Il capitalismo distruggerà noi e il pianeta. È tempo di intervenire.

Ci sono alcuni concetti che a forza di tirarli in ballo sembrano quasi perdere il loro significato originario per diventare una sorta di jolly linguistico da utilizzare senza troppo peso né consapevolezza. Il capitalismo – e tutto ciò che colleghiamo a questa parola, dal libero mercato al suo filosofo di riferimento per eccellenza, Karl Marx – è uno di quei termini spesso abusati e logorati dall’eccessivo uso fuori contesto, un asso piglia tutto di qualsiasi dibattito a sfondo sociale ed economico, tanto da sembrare ormai spesso lo strascico o lo scimmiottamento di qualche frase da circolo operaio anni Settanta. Eppure, il capitalismo è a tutti gli effetti il motore che porta avanti il mondo come lo percepiamo nell’Occidente, oltre che la causa e l’origine di molte delle cose che sul nostro pianeta non vanno – e dovremmo ormai rendercene conto a prescindere dallo schieramento politico in cui ci si riconosciamo. Questa forma mentis vecchia di secoli – perché non si tratta semplicemente di un modello economico ma di un vero e proprio modo di pensare – che ormai quasi diamo per scontata, oggi influenza e determina talmente tanti temi e fenomeni che in questo preciso momento storico risulta innegabile e improrogabile un dato di fatto: il capitalismo e ciò che comporta, sia a livello quotidiano che macroscopico, non è compatibile con la nostra sopravvivenza sul pianeta in cui viviamo. Semplicemente – e se ne stanno accorgendo sempre più persone, e non per forza militanti anticapitalisti con la molotov sotto braccio – non è più uno schema sostenibile senza fare sì che distrugga tutto ciò su cui poggiamo i piedi. 

C’è poco da girarci intorno: si può essere favorevoli a un’idea di mercato libero che favorisca il più forte, che concentri la ricchezza nelle mani di pochi, che sproni anche a un’idea di meritocrazia e self made men, certo. A difesa di questo sistema economico arriva sempre l’idea per cui in un contesto di libertà e di competizione, chi merita di accaparrarsi la fetta più grossa della torta ha il diritto di mangiarne di più. E non è nemmeno un modo di pensare così assurdo, considerato che risponde a leggi quasi animali della prevaricazione del più forte – o del più privilegiato in partenza, perché no – e ha garantito nell’arco degli ultimi due secoli della nostra storia un livello di benessere minimo certamente molto più sano di quello di un sistema come il feudalesimo. Tutti questi fattori sono i punti che da sempre fanno da base argomentativa a chi crede nel capitalismo come modello positivo, e sebbene io personalmente possa dissentire, sono comunque in grado di comprendere le ragioni di queste persone. Ma il problema ad oggi è proprio che questo status di media soddisfazione e benessere diffuso ha conseguenze devastanti su piani molto più seri di quanto l’uomo abbia mai potuto pensare: in sostanza, puoi anche fregartene dei diritti dei lavoratori, puoi credere che la meritocrazia sia un sistema funzionale e giusto, puoi ambire all’idea che la ricchezza si accumula senza freni e senza conseguenze su chi ti circonda, ma se non hai l’ossigeno da respirare, l’acqua da bere e il cibo da mangiare dubito che ti troverai a tuo agio persino in quella condizione di meritato successo e privilegio conquistato – o ereditato.

L’emergenza climatica ha dato forma alle conseguenze più concrete e devastanti del consumismo col quale ci siamo abituati a convivere noi uomini moderni, abituati a bere acqua in bottiglie di plastica e a usare la macchina anche per fare duecento metri. Sembra sempre banale sottolinearlo, ma in effetti è estremamente semplice: il riscaldamento globale e tutti gli altri fenomeni che coinvolgono cambiamenti drastici e irrimediabili per la Terra non sono altro che il frutto di una gestione delle risorse pensata da chi non ha avuto la lungimiranza e la capacità di autocontrollo per garantire che queste bastassero per tutti. Prendere atto del fatto che il capitalismo è stato il fulcro di questo modo di intendere la Terra come una miniera da svuotare fino a farla crollare su se stessa non è nemmeno una missione ideologica che mira a trasformarci tutti in bolscevichi con falce e martello tatuati sul petto – anche perché ci sono diversi accademici e scienziati che valutano modelli simili ma con applicazioni diverse e più consapevoli, come il premio Nobel Joseph E. Stiglitz, che promuove un’idea di progressive capitalism. Si tratta piuttosto di accettare il fatto che se vogliamo garantire un futuro al genere umano qualcosa deve cambiare, e il sistema con cui ogni cosa è stata fatta e pensata oggi è proprio la prima testa a dover cadere. 

Ci sono migliaia di esempi che si potrebbero fare per analizzare in che modo la sostenibilità del capitalismo sia incompatibile con la sua stessa natura, a partire proprio dal fatto che si fonda su principi di sfruttamento non solo delle risorse terrestri ma anche umane. Sven Beckert, professore di storia americana ad Harvard, qualche anno fa ha pubblicato un libro, Empire of Cotton: a Global History, in cui traccia le tappe fondamentali dello sviluppo del capitalismo nel mondo occidentale e della sua strettissima correlazione con la schiavitù. In sostanza, alla base della prima grande spinta economica che ha favorito lo sviluppo del mondo, in particolare quello anglosassone, nella direzione di evoluzione che conosciamo oggi c’è stato il mercato del cotone, e non serve scomodare professori di prestigiosi atenei statunitensi per intuire quali possano essere state le condizioni sulle quali questo business si è fondato per estendersi in modo così repentino e decisivo per gli anni successivi.

