Perché non facciamo a meno dei tormentoni estivi?

Ogni anno, con l’arrivo dell’estate, i telegiornali ci suggeriscono di preoccuparci delle solite cose: evitare le ore più calde della giornata, bere molta acqua, sfruttare le “vacanze intelligenti” per far fronte all’esodo del turismo. E poi, immancabili all’ora di pranzo, mentre aspettiamo il momento del calciomercato, arrivano i cinque minuti del tormentone estivo, quella canzonetta che si riproporrà per i mesi a venire. Inutile spegnere la tv, se accendiamo la radio ce la ritroviamo in heavy rotation. I tormentoni infestano i risvegli muscolari dei lidi di mezzo Stivale, ogni anno uguali, ogni anno diversi, a fare compagnia alla già rodata macarena, o a una sempreverde lambada.

Il primo tormentone della penisola è legato agli anni Sessanta: si tratta di Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco. Nel 1961 la canzone venne proposta al festival di Sanremo, che la rifiutò perché non in linea – per le tematiche “leggere” – allo spirito della manifestazione. Con le sue onde e raggi di sole, il brano di Fidenco riuscì però a diventare il maggior successo di quella estate, e a inaugurare la fortuna del filone. Le case discografiche intuirono la possibilità di guadagno da un mercato che rispecchiava il nuovo stile di vita degli italiani, e si industriarono per “calare dall’alto” una lunga serie di hit a cadenza annuale. Con il boom economico e il relativo benessere della classe media nasceva il paradigma del turismo che conosciamo ancora oggi. I tormentoni estivi rappresentavano bene la voglia di svago delle famiglie che cercavano rifugio nelle località di villeggiatura. Allo stesso modo, le canzonette si imponevano tra i consumi culturali di una generazione, quella dei baby boomer, che negli anni Sessanta viveva la propria giovinezza. In quel decennio abbiamo esempi meritevoli di musica leggera applicata alla tematica vacanziera: l’amore di un’estate cantato con raffinatezza da Gino Paoli in Sapore di sale, il vitalismo di Edoardo Vianello in Abbronzatissima, la poesia furfantesca nella ricerca dell’amata di Adriano Celentano, nel capolavoro Azzurro. Un matrimonio fortunato, quello fra musica leggera ed estate, che continua anche negli anni Settanta con Umberto Tozzi (in grado di piazzare Ti amo nel ‘77, Tu l’anno seguente, e la magniloquente Gloria nel ’79), e le interpreti femminili Patty Pravo e Mia Martini. Si palesano i primi segnali della disco che dominerà gli anni Ottanta con YMCA dei Village People e Splendido Splendente di Donatella Rettore.

Adriano Celentano
Mia Martini

Proprio negli anni Ottanta si inizia a intravedere una certa stanchezza nelle scelte stilistiche dei pezzi estivi, il tormentone diventa quasi un”imposizione”, dettata dalla case discografiche. Non mancano però i prodotti raffinati, contraddistinti da una certa ricercatezza in ambito pop, come la ruffiana Gioca Jouer di Claudio Cecchetto, la futuribile Vamos a la playa dei Righeira, ancora la Rettore con il cinismo scanzonato di Lamette, e il citazionismo giocoso della svolta disco di Battiato (Centro di gravità permanente). A questi si affiancano pezzi meno ricercati e dalla facile retorica edonista: sono gli anni dei successi di Sabrina Salerno, e della prima ribalta di Jovanotti.

Donatella Rettore
Franco Battiato

Dagli anni Novanta in poi siamo travolti da una vagonata di brani easy listening, appendici di un’industria del pop che prolifera per inerzia. La molteplicità dei generi proposti si appiattisce sull’imperativo di far ballare e far vendere. Nel minestrone della classifiche la spuntano l’italo-disco degli Eiffel 65, il nuovo standard della musica latina Ricky Martin, la techno di plastica degli Aqua e l’immaginario da boy band dei Lunapop. Con la band di Cesare Cremonini siamo già prossimi al Duemila, anni in cui gli artisti che confezionano tormentoni durano il tempo di un’estate. Ma poi ci sono successi come Vamos a bailar di Paolo e Chiara, Asereje delle Las Ketchup, e ancora Chihuahua di Dj Bobo e la one hit wonder di Dj Francesco, La canzone del capitano, che possiamo ancora sentire nelle playlist delle serate trash. Le balliamo rintronati dall’alcol, alla ricerca di una forzata positività di ritorno.

Oggi il panorama è cambiato: nell’Italia post-crisi sono sempre meno quelli che hanno soldi da spendere per andare in vacanza. Lo dimostrano le statistiche: nello scorso anno solo un italiano su quattro è riuscito a fare un viaggio, un dato in calo ormai da molti anni; e di quelli che sono partiti solo il 30% si è permesso il lusso di spendere più di mille euro, mentre un buon 40% ha predisposto un budget non superiore ai 500 euro. Il turismo si contrae per effetto della crisi, e l’atomizzazione del lavoro rende obsoleta la dicotomia fra tempo del lavoro e tempo estivo per le ferie; ci si chiede dunque che senso abbia continuare a puntare sul residuo culturale di un’altra epoca. Il tormentone estivo è un vizio dell’industria discografica che permane, uno sberleffo fatto di sole, mare, vibrazione positive ai danni di chi non può permettersi di abbracciare quell’immaginario. Ogni anno dobbiamo sorbirci musica latina di dubbio gusto remixata da dj-macellai su video di chiappe al vento, canzonette che non discostano dall’immaginario idilliaco dei decenni precedenti, pezzi hip hop dal testo ammiccante.

