Perché abbiamo ancora bisogno del greco

Nel novembre 2017 la casa editrice statunitense Norton ha pubblicato una nuova traduzione inglese dell’Odissea a cura di Emily Wilson, docente di studi classici all’Università della Pennsylvania, a cui è bastato l’incipit per far parlare di sé: “Tell me about a complicated man” (“Parlami di un uomo complicato”). Così comincia l’equivalente di quel che generazioni di studenti italiani hanno imparato come “Narrami, o Musa, dell’uomo dal multiforme ingegno”. Una modernità che nessuno aveva mai osato nell’affrontare Omero, ma che ha convinto: cosa significa tradurre, se non rendere un testo fruibile a un pubblico diverso rispetto a quello per cui era stato pensato? Lo sottolinea la studiosa stessa: “Un inglese arcaizzante, farraginoso, [come quello di alcune traduzioni precedenti] non è più vicino al greco antico rispetto a un inglese leggibile”.

Pitocrito, Nike di Samotracia, 200-180 a.C.; Museo del Louvre

Negli ultimi anni, il dibattito sulla lingua greca sembra tentare di avvicinarla al presente e sottolinearne la necessità, senza cadere necessariamente in un attaccamento nostalgico. In Italia ha avuto ampia eco La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco di Andrea Marcolongo, grecista e scrittrice, il cui inaspettato successo ha spinto a lanciare diversi altri libri sullo stesso modello, anche se spesso dedicati al latino. A differenza di quest’ultimo, ancora materia di studio diffusa, il greco sconta una marginalità troppo spesso percepita come elitaria, retaggio di un passato scolastico irrimediabilmente fuori dal tempo. Per aggiornarsi andando incontro alle esigenze della contemporaneità la scuola dovrebbe fornire – sostengono i detrattori del liceo classico – le competenze concrete richieste dal mercato, e innanzitutto una solida conoscenza delle lingue vive, come l’indispensabile inglese. Ma se è vero – come è vero – che la scuola italiana non è al passo quanto a studio delle lingue straniere, perché imputare la colpa alle altre materie, quando quel che è poco funzionale è forse piuttosto il metodo d’insegnamento? Il greco, di per sé, è innocente e non va additato come capro espiatorio. Rinunciare a studiarlo affermando che la lingua evolve in altre direzioni equivarrebbe a non studiare le basi della matematica perché questa ha raggiunto ben altri livelli e scopi: sono proprio quelle le basi che rendono possibile una tale evoluzione. Piuttosto che eliminare lo studio del greco, andrebbe favorito un approccio improntato alla comprensione, più che alla memorizzazione, dei concetti che rappresentano i maggiori scogli della lingua (l’evoluzione dei paradigmi dei verbi, l’aspetto, i tempi),  alla contestualizzazione dei testi e al dialogo tra testi e autori anche lontani. La letteratura greca è una fonte sterminata che continua a parlarci, anche oggi, attraverso dialoghi filosofici, racconti epici o versi lirici, dei drammi e delle gioie che ci rendono esseri umani.

La Comunità Europea riconosce tra i suoi obbiettivi interni – nella mission delle Giornate Europee del Patrimonio – la protezione del patrimonio culturale e il dovere di prendere coscienza di ricchezza e diversità culturale, intese come valore aggregativo; agli stessi principi si richiama il piano di lavoro per la cultura del triennio 2019-2022. Per inciso, il motto dell’Anno Europeo del Patrimonio Culturale (2018) era Our heritage: where the past meets the future (Il nostro patrimonio: dove il passato incontra il presente). Il greco antico è più attuale di quanto sembri: non solo perché la lingua tutt’ora parlata in Grecia ne è un’evoluzione ma anche perché è una fonte del nostro lessico. Da disastro a baritono, da ortopedico ad abisso, da lì vengono molti dei termini che usiamo quotidianamente, tanto i veri e propri grecismi arrivati nell’italiano senza l’intermediazione del latino (molti dei quali presenti anche nelle altre lingue europee), quanto i neologismi composti da suffissi e prefissi greci di cui continuiamo ad arricchire la nostra lingua. In questo senso il greco è un ponte costruito tra passato e presente.

Agesandro, Atenodoro di Rodi e Polidoro, Laocoonte e i suoi figli, eseguito tra I secolo a.C. e I secolo d.C; Musei Vaticani

