Durante un esperimento condotto dalla psicologa e neuroscienziata della Brown University, in Rhode Island, Rachel Herz, sono stati proposti ai soggetti tre tipi diversi di stimoli – la clip di un film, un breve suono e un odore – ed è poi stato chiesto loro di generare ricordi autobiografici a partire da essi. I ricordi provocati dall’odore sono risultati essere molto più emotivi ed evocativi, ma meno vividi e precisi.
Come sembrerebbe dimostrare questo esperimento – tra i tanti fatti in merito – i sensi che ci legano ai sapori e agli odori – che è stato scoperto in realtà essere meno scindibili di quanto si pensasse – attivano i nostri istinti più atavici e antichi, e quindi le nostre emozioni più semplici, potenti e profonde. Marcel Proust lo sapeva bene, come si legge rispetto alle sue memorie di Combray in Dalla parte di Swann. Non a caso, la prima cosa a cui rinunciano alcuni monaci in India, è proprio il piacere che deriva dal cibo, dalla sua scelta, dall’ordine in cui lo si mangia e dal modo in cui lo si prepara, proprio come esercizio per trascendere il proprio ego, ovvero quell’entità cognitiva in cui si mescolano sensazioni, desideri, ricordi e pensieri e che si fa contenitore di gioie passeggere e più spesso tormenti cronici. Eppure, esplorare, viaggiare e abbandonarsi alle emozioni che suscitano in noi profumi e sapori, può essere una delle poche, e per certi aspetti semplici, gioie profonde della nostra esistenza, perché ci riporta con la stessa intensità ai sentimenti totalizzanti e immediati che potevamo provare da piccoli.
La memoria olfattiva, da cui deriva in gran parte anche la nostra percezione del gusto, infatti, ha un portato soprattutto emozionale, prima che biografico e logico. È stato registrato che i ricordi olfattivi, di solito, ci riportano a un momento della vita intorno ai sei e ai dieci anni, e sono di carattere preverbale. La capacità di usare il linguaggio per cristallizzare la nostra esperienza, infatti, si delinea intorno agli undici anni. L’esperienza dei sensi, così, si conferma da un punto di vista evocativo ben più potente della parola nel suscitare emozioni. E non è un caso che molte opere che si sviluppano intorno al tema del cibo, del gusto e del sapore, lo usino per mettere a tema l’amore e la sua potenziale forza trasformatrice.
Se per il grande scrittore francese il simbolo di questa esperienza erano i biscotti inzuppati nel tè, e per i bambini emiliani sono i tortellini crudi, l’alimento che oggi unisce i gusti di tutto il mondo contemporaneo – in particolare quello occidentale – è sicuramente il cioccolato. Da Chocolat, con Juliette Binoche e Johnny Depp, agli Emotivi anonimi, passando per capolavori come Forrest Gump e ovviamente Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, ma anche per uno dei capolavori della lettura brasiliana, Cacao, di Jorge Amado, scrittore che ha centrato gran parte della sua opera proprio in un contesto sociale segnato dalla coltivazione del cacao nelle fazendas di Ilhéus, nello Stato di Bahia. Eppure di questo alimento sappiamo poco, sia per quanto riguarda la simbologia che ruota attorno a esso, ma anche la sua storia e gli effetti che ha sul nostro corpo.

In Europa consumiamo in media a testa cinque chili di cioccolato all’anno, in Italia invece ci aggiriamo sui due, che comunque sono tantissimi. Il cioccolato, infatti, viene da Paesi in cui tutto sommato se ne consuma molto poco: il Sudamerica, l’America centrale e l’Africa occidentale. Eppure, sembra che gli esseri umani ne facciano uso da almeno 4mila anni. Cacao è il nome comune che viene dato ad alcune piante del genere Theobroma, della famiglia delle malvacee, provenienti dal Centro America e dall’America del Sud, anche se oggi sono coltivate soprattutto in Camerun, Costa d’Avorio, Ghana e Nigeria. Il cacao cominciò a essere consumato migliaia di anni fa nella zona del bacino dell’Amazzonia – tra il Brasile e il Venezuela, e in seguito questa tradizione si estese all’America centrale. Le prime prove archeologiche che testimoniano il suo utilizzo sono state rinvenute in Ecuador, ma si sà che venisse usato dai maya, dai toltechi e dagli aztechi, sottoforma di bevanda ricavata dalle fave, che veniva usata come medicina o durante i riti. Da qui la moda che negli ultimi anni si è diffusa, partendo dalla California per arrivare fino a noi, spopolando tra le insegnanti di yoga, ghiotte di nutrire le coreografie delle loro lezioni con simboli spirituali arraffati da altre culture: la cosiddetta cerimonia del cacao, che oggi purtroppo appare soprattutto come una becera appropriazione culturale, soprattutto se si pensa al fatto che ancora troppo spesso questo alimento viene coltivato in situazioni tutt’altro che rispettose dei lavoratori e della terra.
