. Da allora il controllo di queste falde è sempre stato uno dei principali motivi di contesa, ma Israele continua di fatto ad avere il controllo della gestione idrica; grazie all’avanzamento tecnologico oggi beneficia anche di impianti di desalinizzazione efficienti, mentre sono strutturali le carenze idriche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, in un contesto in cui si ritiene che le precipitazioni stagionali diminuiranno fino al 40% da qui al 2100. Proprio la Striscia di Gaza vive la situazione peggiore, con il 97% dell’acqua non adatta al consumo umano e dove quella contaminata è la principale causa di decessi infantili e di potenziali epidemie. 

Nonostante ciò, la maggior parte dei report sulla questione israelo-palestinese ignora quasi completamente il ruolo del cambiamento climatico come moltiplicatore di minacce e tensioni e, viceversa, il ruolo dei conflitti come concausa della crisi climatica. Anzi, nonostante Israele sia un leader regionale nella tecnologia verde, il governo israeliano non presenta piani concreti in risposta all’emergenza climatica, come lamentano gli stessi attivisti del Paese; al contrario, l’Autorità Palestinese non ha le risorse tecniche e le possibilità economiche e politiche di risolvere i problemi ambientali dei territori che sono, almeno sulla carta, di sua pertinenza.

È chiaro, quindi, che, se l’accesso alle risorse è diseguale, anche le conseguenze dell’aumento delle temperature non colpiscono allo stesso modo palestinesi e israeliani. Per questo non è possibile separare la critica all’occupazione da parte israeliana dalla questione ambientale: non dobbiamo fare l’errore di pensare che quelli climatici siano aspetti secondari rispetto alle altre conseguenze dei conflitti, perché i loro effetti aggravano l’oppressione che è un aspetto centrale delle logiche (neo)coloniali e dell’occupazione, in Israele come in ogni parte del mondo dove assistiamo a situazioni simili. Dimostrando ancora una volta che non c’è giustizia climatica dove è negata quella sociale.

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