Terzani ci insegnò la bellezza della diversità. Per questo la Lega lo vuole censurare.

Ultimamente si respira un’aria strana, in Italia. I nuovi capipopolo della politica, spinti dal solo scopo di rimpinguare i consensi elettorali, stanno combattendo contro l’unica forza in grado di smascherare i loro deliri d’onnipotenza: la cultura. E così la classe intellettuale viene messa in ridicolo, silenziata e poi relegata in un angolo, mentre viene dato risalto a personaggi fuori contesto, distanti dalle competenze necessarie per affrontare certi dibattiti. Se da un lato gli uomini di cultura vengono definiti “professoroni”, con la più sprezzante delle accezioni, dall’altro abbiamo Lorella Cuccarini – novella maître à penser del sovranismo – che vaneggia sulle elezioni, Lino Banfi nome di spicco per l’Unesco e Rita Pavone che si scaglia contro Greta Thunberg, ergendosi a esperta di riscaldamento globale. Non stupisce dunque che la Lega abbia deciso di individuare un nuovo, paradigmatico nemico: Tiziano Terzani.

A Udine è giunto alla 15esima edizione il festival Vicino/lontano, rassegna dedicata allo scrittore e che comprende anche la consegna di un premio letterario a suo nome. L’intento è sempre stato, come riporta il suo manifesto, quello di “Bruciare le distanze e avvicinare i mondi, comparare le diversità dei discorsi, siano essi economici o filosofici, sociali o esistenziali”, attraverso conferenze, mostre, proiezioni, lezioni e spettacoli nei luoghi più suggestivi della città friulana. Concetti che sono quasi una nemesi dell’universo leghista, chiuso in se stesso e poco propenso a quelle diversità che il festival si prefigge di affrontare. 

La giunta leghista ha ridotto i fondi per l’evento da 30mila a 10mila euro, definendolo “roba da comunisti”. Fabrizio Cigolot, assessore comunale alla Cultura, ha spiegato le sue ragioni: “C’è la necessità di condividere un progetto più collegato alla nostra realtà locale. Il festival si è caratterizzato come espressione di un pensiero unico, globalista, mondialista”. La solita pappardella condita con termini alla Fusaro incapace di affrontare una visione del mondo più ampia, fuori dall’orticello dei preconcetti e delle visioni limitate. Guardare oltre e confrontarsi con il diverso fa paura, quindi meglio darci un taglio e consegnarsi all’oscurantismo.

La filippica di Cigolot si è poi spostata sulla figura di Tiziano Terzani, con la frase: “Credo che il suo sia un modello molto distante dalla sensibilità della maggioranza dei friulani”. Non contento di offrire argomentazioni quantomeno discutibili, Cigolot è passato all’attacco: “Terzani è diventato un santo secolare, un oggetto di culto, complimenti a chi è riuscito a imporlo associandolo a un’idea di alta qualità come persona, della quale io fortemente dubito anche perché ci sono autorevoli esponenti che sull’analisi storica di Terzani avrebbero mosso più di qualche critica”. Chi siano questi “autorevoli esponenti” non è dato saperlo e la vedova Angela Staude Terzani ha già replicato parlando di un “segno di disprezzo”. A questo punto, è doveroso ricordare al mondo leghista chi era Tiziano Terzani, e capire perché il suo pensiero fa ancora così paura.

Tiziano Terzani e la moglie Angela Staude in Cina, 1980

Nei primi anni Sessanta il giovane Terzani, appena laureato alla Normale di Pisa, iniziò a lavorare per l’Olivetti, dove rimase per cinque anni come manager. Una scelta all’apparenza distante dal suo stile di vita, dalla sua avversione alla logica del commercio sfrenato funzionale al profitto. Ma, come lui stesso ha spiegato, all’Olivetti le cose non andavano in questo modo: “Era funzionale a qualcos’altro, un qualcosa che Adriano Olivetti chiamava ‘comunità’, che attraverso l’azienda cresceva in cultura, in comunicazione, in senso di fratellanza; era cioè un progetto culturale e sociale”. Il lavoro all’Olivetti gli aprì le porte del viaggio e della scoperta: fu mandato dapprima in giro per l’Europa, poi in Africa e in Asia, dove cominciò la sua infatuazione per il mondo orientale. Iniziò a collaborare per le prime riviste, realizzando reportage dai luoghi visitati. Dopo un soggiorno americano, grazie a una prestigiosa borsa di studio, tornò in Italia con le idee chiare: la vita del manager gli stava stretta, voleva fare il giornalista, vedere il mondo con i suoi occhi e raccontarlo.

