La farsa delle banche di investimento che vendono fondi green che sostengono aziende petrolifere - THE VISION

Da qualche anno sono sempre più numerosi i prodotti finanziari “ecologici”, come i cosiddetti ESG, che sono cresciuti esponenzialmente fino a raggiungere nel 2020 un valore totale di 1,7 trilioni di dollari. Questi fondi sostenibili funzionano molto bene, come ha evidenziato l’agenzia di ricerca Morningstar, che analizzandone 745 ha rilevato che questi ultimi eguagliano o addirittura superano i rendimenti dei fondi convenzionali, sia in riferimento alle obbligazioni che alle azioni. Gli istituti finanziari si sono così lanciati in una rincorsa a dotarsi dell’etichetta ESG, che dovrebbe certificare un’attenzione socio-ambientale degli investimenti fatti.

L’acronimo ESG sta per “Environmental” (ambientale), “Social” (sociale) e “Governance” (l’etica e le buone pratiche di gestione aziendale): tre aspetti che dovrebbero riflettere e certificare l’impegno legato alla sostenibilità delle aziende, espresso anche in termini di acquisto di prodotti finanziari da parte delle società di investimento. Le iniziative ispiratrici sono l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile  delle Nazioni Unite, che riguarda gli impegni sul piano sociale e ambientale per la salvaguardia del Pianeta, e i suoi Obiettivi (Sustainable Development Goals), che individuano iniziative concrete per attuarla, oltre ovviamente agli Accordi di Parigi. Tra le azioni raccomandate su cui si fondano queste iniziative globali c’è, per esempio, il principio della neutralità carbonica, da raggiungere da un lato riducendo le emissioni di gas serra e dall’altro intraprendendo azioni per assorbirne dall’atmosfera attraverso soluzioni tecnologiche. Spesso, però, questo impegno è più di facciata che reale, come emerso di recente.

A portarlo alla luce è stata una ricerca pubblicata dal think tank britannico InfluenceMap, da cui è emerso che di 593 fondi azionari identificati come ESG – con oltre 265 miliardi di dollari di patrimonio netto totale – oltre il 70%, contrariamente alle dichiarazioni, non è allineato agli obiettivi degli Accordi sul Clima di Parigi. Non solo: nel gruppo ascrivibile agli investimenti dichiaratamente climatici, 72 società sulle 130 analizzate – con oltre 67 miliardi di dollari di patrimonio netto totale – vanno oltre il semplice disattendere gli impegni e continuano a sostenere aziende e gruppi legati alla produzione e alla vendita di combustibili fossili, tra cui figurano nomi come TotalEnergies, Halliburton, Chevron ed ExxonMobil. Tanto che, secondo gli ambientalisti, i fondi d’investimento BlackRock, State Street e Vanguard avrebbero complessivamente 46 miliardi di dollari tra debiti e azioni nelle compagnie petrolifere che operano nella foresta amazzonica, contribuendo alla deforestazione e alla violazione dei diritti indigeni. Da parte loro i colossi degli idrocarburi a parole non mancano di promettere grandi sforzi per la riduzione delle emissioni ambientalmente dannose e, a quanto pare, ciò è sufficiente ad attribuire alle loro azioni l’etichetta ESG.