Le critiche mosse allo studio delle lingue “morte” sembrano non tenerne conto e si estendono al liceo classico in toto; in realtà già esiste il liceo classico europeo, in cui, rispetto all’indirizzo tradizionale, si studiano anche diritto, economia e una seconda lingua straniera e sono aumentate le ore di matematica: tutte le carte in regola per essere al passo coi tempi; nel complesso il modello potrebbe fungere da “aggiornamento” dell’attuale liceo classico. Anche la riforma della maturità introdotta per l’anno scolastico 2018-2019 sembrerebbe provare a farlo: la seconda prova scritta prevede che la normale “versione” dal greco o dal latino sia affiancata dal raffronto con un testo nell’altra lingua proposto sia in originale che in traduzione italiana, come già succede al Liceo classico europeo. Polemiche mosse alla riforma a parte, è presto per sapere se sia una mossa azzeccata, ma se funzionerà potrebbe essere un embrionale tentativo di letteratura comparata. Aggiornare – e non cancellare – dovrebbe essere l’obbiettivo, per non privarsi di uno strumento come la traduzione dal greco, che, secondo lo scienziato Luigi Luca Cavalli Sforza è “l’attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto”. E se da un lato lo studio di qualcosa di complesso allena al tempo stesso al rigore e alla creatività, fornendo un metodo applicabile a tutti gli ambiti, d’altro canto il greco è la lingua in cui si esprimono i testi alla base di tutte le conoscenze che oggi possediamo e si presterebbe a essere studiato parallelamente alle altre materie; Umberto Eco, in un “processo al liceo classico” messo in scena a Torino nel 2014, lo proponeva, chiedendo l’assoluzione del classico, che “non prepara meglio dello scientifico, ma prepara in modo uguale”.

Con un traduttore automatico a portata di mano, oggi diamo per scontata la portata rivoluzionaria del poterci confrontare direttamente con i testi. Come vedere un film in lingua originale lo arricchisce di sfumature, così apprendere una lingua è l’unica via di accesso al senso vero dei testi, senza intermediazioni a censurarne, distorcerne, edulcorarne il significato. Rinunciare ad approcciare la lingua in cui quei testi sono scritti ci esclude da un intero mondo di idee, personaggi, significati: una letteratura sterminata di poesia, filosofia ed epica, tragedie e commedie ancora oggi trasposte a teatro e di vicende di dei ed eroi, protagonisti e vittime di passioni universali e dunque senza tempo. Si svela così la sfaccettata civiltà greca, ben lontana dalla perfezione del bianco marmo tramandata dal Neoclassicismo, e fatta, invece, di consapevolezza della natura dell’umanità tesa tra ragione e impulso, di un mondo in cui Apollo convive con Dioniso. Affrontare qualcosa in prima persona ci insegna ad andare al di là degli stereotipi: nel caso di una lingua – tramite cui si esprimono, e si diffondono, le idee – ci fa addentrare oltre la superficie del testo e ci costringe a guardare il mondo con gli occhi di chi la parla o la parlava. È un esercizio sempre complesso, che lo è ancor di più nel caso in cui a separarci da quella lingua ci siano millenni di Storia e un alfabeto che non ci dice più niente.

I diversi termini per tradurre la parola amore – dalla passione fisica di έρως (éros), alla fraterna φιλία (filìa), al senso di cura e devozione dell’αγάπη (agape) – o il verbo fare (da ποίεω, poièo, a πράσσω, prasso, a δράω, drao) ci raccontano l’importanza che questi rivestivano nella civiltà ellenica. La ricchezza lessicale ci allena a un uso più sensibile e sfaccettato della nostra lingua madre: una quantità impressionante di vocaboli dai significati molteplici, tra i quali è possibile scegliere quello giusto solo nel contesto del paragrafo, come sottolinea Luciano Canfora, che parla di “mobilitazione dell’intelligenza”. In questo senso la lingua greca, al pari di tante altre materie di studio, sviluppa la capacità di risolvere i problemi: quel problem solving tanto indispensabile oggi, anche secondo chi ritiene che con la cultura non si mangi.

Luciano Canfora

Ma imparare il greco implica anche capire il diverso concetto di tempo verbale – legato al rapporto tra la durata dell’azione e le sue conseguenze su colui che parla o scrive, più che al momento effettivo in cui si svolge – costringendoci a porci in una prospettiva diversa dalla nostra; e, poiché una lingua riflette un modo di pensare, è un esercizio di elasticità mentale e di apertura all’altro da sé. La complessità della lingua, lo sforzo di abbandonare la concezione abituale dei verbi e la dedizione che la sua comprensione richiede sono, come dice Andrea Marcolongo, “un antidoto alla superficialità delle cose”.

Tutti i testi sono stati scritti in un certo contesto storico, sociale e politico, di cui bisogna tenere conto nel momento in cui si legge; lo stesso vale per una traduzione: non lasciamoci convincere dell’apparente antichità di un testo – magari attule nei contenuti, fosse pure solo metaforici – dal fatto che a essere desueto è il metodo con cui lo si studia a scuola; nessun millenial può sentirsi vicino a all’uomo ricco d’astuzie […] che a lungo errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Ilio. A essere colpevole delle accuse che gli si muovono non è il greco, lo sono piuttosto le modalità con cui lo si studia, che andrebbero modernizzate: nei Paesi anglosassoni la traduzione di Emily Wilson aiuterà a farlo. In Italia per ora si stanno diffondendo dei corsi di latino e greco parlato, che esprimono in modo forse un po’ naïf  la necessità è di recuperare quel che, come dimostrano i nostri neologismi, si è sempre fatto, inconsapevolmente: mantenere viva una lingua lontana nel tempo, ma non per questo morta.

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