Riccione – Thegiornalisti

Il panorama italiano delle hit estive vede un proliferare di pezzi che cercano di riabilitare a livello estetico i fasti di un benessere passato. Il meccanismo della nostalgia è di primaria importanza per le hit odierne: non si gioca più solo sull’evocazione di un paesaggio da sogno – ad esempio la spiaggia caraibica – ma si punta sulla ricostruzione di un decennio precedente alle ristrettezze economiche di oggi. L’anno scorso Tommaso Paradiso, frontman dei Thegiornalisti, cantava le bellezze di una Riccione da cartolina, rubando dagli anni Ottanta: zaini Invicta, vestiti vintage, corpi giovani e perfetti cristallizzati in pose plastiche. Un sogno bagnato per l’adolescente che è in noi, il telespettatore che ha assorbito passivamente l’immaginario languido di quel decennio. Un’idea quest’anno ripresa anche da Fedez e J- Ax in Italiana: anche in questo caso il filtro opaco da Polaroid, gli abiti sgargianti e le location fra deserti e ville californiane si legano per costruire una parentesi senza tempo, un presente di bambagia che ricorda proprio quello di trent’anni fa.Il video del brano candidato a diventare hit estiva del 2018, Paracetamolo di Calcutta, non ha un’estetica tanto diversa: piccoli bar come si vedono nei film della nostra infanzia, sale da ballo, personaggi che indossano capi fuori moda; insomma un universo di riferimenti vicini al retrò Call Me By Your Name, piuttosto che al presente. Alla nostalgia dei tempi mai vissuti non sfuggono neanche i pezzi che sembrano costruiti sull’ironia al contemporaneo, come L’esercito del selfie di Takagi&Ketra o Tra le granite e le granate di Francesco Gabbani; il video del primo è costruito interamente sugli anni Sessanta, nel secondo si mostra un quadro da pubblicità degli anni Novanta. L’industria discografica continua a propinarci prodotti stereotipati e saturi di product placement: gelati, costumi, scarpe – tutto cade così nel calderone della retromania a corto di idee.

Paracetamolo – Calcutta

Italiana – Fedez & J-AX

È facile utilizzare il tormentone estivo per operazioni ideologiche di dubbio gusto. Nel 2016 Rovazzi si è rivelato con Andiamo a comandare: pezzo che tentava di incarnare in maniera ironica il bomberismo social. Il ritornello che recitava “col trattore in tangenziale/ andiamo a comandare” riprendeva – in maniera ripulita dalle possibili interpretazioni politicamente scorrette – l’elogio dell’ignoranza di pagine Facebook come Sesso, Droga e Pastorizia. L’inno è divenuto virale perché incarna le fascinazioni della classe media per le fantasie di comando in un presente incattivito dalla narrazione sulla crisi. La massima celebrazione di questo desiderio – ed emblema dell’estate 2016 – è stata quella sorta di rito collettivo avvenuto a Ferragosto dello stesso anno.

Fabio Rovazzi

Circa un migliaio di persone si sono ritrovate sul bagnasciuga di Porto Cesario in Salento per ballare la nota canzone, ripresi dalle telecamere che attestavano l’influenza da record. Con il distopico aquagym di massa si celebrava la massima aspirazione al divertimento dei frequentatori di una delle zone con più affluenza turistica d’Italia. Non stupisce che una canzone dal testo così facilmente equivocabile e abbastanza diffusa da agire a livello subconscio, sia stata ripresa da Matteo Salvini in una delle sagre padane in cui si celebrava la sua perenne propaganda elettorale. Dal tormentone al tormento: la viralità e la presunta “neutralità” delle canzoni pop può essere riadattata in senso ideologico. Niente contraddistingue l’egemonia berlusconiana più della nenia di del PDL Meno male che Silvio c’è, che tutti noi abbiamo introiettato e, almeno una volta, anche a mezza bocca, cantato. Quello di Berlusconi può sembrare un esempio fuori luogo, perché non si tratta di un tormentone estivo, ma anche altrove c’è chi conferma il legame fra il pop più stereotipato e il consenso politico. Nell’estate 2017 il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha lanciato in periodo di campagna elettorale una personale versione della hit Despacito di Luis Fonsi e Daddy Yankee, ad oggi, con gli oltre 5 miliardi di visualizzazioni, il video più cliccato di YouTube. Il testo modificato tenta di far passare la propaganda a favore del presidente. Slavoj Zizek parla di strumentalizzazione ideologica della musica: quando una melodia arriva a diventare patrimonio comune, soprattutto nell’ambito del pop, è facile riadattarla per veicolare i messaggi più disparati. Le canzoni estive incentrate sul generico immaginario vacanziero, e all’ossessiva ricerca di una “leggerezza” alquanto artificiosa, prestano il fianco alle facili strumentalizzazioni.

Nel frattempo un’altra estate passa, il pop perpetua se stesso, il tormentone si radica nelle nostre teste e diventa la colonna sonora delle narrazioni mediatiche sul terrorismo e sui migranti. Sul bagnasciuga un gruppo sempre più ristretto di villeggianti scottati balla il pezzo del momento, mentre il resto della popolazione – chiusa negli uffici o in casa, attaccata ai rumorosi condizionatori – maledice il caldo a 40 gradi e la voce piaciona diffusa per la strada, che gli sbatte in faccia l’imperativo di godersi l’estate.

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