Lo stesso concetto di carbon neutrality presenta delle ambiguità, ma, anche prendendolo per buono, difficilmente si può credere che a rispettarlo siano nomi quali Total ed ExxonMobil; quest’ultima, per esempio, proprio a causa del suo scarso impegno ambientale pochi mesi fa ha dovuto cedere alle pressioni della società Engine n° 1 – che detiene una piccola percentuale di azioni Exxon – e accettare l’ingresso nel board di almeno due candidati proposti dagli ambientalisti che hanno denunciato i ritardi del gruppo nell’adeguarsi agli obiettivi di sostenibilità. D’altronde a ottobre 2020 l’agenzia Bloomberg aveva rivelato che proprio ExxonMobil aveva in programma di aumentare le sue emissioni di anidride carbonica del 17% annuo di qui al 2025, per inseguire l’obiettivo di raddoppiare i propri guadagni nei successivi cinque anni. Quanto a Total Energies, invece, il gigante francese prevede di ridurre le vendite di petrolio, aumentando però quelle di gas, dal 33% sul totale delle vendite che era nel 2019 al 50% nel 2030; infatti, gli obiettivi dichiarati da Total per il 2025 comprendono la riduzione in termini assoluti delle emissioni dai suoi impianti a combustibili fossili – escludendo quelle delle centrali a gas fossile, che inquina meno. Le altre società citate non sono da meno: qualche mese fa, ad esempio, Chevron è stata accusata da alcune associazioni ambientaliste di illudere i consumatori facendo greenwashing. Nel marzo scorso, infatti, Earthworks, Global Witness e Greenpeace USA hanno presentato alla Federal Trade Commission – ente americano che si occupa di difendere i consumatori dalla pubblicità ingannevole – un’accusa verso Chevron, che nelle sue comunicazioni sovrastimerebbe in modo fuorviante i propri investimenti a favore dell’ambiente.

Di fronte alla situazione portata in evidenza da InfluenceMap, quindi, viene da pensare che le maglie degli standard ambientali di ESG siano davvero molto larghe, dato che permettono ad aziende come Chevron e ExxonMobil di passarvi attraverso indisturbate. Le società d’investimento citate da InfluenceMap BlackRock e State Street – sono, tra l’altro, due dei tre maggiori Mutual Funds (letteralmente “fondi comuni”) al mondo, e controllano la quasi totalità delle corporation statunitensi. Il loro lavoro è quello di raccogliere denaro da vari investitori con cui poi acquistano titoli in borsa e infine ridistribuiscono gli utili delle azioni acquistate presso le aziende. Si tratta di un enorme valore economico, che sarebbe in grado di spostare – almeno in parte – le sorti del Pianeta, se investiti nelle cose e nel modo giusto. Peccato che avvenga il contrario: Blackrock (che di ExxonMobil possiede il 4,9%) ha votato a favore di risoluzioni ambientali solo nel 6% dei casi delle varie società di cui è azionista. Non esattamente un comportamento ambientalista.

L’intera faccenda per tanti non è una sorpresa: di sicuro non lo è per Tariq Fancy, ex direttore per gli investimenti sostenibili presso BlackRock. Il ruolo di Fancy aveva fatto pensare che l’alta finanza stesse cambiando strada, ma ora lui stesso smonta quelle illusioni, ribadendo forse l’ovvio quando sottolinea che gli istituti di investimento gestiscono macchine a scopo di lucro, per le quali è comodo ed economico dare una bella mano di verde alla propria comunicazione, senza disturbarsi in un vero impegno in favore della sostenibilità. In proposito, Fancy ha spiegato al Guardian:  “Se non ci sono sanzioni da parte del governo, sotto forma di carbon tax o qualsiasi altra cosa, questo fallimento del mercato è destinato a continuare”.

Tariq Fancy

Bisogna evitare tutto questo: da un lato attraverso azioni nette da parte dei governi, dall’altro applicando standard più severi per il rilascio dell’etichetta ESG. Situazioni come quella evidenziata da Influence Map, infatti, succedono anche a causa di una relativa mancanza di standard e norme severe che attualmente regolano la commercializzazione di fondi ESG. È proprio in situazioni come queste che il greenwashing trova spazio in cui infiltrarsi. I colossi dell’investimento hanno un’enorme responsabilità. Le banche, per esempio, nascondendosi dietro dichiarazioni e buone azioni sproporzionatamente piccole rispetto al complessivo andamento aziendale, spesso portano avanti politiche pessime sul piano dell’ambiente, finanziando aziende che continuano a inquinare. Celebri per il greenwashing sono anche le banche svizzere. Ma sono proprio loro, banche e istituti di investimento, ad avere il potere di cambiare le cose, provando a invertire o almeno rallentare la crisi climatica, innanzitutto smettendo di sostenere i combustibili fossili, che al mondo sono ancora predominanti.

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