Senza andare troppo in là nella storia e nello spazio, senza bisogno di osservare in che modo questa pratica di sfruttamento di altre popolazioni sia ancora tutt’oggi alla base dei profitti esorbitanti delle multinazionali e delle corporazioni che si servono dei famosi “bambini che cuciono palloni in Vietnam”, ci sono elementi della nostra quotidianità che sono proprio la quintessenza di questo fenomeno. Basti pensare a una cosa stupida come i viaggi in aereo, le compagnie low cost e le conseguenze molto gravi che ha la leggerezza con cui oggi diamo per scontato che volare sia una cosa del tutto normale e sostenibile. Partendo dalle ripercussioni che il turismo di massa ha avuto sulle nostre città, nella maggior parte dei casi trasformandole in luoghi sempre uguali a loro stessi, privi di personalità e ridotti ad agglomerati di appartamenti AirBnb e parco giochi per turisti in cerca di un paio di Adidas nuove in centro ad Amsterdam, fino ad arrivare all’enorme impatto ambientale che ha il carburante degli aerei, è chiaro che una cosa così banale come prendere un volo Ryanair per un fine settimana a Parigi assume un significato molto diverso. Tant’è che cominciano a sorgere da qualche anno movimenti che si oppongono e protestano contro l’uso eccessivo dell’aereo, fino addirittura a provare a vivere una vita senza mai volare. Nei Paesi scandinavi ad esempio, prendere aerei è ormai quasi una vergogna per i personaggi pubblici, dal momento che esistono pagine su Instagram che raccolgono tutti gli spostamenti e gli sprechi dei vari influencer che consumano quintali di carburante solo per poter fare due foto alle Maldive con la crema solare da sponsorizzare messa in bella mostra. 

La trasformazione di potere economico in potere politico genera nella società una contraddizione che paghiamo già da ora, ma che non può che diventare sempre più forte: è normale che se tutto ciò di cui è fatto il nostro mondo si sposta solo in base agli interessi economici, alla spinta al consumo costante e immotivato, alla prevaricazione dell’uomo sulla natura per i suoi scopi spesso effimeri, prima o poi ci ritroviamo con un mucchietto di polvere in mano. Anzi, con nulla in mano, e ci saremo estinti prima di esserci accorgerti di aver consumato ogni briciola di risorsa che ci era rimasta nel nome del consumo e del “benessere diffuso”, a scapito di tutto e tutti. Di un livellamento che, se da un lato ci ha dato molte più chance di vivere bene e non più solo di sopravvivere, oggi rischia di ammazzarci. 

Possiamo sopravvivere alla peste, alle guerre, ai cataclismi, ma di certo non possiamo rimboccarci le maniche e ricominciare da capo quando non abbiamo un posto dove farlo. In questo senso, c’è ovviamente chi sta provando a dare una svolta consapevole e attiva, opponendosi peraltro anche a quel sentimento diffuso e fastidioso delle generazioni più grandi che guardano a personaggi come quello di Greta Thunberg come a fenomeni prettamente giovanili, per non dire da baraccone, interpretando la questione climatica come un semplice spauracchio relegato alla fantascienza, nonostante siano gli scienziati a dare prove concrete e allarmanti del pericolo a cui andiamo incontro. Da questo punto di vista, le nuove generazioni sembrano avere maggior consapevolezza rispetto al tema, oltre a una certa rabbia nei confronti di quelle più vecchie che si sono limitate a cavalcare l’onda del consumismo sfrenato senza pensare nemmeno per un attimo a qualcosa che non fosse il profitto. Ci sono diversi autori, professori, scrittori, intellettuali, scienziati che stanno provando a gettare le basi per una critica concreta e per una teoria strutturata di come dovrebbe agire l’uomo nei prossimi decenni per invertire la rotta – Naomi Klein, Paul Mason, il movimento Extinction Rebellion, il Sunrise Movement con il Green New Deal appoggiato anche da Alexandria Ocasio-Cortez, per citarne alcuni. La speranza ovviamente è che diventino modi di pensare normali, che vengano interiorizzati, e non solo additati come stramberie da verdi e fricchettoni che abbracciano gli alberi e lottano contro il fantasma senza volto del capitalismo. 

Non si tratta di tirare fuori argomenti di conversazione da centro sociale, né di recitare la parte del Folagra fantozziano di turno con la sciarpa magenta e il Libretto Rosso di Mao sotto il braccio. Ma il cambio di rotta è necessario, anche se sopravvive chi difende il capitalismo e riduce l’emergenza a un attacco ridicolo a un sistema che funziona benissimo. Certo, funziona bene se non ci si guarda intorno, se si chiudono gli occhi e ci si confina in un habitat protetto e rivestito di comfort, dimenticandosi del resto. Ma le cose non stanno così: la storia ci insegna che gli imperi crollano e i sistemi cambiano. Magari questa è solo la scusa che serve all’uomo per rinnovarsi e stravolgere totalmente il proprio modo di stare al mondo. E pazienza se non possiamo più usare le posate di plastica e prendere aerei come fossero biciclette, in qualche modo sopravviveremo – anche senza tenere l’acqua aperta mentre ci laviamo i denti. 

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