Per i maya il cacao era il cibo degli dei e in quanto tale la sua pianta era sacra: in qualche caso seppellivano le persone più importanti assieme a ciotole di fave di cacao e altri oggetti che si credeva sarebbero tornati utili nell’aldilà. Secondo gli etimologi la parola “cioccolato” deriverebbe dal termine azteco “xocoatl”, che indicava appunto la bevanda amara ottenuta dai semi della pianta. Inizialmente i coloni europei non erano affatto convinti di mangiarli, sia per via del forte sapore amaro, sia per timore degli effetti che avrebbero potuto avere sul loro corpo. D’altronde, il consumo di quell’alimento e il suo uso rituale nasceva nelle stesse terre in cui gli sciamani officiavano riti in cui si consumava almeno da un migliaio d’anni anche un’altra famosa pianta dai grandi poteri, l’ayahuasca. Presto, però, capirono che l’effetto del cacao, almeno per gli esseri umani moderni, era decisamente più contenuto e socialmente accettabile, e quindi lo importarono in Europa, dove riscosse grande successo soprattutto all’interno della cucina spagnola. D’altronde fu lì che Cristoforo Colombo portò per la prima volta le fave di cacao dopo il suo quarto viaggio nelle Americhe, nel 1502, mentre la prima importazione di cui si hanno documenti scritti risale al 1585, sempre verso questo Paese.
In Spagna il cacao cominciò a essere servito a corte sotto forma di bevanda calda, il cui gusto deciso veniva stemperato con vaniglia o cannella, e col passare del tempo e con l’aumento delle importazioni si diffuse all’interno della popolazione, venendo consumato soprattutto a colazione (anche perché è un eccitante e contiene caffeina), e contribuendo a rendere questo pasto un momento di sempre maggior importanza sociale. Nel Seicento si diffuse anche in Francia e in Inghilterra e nel resto d’Europa, grazie alle sue proprietà – nutrienti, medicinali e persino afrodisiache. Con l’aumento del suo consumo vennero anche perfezionati i metodi di produzione, ottenendo prodotti sempre più raffinati. Così, l’imprenditore inglese Joseph Fry nel 1847 realizzò la prima tavoletta di cioccolato, che si fece poi simbolo di tutte le speranze e aspettative di Charlie ne La fabbrica di cioccolato, di Roald Dahl. Nel frattempo, per soddisfare l’enorme richiesta del mercato, gli europei realizzarono piantagioni di cacao nelle loro colonie africane, dettaglio che non possiamo ignorare.
Al di là del suo sapore, che oggi tutti apprezziamo, il cacao, come già sapevano le popolazioni amazzoniche, ha davvero delle ottime proprietà per il nostro corpo: è infatti un alimento dall’azione antiossidante e antidepressiva, ricco di sostanze psicoattive, proteine, vitamina B e tiramina e serotonina, il cosiddetto ormone del buonumore, il neurotrasmettitore – sintetizzato anche dal nostro stesso corpo – che regola i ritmi circadiani, sincronizzando il ciclo sonno-veglia con le fluttuazioni endocrine quotidiane, ed è coinvolto in numerose funzioni biologiche. Per godere appieno di queste proprietà, però, andrebbe consumato sotto forma di cioccolato fondente.
