Per combattere il razzismo dobbiamo dare voce agli oppressi, ci disse Richard Wright

Con l’insediamento di Obama come presidente nel 2009, molti, negli Stati Uniti, salutarono quell’evento come il segno del passaggio degli Stati Uniti a uno stadio post-razziale della loro storia, lasciandosi alle spalle un passato di segregazione e discriminazione e con una prospettiva in grado di portare un afroamericano alla guida del Paese. Le presidenziali del 2016 hanno mostrato l’ingenuità di una visione simile, tanto speranzosa quanto poco lucida nel valutare il reale stato delle cose. L’elezione di Donald Trump ne è la prova evidente. Ta-Nehisi Coates, giornalista, autore e attivista afroamericano, l’ha definito “il primo presidente bianco”, proprio perché un fattore determinante della sua ascesa politica è legato all’opposizione al presidente nero che lo ha preceduto e alle sue politiche.

Con Trump, l’essere bianco è diventato un fattore programmatico. Gli Stati Uniti non si sono affacciati a un’epoca post-razziale, così come non lo hanno fatto altre parti del mondo dove si sta facendo strada il retaggio di un passato dove l’appartenenza etnica rappresentava non solo un discrimine significativo, ma anche la base per affermare la superiorità di un individuo su un altro. Il razzismo è ovunque, in maniera più o meno presente e in forme diverse, e negarlo sarebbe pericoloso e disonesto, visto che una posizione del genere è contraddetta ogni giorno da episodi di intolleranza che riguardano da vicino anche il l’Italia.

Per combattere un fenomeno che è prima di tutto culturale è utile capire come funziona il razzismo, andando a recuperare i classici che ne hanno descritto le dinamiche e nei quali possiamo trovare anche gli antidoti. Per farlo si può tornare negli Stati Uniti, dove il razzismo e lotta tra oppositori e sostenitori è una costante della sua storia, sin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna. Richard Wright con il suo Black Boy, terminato nel 1943 ma pubblicato solo nel 1945, è stato uno dei narratori più acuti del razzismo statunitense. Il suo libro non è né un romanzo basato su fatti reali, né un’opera di finzione, ma un fedele resoconto autobiografico della gioventù dell’autore, trascorsa tra il Mississippi, il Tennessee e Chicago. Le vicende terminano quando Wright ha circa diciotto anni e ci accompagnano nel percorso della sua presa di coscienza sulla società in cui vive. Il contesto è quello degli Stati Uniti del primo quarto del Novecento, ma sono molto lontani dalla realtà newyorkese raccontata ne Il grande Gatsby. L’autore si concentra su quel melting pot etnico, ma anche fatto di soprusi, che è il sud degli Stati Uniti. 

Durante la sua infanzia prima e adolescenza poi, Wright – che per tutto il libro si riferisce a se stesso come Richard – prende a poco a poco consapevolezza di cosa sia la segregazione. Nella sua famiglia lui rappresenta solo la seconda generazione non nata in schiavitù, almeno a livello formale, come impara presto a sue spese. In un primo momento, Richard non sa in che modo pensare ai bianchi: li vede raramente, non ha rapporti con nessuno di loro e tutte le informazioni che gli arrivano sono filtrate dalla comunità nera dove vive. Prima di avere un quadro chiaro del mondo che lo circonda, vede come nemici i familiari che lo ostacolano e la povertà dalla quale è circondato, senza essere in grado di coglierne le cause reali. Non capisce che è il sistema stesso che lo ingabbia a fare sì che quelli come lui siano poveri. Per loro non c’è alternativa né possibilità di promozione sociale. Non gli è ancora chiaro quello che ribadisce spesso Ta-Nehisi Coates nel suo Between the World and Me: il sogno americano è un sogno bianco, sostenuto dalle spalle e dal sangue dei neri.

