Perché siamo ossessionati dalla vita dei ricchi se poi li odiamo

Sono passati appena due anni da quando il nostro feed era invaso dai video di un quarantenne brizzolato, palestrato e tatuato che si esibiva in danze tanto ipnotiche quanto perturbanti su uno yacht a mare aperto. Se la parola inglese cringe avesse una personificazione, probabilmente il volto e l’anima sarebbero quelli di Gianluca Vacchi, un personaggio che, complice quello strano meccanismo per cui più una cosa fa schifo più ce la ritroviamo davanti in qualsiasi occasione, è diventato il re della bella vita e dei social per qualche mese. Nessuno sembrava stimarlo, né gioire insieme a lui dell’incredibile e pazza vita che gli è capitata tra capo e collo, eppure tutti noi comuni mortali senza un’azienda di famiglia che ci sostenga nella nostra vita eccentrica, almeno una volta, abbiamo posato lo sguardo su “la folle (e sexy) danza del bomber Gianluca Vacchi”. E nonostante fosse chiaro che più ci si accaniva nell’insultarlo più aumentava l’engagement sulle varie piattaforme che gli facevano da palcoscenico, più ci si indignava per le sue mosse melliflue e calienti e più il suo nome diventava realmente un argomento di conversazione, per un lungo periodo non ci siamo astenuti dall’esprimerci sulla questione. Sarebbe bastato stare zitti e non avvicinarsi nemmeno al link di quel video e il dandy del Ventunesimo secolo che vive tra privé in discoteca e mocassini di dubbio gusto probabilmente avrebbe continuato a essere solo uno dei tanti ricchi sfaccendati e dissoluti. E invece.

Gianluca Vacchi non è certamente un caso isolato, non è né il primo né l’ultimo tanto facoltoso quanto inutile personaggio a cui rivolgiamo la nostra attenzione. E soprattutto, non è un’attività confinata all’uso odierno dei social, visto che la storia della televisione americana – e di conseguenza anche italiana – è costellata da format che si basano proprio sull’osservazione scientifica e costante della vita e degli sprechi dei ricchi. La prima trasmissione simile di cui ho memoria risale alla mia prima adolescenza e a quella minuscola televisione a tubo catodico con cui mi intossicavo di tutta la spazzatura che produceva MTV nei primi anni Duemila. Era Teen Cribs, un meraviglioso spettacolo di opulenza in cui lo spettatore veniva portato per mano in ville con ettari di bosco, piscine olimpioniche e home cinema da un minorenne abbrutito dall’abbondanza che la vita gli aveva offerto. Il Macaulay Culkin di turno ti mostrava orgoglioso le scorte di snack degne di un deposito Nestlè nella dispensa, lo scivolo per accedere al piano di sotto, i campi da golf, mentre tu stavi lì, nella tua cameretta, a bruciare dall’invidia fino al midollo ma incapace di cambiare canale. Ma era solo la punta dell’iceberg, perché il passo successivo agli home tour di lusso con guide brufolose era qualcosa di ancora più perverso: i reality sulle famiglie ricche.

Ad oggi potrebbe sembrare normale come concetto quello di consegnare agli occhi degli spettatori la propria intera esistenza, considerato che c’è chi lo fa quotidianamente su Instagram senza nessun filtro se non un tocco di Amara. Il primo show televisivo, sempre prodotto dalla mente brillante di MTV, che è arrivato nella mia televisione era quello dedicato alla famiglia Osbournes, un ritratto di sfarzo e rock and roll niente male. Si vedevano le giornate trascorrere nel nulla assoluto, tra cani di piccola taglia e litigi, divani bianchi e statue nere e una grande consapevolezza di fondo: queste persone hanno una barca di soldi e non sanno proprio come spenderli. L’altra famiglia famosa e ricca della quale si potevano seguire le appassionanti vicende era quella di Hulk Hogan in Hogan Knows Best, e il soggetto era la vita sotto il tetto del wrestler con la bandana, i capelli ossigenati e il colorito della pelle simile a un würstel ben cotto. Poi c’erano pure le vicende domestiche di Jessica Simpson e consorte, tra i tramonti californiani e gli immancabili capitelli dorici della sua villa. Ma il re indiscusso dei reality a tema familiare, non ci piove, è Keeping up with the Kardashians, la serie che ci ha regalato con i suoi dieci anni di messa in onda una scorta di meme infinita.

La vita delle sorelle Kardashian-Jenner, della madre – demiurgo di questo universo a base di botox, contouring e sederi abnormi – e del padre, poi diventato donna, è il centro di uno spettacolo infinito, dove tutto gira attorno a un’idea di otium perenne, smosso solo dall’unico valore che domina la loro realtà: il denaro, sublimato in beni imprescindibili come orecchini di diamanti da 75mila dollari e titoli nobiliari. La serie ha avuto talmente tanto successo da trasformare le sue protagoniste in vere e proprie imperatrici dello showbiz, tra linee di cosmetica e milioni di follower su Instagram, fino a farci dimenticare il perché tutti sappiamo chi è Kim Kardashian e quanti interventi di chirurgia estetica ha fatto Kylie Jenner. Non si può certo negare loro il merito di essere state ottime imprenditrici di se stesse, in un’opera di selfbranding davvero unica e ineccepibile – tanto da fare diventare il fatto stesso di non saper fare nulla il centro della loro immagine. “Not bad for a girl with no talent” è la didascalia che più spesso vediamo associata alle foto di Kim, alludendo proprio alla sua incredibile capacità di aver trasformato, grazie alla diffusione di un suo sex tape, la sua eredità in uno spettacolo verso cui siamo tutti più o meno attratti. Non è tanto ciò che fa a renderla potente, è ciò che è: un simbolo, uno status, un sogno. È l’evoluzione perfezionata di Paris Hilton, altra ereditiera che ha fondato la sua carriera sul fatto di non avere una carriera, amica di Kim. Solo che mentre Paris Hilton rimaneva circondata da un certa aura di goffaggine ridicola nelle sue manifestazioni creative e imprenditoriali, le Kardashian-Jenner sono quasi in grado di dare l’idea che stiano facendo qualcosa di vero, che stiano in qualche modo “lavorando”.