Inoltre il cioccolato è sempre stato considerato un cibo afrodisiaco. La teobromina che contiene stimola il muscolo cardiaco, la caffeina è un eccitante e la feniletilamina è un potente antidepressivo, che agisce sul nostro cervello producendo endorfina, l’ormone del piacere. Queste tre sostanze combinate ci rendono più sereni e anche un po’ più spigliati, senza il corredo di effetti negativi che ad esempio portano gli alcolici. Inoltre, nel cioccolato è presente l’ossido nitrico, che favorisce la vasodilatazione, producendo quindi un effetto stimolante su tutto il corpo. Si narra che già Montezuma, re degli Aztechi, prima di avere rapporti con le sue svariate mogli, in mancanza del Cialis o del Viagra, si bevesse una tazza di xocoatl.
Il mercato del cacao negli ultimi decenni ha subito grandi fluttuazioni dei prezzi, perché nonostante tutto si riesce a produrre meno cacao di quello che il mondo vorrebbe consumare, a causa di malattie delle piante e sempre più spesso della siccità. Inoltre, da tempo, si sta cercando di rendere il settore del cioccolato più sostenibile ed equo, ad esempio regolamentando la deforestazione per creare nuove piantagioni e sviluppando programmi per ridurre il ricorso al lavoro minorile. I Paesi produttori chiedono che la materia prima venga pagata di più, in teoria, per poterla coltivare in condizioni migliori; ma le grandi multinazionali del settore spesso non intendono spendere di più. Amado, appena ventunenne, all’inizio del Novecento, passò un periodo a stretto contatto con la vita dei braccianti delle piantagioni di cacao, e così decise di raccontare quelle esperienze, in particolare attraverso la storia di un uomo che arriva a Ilhéus in cerca di lavoro e che si farà simbolo della coscienza di classe nata nello stesso scrittore.
Come si narra all’inizio di Chocolat: “C’era una volta un piccolo e silenzioso villaggio nella campagna francese; gli abitanti credevano nella tranquilité, la tranquillità. Se vivevi in questo villaggio, sapevi ciò che ci si aspettava da te. Conoscevi il tuo posto nello schema delle cose. E se ti capitava di dimenticarlo, qualcuno ti avrebbe aiutato a ricordarlo. In questo villaggio, se vedevi qualcosa che non avresti dovuto vedere, imparavi a guardare dall’altra parte. E se per caso i tuoi desideri non erano stati soddisfatti, imparavi a non chiedere mai di più. E così, nel buono e nel cattivo tempo, nella fame e nelle feste, gli abitanti del villaggio si mantenevano saldi alle loro tradizioni. Finché, un giorno d’inverno, non soffiò uno irrequieto vento del Nord…”.
In tutte le narrazioni moderne legate al cioccolato, questo alimento si fa simbolo di una rivoluzione interiore, che scaturisce dalla possibilità di accettare senza timore il cambiamento – anche in Forrest Gump i cioccolatini rappresentano l’accettazione positiva dell’inaspettato – con coraggio e passione, a cuore aperto, attingendo alla potenza delle emozioni che si vivono da bambini e che man mano che il mondo ci educa – dandoci un ruolo e una forma, una rigida casella – perdiamo. Non a caso, infatti, il cioccolato stimola il cuore, l’organo vitale in cui si annida e ribolle il thymos, la rabbia degli eroi omerici di fronte alle difficoltà, il sentimento di ribellione che permette loro di non arrendersi, per restare in vita, trascendendo la ragione. È il cuore inteso come impulso vitale, movimento ritmico che ci permette di esistere e si accompagna al respiro, in un unico battito, come sottolineava Platone nel Timeo. Per questa ragione essere coraggiosi significa avere cuore, cioè pulsare, vivere e agire, a volte ponendosi al di sopra delle regole sociali, non sempre giuste, e dell’utile. Etimologicamente, quindi, traslando, essere coraggiosi significa rischiare il proprio cuore, e quindi la propria vita, che oggi, fuori dai poemi epici, vuol dire cambiare forma e pelle, mettere in discussione il mondo e le sue norme, i valori diffusi, la propria identità, alimentare il turbine del thymos. E il cioccolato ci aiuta a farlo.
Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Chocolove, il primo evento a Milano sulla cultura e la passione per il cioccolato che si terrà dal 10 al 12 febbraio 2023 a Palazzo Bovara. Con masterclass e degustazioni aperte al pubblico, Chocolove si propone di celebrare il cioccolato non solo dal punto di vista dei suoi effetti benefici, afrodisiaci e vantaggiosi per la salute, ma soprattutto per la sua portata culturale, come mezzo per conoscere e raccontare le culture del mondo.