Basta farsi un giro per le strade delle nostre città per notare torme di ragazzini fieri delle loro maglie monocrome su cui risaltano scritte minimali. Fra i brand di streetwear che vanno per la maggiore, Off-White occupa un posto d’eccezione. Il segreto del suo successo sta nell’essere l’espressione più riuscita dell’immaginario urban. Il marchio è associato a popstar mondiali come Drake, Rihanna, Travis Scott, che in Off-White ritrovano un mix di essenzialità ed eleganza. La mente dietro l’esplosione del brand appartiene a un giovane americano di origini ghanesi: si tratta di Virgil Abloh, che – grazie al lavoro svolto nell’ambito dello streetwear – a neanche quarant’anni si è guadagnato il ruolo di direttore creativo di Louis Vuitton.

L’estetica di Off-White si basa sui contrasti: bianco e nero sono i due colori utilizzati da Abloh per costruire l’iconica maglietta a righe diagonali. La filosofia perseguita dal designer è affine al “glunge” di Rick Owens, un’estetica semplice – a metà fra la praticità e il glamour – in modo da essere subito riconoscibile e creare senso di appartenenza in chi la indossa. Abloh punta a essere generazionale, a strutturare il proprio brand come una tribù, non per niente è molto amato proprio dagli adolescenti. Solo poche settimane fa si è formata una lunga coda per la presentazione milanese della nuove sneaker. Proprio a Milano ha sede il quartier generale di Off-White, e dal lavoro di artisti italiani il nativo di Chicago trova ispirazione. Le righe di Off-White sono, secondo Abloh, ispirate ai famosi tagli di Fontana. Allo stesso modo il marchio commercializza prodotti con stampe di Caravaggio, rimandando a un’affinità fra il bianco e nero del brand e i chiaroscuri del pittore. Sembra però che il designer si sia ispirato anche ad altri artisti italiani, senza manifestare la dovuta “riconoscenza”.

Qualche giorno fa il profilo Instagram Diet Prada – famoso per indagare le controversie legate al mondo della moda – ha messo in evidenza la somiglianza sin troppo stretta fra alcuni capi Off-White della collezione uomo autunno/inverno 2016 e un poster di AG Fronzoni per una mostra di Fontana, datata 1966. Il lavoro in questione è esposto alla Triennale di Milano, a poche centinaia di metri dalla sede di Off-White. Ma le somiglianze non si fermano qui: in generale molte caratteristiche dell’estetica di Off-White – dal lettering alla scelta dei colori – sembrano ispirate ai lavori di Fronzoni.

D’altronde Fronzoni è uno dei maestri del minimalismo internazionale, appartenente a quell’epoca d’oro del design, iniziata nel Dopoguerra e culminata negli anni Sessanta sull’onda del boom economico, che ha reso famoso in tutto il mondo lo stile italiano. Angiolo Giuseppe Fronzoni – abbreviato in AG Fronzoni, come a voler scomparire dietro il marchio – al pari di Enzo Mari e Ettore Sottsass ha contribuito a forgiare una filosofia del design in cui l’estetica è anche etica.

Se in Mari c’è una tensione verso l’uso dell’oggetto, un’apertura alle molteplici possibilità del fruitore, come testimoniano i progetti di puzzle, calendari componibili, aree giochi; e Sottsass ha concepito il design in maniera “radicale”, come strumento di critica sociale, in cui l’ornamento è un modo per esplorare il reale, gettando le basi per le forme degli anni ‘80; AG Fronzoni si pone agli antipodi di queste esperienze, rifacendosi al minimalismo e parallelamente riprendendo gli insegnamenti del Bauhaus. La ricerca del designer pistoiese si muove tenendo bene in mente queste linee guida: da una parte il “less is more” di Ludwig Mies van der Rohe, dall’altra l’”impara facendo” di Josef Albers, anch’egli professore all’interno del Bauhaus. La sua idea è di spogliare gli oggetti da tutti i fronzoli per riportarli alla pura essenza. Un poetica guidata dal razionalismo e dal funzionalismo, che si basa su pochi elementi: il bianco e il nero, gli angoli e le forme geometriche pure, le frecce come vettori razionali.

Ma Fronzoni non si limita a questo, egli attribuisce al design una funzione educativa: ecco il motivo dell’uso delle parole nelle sue opere grafiche, un lettering messo a punto negli anni di direzione della rivista Casabella. Con tale scelta l’artista riprende la tensione del Bauhaus verso l’educazione democratica, e si permette di veicolare il proprio ideale funzionale attraverso la cornice minimale. Per questo negli anni ’60 Fronzoni diviene un grafico apprezzato, come abbiamo visto nel caso del poster per Fontana, o come nel caso dei molti altri poster progettati per la Biennale.
Fronzoni si potrebbe definire un Luciano Biancardi del design: entrambi toscani e animati da un radicalismo intransigente, si sono trasferiti a Milano a cavallo degli anni ’40 e ’50 e hanno contribuito ad arricchire l’humus culturale della città che si è poi riverberato su tutta l’Italia. Se in Bianciardi la rivolta si manifestava nella durezza della parola, per Fronzoni, di carattere più mite ma non meno ostinato, operare per la comunità significava trasmettere la propria visione, e far sì che tutti avessero la possibilità di esprimere le proprie idee al meglio.