Lasciò il lavoro all’Olivetti e iniziò a collaborare con Il Giorno. Non riuscì però a convincere la direzione del quotidiano milanese a mandarlo come inviato in Oriente, la sua grande ambizione che ormai premeva come una necessità. Riuscì dunque a trovare un lavoro come freelance nel Sud-est asiatico con la rivista tedesca Der Spiegel, e la sua vita cambiò. Realizzò reportage in Cambogia, in Vietnam, raccontò la guerra e la quotidianità di popoli lontani, seguì il corso della storia unendosi all’esasperazione della gente prima e alle liberazioni poi, scrivendo diari di guerra con uno stile letterario alto ed essenziale. Agli articoli si aggiunsero i libri, le collaborazioni con le principali testate italiane e internazionali, per poi raggiungere, all’alba degli anni Ottanta, il sogno di trasferirsi in Cina, a Pechino. Erano gli anni del post-Mao, Time e Newsweek premevano per diventare i primi magazine occidentali ad avere corrispondenti in Cina, ma alla fine il primo giornalista a varcare quei confini fu proprio Terzani.

Tiziano Terzani in Vietnam, 1975

Furono anni difficili. Terzani vide un Paese snaturato, si accorse del fallimento del progetto maoista, soffrì per i templi trasformati in fabbriche e per il crollo di quella magia che si aspettava, e che non aveva trovato. Le autorità cinesi iniziarono a infastidirsi per i suoi scritti, che criticavano il governo, e iniziarono a pressarlo. Inizialmente gli assegnarono un cuoco e un autista, ma Terzani si accorse che erano spie mandate per sorvegliarlo. Quando poi riuscì a entrare in Tibet, per incontrare il Dalai Lama al Potala, il suo nome finì nella lista dei nemici della Cina. Nel 1984 venne arrestato con l’accusa di attività controrivoluzionaria, in quanto personaggio scomodo, e fu espulso dal Paese. 

Continuò a girare l’Asia, trasferendosi a Hong Kong, Tokyo e, a metà anni Novanta, in India con la sua famiglia. Raccontò la dissoluzione dell’Urss, la fine del sogno sovietico e le sue conseguenze. I suoi scritti non temevano l’avversione del potere: la penna di Terzani era libera anche di cambiare idea, come avvenuto con il maoismo in Cina. Negli ultimi anni della sua vita, colpito da un tumore all’intestino, raccontò la sua esperienza con la malattia nel libro Un altro giro di giostra, un viaggio per il mondo alla ricerca di una cura, e allo stesso tempo di quella pace interiore che troverà poi nella sua residenza tra le montagne toscane, a Orsigna. Tornato in Italia, continuò a schierarsi contro le guerre, appoggiando le battaglie di Gino Strada e rispondendo con una lettera alla “rabbia e all’orgoglio” di Oriana Fallaci, in seguito agli attentati dell’11 settembre. La demonizzazione dell’Islam della Fallaci si contrapponeva a un discorso più ampio di Terzani, che condannando il terrorismo, invitava però a non cadere nell’intolleranza, nella generalizzazione e nell’odio totale verso una religione con quasi 2 miliardi di fedeli nel mondo. Si congedò con la Fallaci con la frase: “Guarda un filo d’erba e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana, e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte”.

L’ultimo periodo della sua vita è raccontato nel libro postumo La fine è il mio inizio, pubblicato grazie al lavoro del figlio Folco, così come nel film omonimo con protagonisti Bruno Ganz ed Elio Germano. Qui emerge l’essenza di Terzani, l’equilibrio di un uomo alla fine dei suoi giorni, “Sempre più convinto che è un’illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c’è progresso. Non c’è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono”. 

Il percorso durato per tutto l’arco della vita, seguendo quella circolarità che si differenzia dall’immagine di una semplice linea retta, è un inno per i posteri, come gli ultimi insegnamenti al figlio. “Finirai per trovarla la Via… se prima ha il coraggio di perderti”, gli ripeteva. Lo salutò dicendogli: “E ricordati, io ci sarò. Ci sarò nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio”.

Il fatto che una vita così complessa, ricca di sfumature, eccezionale nella sua pienezza, venga giudicata e ridimensionata dall’ottusa politica leghista, è lo specchio dei nostri tempi. Che sostituiscano pure il festival dedicato a Terzani con un balletto della Cuccarini o con un concerto di Povia. Facciano come vogliono, tanto un giorno Terzani sarà ricordato come una figura luminosa del nostro tempo, mentre certi politici saranno solo un brutto ricordo di un periodo buio. 

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