Ma che fine ha fatto la satira in Italia?

È un fatto di queste ultime settimane. Gli appelli pubblici per rinforzare e manifestare la risposta anti-razzista, anti-populista e anti-salviniana stanno diventando un genere letterario specifico per riempire i giornali. E l’invito a elaborare un’azione alternativa efficace, sia sociale che intellettuale, è sacrosanto. Personalmente però in questa chiamata razionale e pacifica alle armi c’è un tipo di risposta politica che al momento manca molto di più di un corsivo pungente. Parlo della satira, e in particolare della satira televisiva.

Per satira televisiva intendo un genere che appartiene al campo dell’umorismo e alla professione del performer dal vivo, che ha la capacità di attaccare il potere e di sottolineare le contraddizioni della società mettendole ferocemente in discussione. Come esempio “dissacrante” possiamo fare quello anglosassone della stand-up comedy, quella commedia “in piedi”, quasi da resistenza, che con questa espressione descrive efficacemente quello che uno stand-up comedian fa sul palco ma anche spesso nella vita. Non arretrare mai sui propri pudori e rilanciare di continuo.

La satira è cattiva e non dà tempo per offendersi. In Italia però c’è un problema; la satira televisiva – quella del performer che recita nei panni di un personaggio o racconta con un monologo senza travestimenti – è debolissima, e spesso molto attenta a non invischiarsi in questioni etico-politiche di nessun tipo. Del resto, in passato è sempre stata mal tollerata sia dalla sinistra che dalla destra, specialmente quando ha preso di mira la propria bandiera politica. Tanto che le uniche forme di comicità digerite dalla politica sono quelle rivolte contro il proprio avversario. Prendere in giro il berlusconismo e le donne di Forza Italia va bene, ma un’imitazione di Maria Elena Boschi è sessista e va condannata pubblicamente.

In Italia i modelli della satira politica e sociale televisiva degli ultimi dieci anni hanno il tono rassicurante e innocuo di show come Zelig e Colorado. Poi, posta su un piano differente, c’è la satira di Maurizio Crozza: il comico, con le sue parodie, ha preso di mira la classe politica del nostro Paese e allo stesso tempo ha fatto emergere un tema che da sempre riguarda il rapporto tra comicità e potere, quello di come raccontare le contraddizioni della classe dirigente senza che il taglio comico normalizzi temi e figure altrimenti indigeribili. È indicativo il caso della rappresentazione delle contraddizioni e delle particolarità di una figura come quella dell’ex senatore Antonio Razzi, al quale Crozza ha dedicato più di una parodia: criticato per i suoi metodi e le sue amicizie discutibili, il politico è stato è trasformato, attraverso l’imitazione di Crozza, in una sorta di macchietta popolare.

Il pericolo, in casi come questo, è che il potere esca dal “perculo” e dalla caricatura come umanizzato, amichevole e simpatico, a discapito del vaglio sull’azione politica, che rischia di passare in secondo piano di fronte alla popolarità di atteggiamenti bizzarri ed eccentrici. La risata, a seconda di come viene usata, può anche contribuire a rinforzare la coscienza critica. Il problema in Italia non è la tradizione del varietà o della maschera che molti comici raccolgono, ma l’assenza di critica corrosiva verso il potere e la comunità che in questi ultimi tempi si fa parecchio sentire. E la comicità dei collettivi nati online è anch’essa spesso una satira rassicurante in linea con la tradizione italiana che guarda alla società in maniera orizzontale, raccontando l’ordinario e che raramente si rivolge verso la verticalità del potere in tutti i sensi. Il racconto delle differenze tra Nord e Sud e tra quartieri della stessa città, tra party harder e pantofolai, va sempre alla grandissima, fa ridere, ci piace. Quando però c’è il bisogno di usare l’ironia lucida per raccontare chi è fragile e chi è forte, chi subisce un’ingiustizia e chi la infligge o vicende altrettanto controverse, la differenza tra le madri del Sud e quelle del Nord e l’ironia sull’ossessione delle nonne per la soppressata calabrese non può aiutarci a tenere viva quella dialettica democratica che spesso passa anche per la vitalità di sketch di successo o diffusi in maniera virale.

“L’immobiliarista che vende bistecche. È diventato Presidente?” Cinque frasi sono servite al comico Conan O’Brien per rispondere a Donald Trump dopo che il presidente ha sferrato uno dei suoi numerosi attacchi ai comici Jimmy Fallon e Stephen Colbert, colpevoli di averlo criticato in passato. I due presentatori hanno potuto rispondere nonostante Trump sia un uomo potentissimo. Purtroppo però è anche difficile comunicare con il potere senza esserne strumentalizzati. Bisogna saperlo fare. Di questo si discute proprio di recente in America dove il comico Jimmy Fallon ha dichiarato di essersi pentito di aver scompigliato la capigliatura di Trump in una celebre intervista del 2016 e di credere di averlo umanizzato, facendolo apparire un cucciolo peloso e desideroso di coccole piuttosto che un uomo candidato alla presidenza chiamato a rispondere a domande importanti sul futuro del Paese.

Il problema dell’assenza in Italia di una satira graffiante e di un gusto per una comicità scorretta non è tanto dovuto all’organizzazione del palinsesto mainstream. Se la comicità italiana che critica la politica e la società in maniera sferzante viene tenuta lontano dal grande pubblico è perché esiste da anni un controllo politico del settore culturale e televisivo molto forte, soprattutto sulle reti principali. In passato, i comici abituati a radere al suolo le contraddizioni interne alla politica e alla società sono stati cacciati dalle aziende televisive maggiori perché ritenuti scomodi. Casi come quelli dei comici come Dario Fo, Franca Rame, Beppe Grillo e poi Daniele Luttazzi ne sono un esempio eclatante. Negli ultimi anni una piccola isola felice sembra essere stata quella di Rai 3, una rete che ha sperimentato con la stand-up comedy di Giorgio Montanini e con lo show di Francesco De Carlo. Tra gli esempi di successo sbarcati anche in tv ci sono “Il terzo segreto di Satira”, i comici di Comedy Club e del gruppo Satiriasi, Edoardo Ferrario e Saverio Raimondo – forse l’unico comico di scuola anglosassone ad avere spazio e successo sulle maggiori reti oggi. Il “Saturday Night Live” italiano di Tv8 è troppo simile a Zelig. Sta alla comicità capire quanto la sensibilità sia cambiata e aggiornarsi di conseguenza. Ma non è detto che nel nostro Paese questo tipo di satira sia destinata a rimanere privilegio di una nicchia, con la prima serata affidata sempre e comunque a Claudio Bisio. Per ora però le cose stanno così.

C’è poi un tema di cui gli appelli di questi giorni alla vivacità del pensiero critico non tengono conto. Un comico che viene ingaggiato da un committente attento a gestire la propria azienda televisiva in modo che non faccia troppo male alla propria immagine politica o agli interessi del partito di riferimento, è tutto sommato un comico imbrigliato. Dovremmo quindi ricordarci di parlare un po’ più spesso delle cause sistemiche che in Italia penalizzano i lavoratori culturali, comici, attori, artisti, quando provano a fare semplicemente il loro lavoro. Che è quello di interrogare la politica e la società liberi di porre domande, anche in chiave umoristica, e di sottolineare questioni rilevanti per tutti. Molto spesso tutto ciò non ha nulla a che fare con il coraggio, l’onestà o il talento di ciascuno. Alcuni di questi discorsi servirebbe metterli almeno al punto 4 della prossima lettera che richiama la coscienza etico-politica dell’opinione pubblica di questo Paese. Oh no, ho finito anch’io per scrivere un appello.

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