In Italia il corrispettivo più proficuo di questo genere televisivo è stato Riccanza. Anche in questo caso, come era prevedibile, la polemica sull’immoralità di una rappresentazione simile si è subito accesa, tra gogne pubbliche verso i protagonisti e boia d’eccezione come Sgarbi. Tra i vari partecipanti, Elettra Lamborghini – e per un breve periodo anche Tommaso Zorzi – è senza dubbio quella che più ha suscitato l’interesse morboso di chiunque ami scavare a fondo nel lusso dell’oro ereditato. Il suo sfarzo viene ostentato in un’immagine talmente pacchiana e maculata (letteralmente) che finisce per sembrare l’opposto di quello che è: una caricatura simile, una versione potenziata del peggior concorrente di Jersey Shore, sembrerebbe derivare sempre da una certa condizione svantaggiosa di partenza. Il kitsch estremo, solitamente, è retaggio di chi la ricchezza non l’ha mai vista e se la ritrova tra le mani tutta in una volta sola. Elettra Lamborghini invece ci tiene a precisare di aver frequentato le scuole buone, di conoscere il bon ton, e che la sua è una scelta di libertà e massima espressione del sé. Rivendica una certa sensibilità d’animo – da brava miliardaria che sguazza nei first world problem, come poteva farsi mancare la carta vegan? – e può destreggiarsi tra le arti con disinvoltura, come la sua predecessora Paris Hilton, la regina delle eredi senza un apparente talento se non quello di usare i soldi dei propri genitori per imporsi come celebrità. Eppure, Elettra Lamborghini la seguono quasi tre milioni di persone su Instagram, e altre 200mila sul suo canale Twitter, da cui dispensa pillole di saggezza. Il sentire comune è così un’altra volta diviso tra il disprezzo viscerale per una ragazza che ha come unico merito quello di essere nata tra oro e bambagia e la smania di sapere cosa fa, come si veste e quanto valgono i diamanti che ha addosso.

La domanda sul perché persone senza merito apparente trovino così tanto spazio nella nostra vita, perlomeno quella mediatica, porta dunque a un’altra domanda: quella sul perché glielo diamo. Sul motivo per cui, nonostante ci facciano così schifo e antipatia, guardiamo i loro video, le loro trasmissioni, ascoltiamo persino le loro canzoni. La curiosità gioca un ruolo fondamentale; inoltre nonostante il fastidio che si può provare nel guardare un quarantenne che non si sa bene neppure che lavoro faccia destreggiarsi in balletti ridicoli, siamo comunque attratti dalla voglia di provare indignazione, mossi da una sorta di masochismo. Perché scuotere la testa o commentare con un “trovati un lavoro”, pensando con rabbia alla nostra condizione più infelice, ci garantisce in fondo una piccola soddisfazione, seppur vacua e momentanea. Questa è la ragione più superficiale e immediata per qualsiasi spettacolo voyeuristico che abbia come oggetto un miliardario annoiato.

A continuare ad alimentare la nostra curiosità però, c’è anche l’invidia: è come se osservando in modo ossessivo quel tipo di vita ci si sentisse quasi di farne parte. Ci si spreca in apostrofi e invettive perché, fondamentalmente, a fare da traino è la frustrazione, la consapevolezza di non poter avere mai un’esistenza simile. Il punto, piuttosto, dovrebbe essere un altro: non ci dovremmo arrabbiare con Elettra Lamborghini perché ha il corpo ricoperto di macchie di giaguaro e diamanti e anche noi vorremmo avere la possibilità di trasformarci in un tappeto maculato deambulante con i soldi dell’azienda di nostro padre. Dovremmo piuttosto prendercela con il sistema che ha generato lei e Paris Hilton e che consente una disparità simile; dovremmo concentrarci sulla speranza che non esistano più sullo stesso pianeta persone che devolvono tutto il tempo e le energie che hanno a disposizione per ottenere uno stipendio che garantisca loro una vita al limite della decenza mentre altre impiegano le loro giornate a comporre un singolo come Pem Pem. E la soluzione non è nemmeno quella che propongono i vari “arrivati dal basso”, i trapper che sfoggiano Rolex e diamanti rivendicando la posizione che si sono guadagnati. Più che a puntare a una villa con la pista d’atterraggio per gli elicotteri – e arrabbiarsi con chi ce l’ha – sarebbe giusto a mio parere se ambissimo tutti a fare sì che nessuno potrà avere tanta ricchezza da sprecarla in cose inutili, e tutti invece potremmo godere di una giusta dose di felicità e comodità. A quel punto allora non avremo più Gianluca Vacchi contro cui sfogare frustrazioni e rabbia e, se dio vuole, nemmeno più i suoi balletti demenziali.

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