La vocazione all’insegnamento è stata la costante nell’attività del designer: prima nella Società Umanitaria, poi in vari istituti d’arte; ancora, come art director della rivista Casabella, in cui faceva da educatore ai suoi collaboratori, e infine con La Bottega, la sua scuola attiva dal 1982 al 2001. Ricordato sempre come un maestro esigente ma gentile, Fronzoni cercava nell’insegnamento l’incontro fra uomo e uomo, come nel designer cercava lo scontro con l’idea pura. Per questo Fronzoni è ricordato da molti come un grande maestro.

Il designer Alessandro Mendini, collega e allievo di Fronzoni nell’esperienza di Casabella, ne ricorda così la dolcezza e l’intransigenza: “Ogni giorno combatteva la guerra del bene contro il male. Con grande capacità di parola (e con altrettanta riservatezza e umiltà) dimostrava che tutto il mondo e tutti i temi del mondo dovevano essere assorbiti negli schemi ossessivi della sua ortodossia grafica.” L’artista era animato da un oltranzismo morale come pochi se ne vedono oggi nel panorama culturale: “Considerava,” continua Mendini, “il suo personale progetto calvinista come il riscatto necessario a tutta la comunità politica, civile e progettuale.”

I corsi del pistoiese investivano non solo il campo dell’arte, ma sfociavano nella filosofia, un’educazione alla vita che egli sintetizzava con la massima “La mia ambizione non è progettare un manifesto, è progettare uomini.” Fronzoni intendeva la professione artistica con rigore, il proprio lavoro al servizio di una comunità democratica. Non amava gli individualismi, il basso profilo era una scelta ponderata che rispecchiava il suo ideale. Nella sua visione la salute di una società era misurata sui parametri della collettività, evitando i personalismi. Ester Manitto – sua allieva e autrice del libro A lezione con AG Fronzoni – riporta che, quando leggevano i giornali a lezione, Fronzoni era solito commentare: “Penso sia il compito di ognuno di noi portare la cultura non dove c’è già, ma dove manca, in provincia, in periferia, ai più poveri, dove ci sono meno informazioni. La cultura di un Paese si misura dalla cultura dall’ultimo uomo di quel Paese, è la media che conta.”

Enzo Mari racconta che, alla vigilia del ’68, egli stesso scelse Fronzoni come ponte fra intellettuali e operai: attraverso i suoi poster si annunciavano le assemblee del Movimento. Basta guardare i lavori di quel periodo per notare i punti di forza dell’artista: appelli scritti in nero su sfondo bianco, la perentorietà del concetto di aggregazione esposto con semplicità e chiarezza, la scelta dello stampato minuscolo a dimostrare la naturalezza del gesto.
Il minimalismo di Fronzoni si è dimostrato anti-retorico, non urlato, capace di comunicare la forza delle idee senza appoggiarsi su facili sentimentalismi. Ed è proprio Fronzoni – in un’intervista rilasciata a Vanni Pasca in occasione della personale del ’96 “Comunicare in lealtà l’essenza degli oggetti” – a rileggere la propria carriera come un atto di fedeltà nei confronti della forma: “La forma è bellezza, qualcuno ha detto che la bellezza salverà l’uomo: non so se sia vero, ma so che la forma mi è utile, anzi indispensabile, anzi preziosa, per inviare un messaggio che è messaggio di pensiero.”
Se Casabella rappresentava il momento di riflessione nella fucina dell’artista e il lavoro di grafico la partecipazione alla vita della comunità, è nel design d’interni che Fronzoni esprime appieno il proprio credo. La ‘64 – ideata nell’anno omonimo per l’allestimento della galleria genovese La Polena – comprende solo pezzi base: letto, sedie, tavoli, comodini. Geometrie scolpite in angoli retti si accompagnano a strutture aeree in metallo, un ordine funzionale che riporta i caratteri della meditazione, l’ascesi della forma che Fronzoni ha sempre ricercato. E che, a quanto pare, ha lasciato un segno negli ambiti più disparati – almeno questo ci insegna la ripresa di certi motivi da parte di Abloh.

Virgil Abloh non è nuovo a polemiche del genere, questo è un terreno in cui si muove sin dagli albori. Con Pyrex Vision, il suo primo brand fondato insieme a Kanye West, personalizzava capi di altre marche, come ad esempio polo Ralph Lauren, applicandovi la scritta Pyrex e il numero 23, quello di Michael Jordan, e rivendendoli a cifre che toccavano i 500 dollari. Un procedimento simile al campionamento in musica. Abloh si concepisce come un uomo rinascimentale in grado di fare il producer, il dj, lo stilista, il pubblicitario, il designer, nonché il “ghost-stylist” (come molti lo ritengono) di Kanye West. Lui stesso si definisce “multihypenate artist”, un eclettico in grado di passare da un progetto all’altro. La sua concezione si basa sul multi-tasking e sull’ironia postmoderna, che vede nella citazione un gesto autoriale di un mondo in cui nulla si può più creare. Dunque non manca di affermare: “L’ironia è la modalità del comunicare oggi, specie sui social. Lo humor è il linguaggio usato dai Millennial. La nostra generazione non vive per gli stessi valori della precedente. Pensa più velocemente e in libertà come le ha permesso di fare Internet.”
I lavori di AG Fronzoni sono veicolo di un messaggio radicale, un’etica minimalista che sottende una concezione del mondo democratica e razionale. L’ironia di Abloh suggerisce l’idea di un mondo in cui è meglio rovistare nell’esistente piuttosto che sforzarsi a creare qualcosa di nuovo. Ma se è così a suo agio con le estetiche derivative della generazione post-Tumbrl, perché non riconoscere l’ispirazione che gli deriva da una fonte così evidente?