Crescendo, Richard fa i conti con la realtà e arriva a comprenderla. Le prime esperienze lavorative sono anche le prime di discriminazione: viene attaccato in modo brutale per motivi gratuiti, vede altri neri colpiti a sangue come se niente fosse, gli viene impedito di esprimere il suo reale potenziale. Le modalità descritte e subite da Wright sono quelle con cui il razzismo si esprime da sempre, anche in contesti diversi da quello narrato in Black Boy. La superiorità etnica, nella testa del razzista, dà il diritto di trattare l’altro come un proprio sottoposto o peggio, come se facesse parte di una massa indistinta e inferiore, dove il singolo individuo scompare fino a non contare nulla. Funziona così anche in Italia, nel momento in cui per la “concessione” – che in realtà è il semplice riconoscimento di un diritto – fatta ai migranti accogliendoli, vengono annullate le loro storie, la loro provenienza, le loro differenze caratteriali, i loro studi e la loro formazione, le loro idee e diritti, per imprigionarli all’interno di stereotipi quasi sempre negativi, riassunti dalla macrocategoria di immigrati.

Richard, lavoro dopo lavoro, viene licenziato, picchiato e rimproverato, magari solo perché ha alzato gli occhi dal pavimento, osando guardare i bianchi come si fa tra pari. È esemplificativo della violenza strutturale del razzismo e di come riesca a innestarsi come un parassita nel pensiero delle persone, il fatto che siano gli stessi amici di Richard o i suoi parenti, neri come lui, a rimproverarlo per i suoi comportamenti e a ricordargli quello che un nero può o non può fare. Lo fanno per proteggerlo, è ovvio, ma in questo modo il sistema continua a rigenerarsi: le vittime finiscono non per accettarlo, ma per subirlo in modo passivo, mossi dalla priorità di guadagnarsi da vivere, o meglio, di sopravvivere. È questo il ricatto che subisce chi diventa vittima di un sistema discriminatorio, che spesso non prevede neanche la presenza di una segregazione giuridica vera e propria, ma si basa sul pensiero comune. Lottare per garantirsi la sussistenza minima svuota i discriminati di tutte le energie necessarie per ribellarsi.

L’ingiustizia della discriminazione si realizza nel sopruso più brutale, cioè nel tentativo di annullare le peculiarità individuali di una persona, disumanizzandola e calpestando la sua dignità. È per questo che, a libro inoltrato, Richard Wright scrive “Io ero un non-uomo, un qualcosa che sapeva vagamente di essere umano, ma che sentiva di non esserlo. Man mano che il tempo mi allontanava da quell’esperienza non provavo più odio per quegli uomini che mi avevano cacciato dal mio posto. Non mi apparivano più come individui, ma come parte d’un immenso, implacabile disegno elementare verso il quale l’odio era futile”.

Noi viviamo in un contesto diverso da quello del sud degli Stati Uniti dei primi del Novecento e, nonostante il razzismo sia un virus lontano dall’essere debellato , negare questa differenza sarebbe sbagliato, oltre che intellettualmente disonesto. Ciò che però resta uguale è la modalità con la quale il razzismo si esercita, anche se in maniera meno sistematica. Prevede sempre la privazione di dignità dell’individuo, il considerarlo inferiore rispetto alla propria condizione di essere umano. Sembrano concetti mostruosi, e lo sono, ma emergono ogni volta che un giudizio su un’azione varia a seconda di chi la compie o che si permette a una persona di avere meno diritti garantiti rispetto a un’altra solo per le sue origini. A volte questi schemi mentali sono accompagnati da gesti semplici come una risata di scherno, un’occhiata maligna, il tono di voce più alto, il linguaggio del corpo, ma non fanno altro che stabilire una gerarchia tra persone. Ancora più grave è quando questi diventano parte programmatica di un partito o vengono introdotti come qualcosa di normale e accettato all’interno del dibattito istituzionale.

Richard Wright

Leggere Black Boy di Richard Wright serve a capire le dinamiche del razzismo e, quindi, come sconfiggerlo. Se la discriminazione si basa sull’annullamento delle peculiarità individuali e della dignità, allora è necessario ridare loro valore. La tendenza a considerare i migranti come un’unica massa indistinta è dannosa e sbagliata. Dobbiamo tornare a concentrarci sulle storie dei singoli, non solo nei loro risvolti tragici, ma nella loro integrità di esseri umani e persone che hanno tanto i nostri sogni e necessità, quanto i nostri stessi diritti. Wright ci insegna a praticare l’empatia, immedesimandoci nell’altro, da non confondere con il diverso: solo così torneremo a dargli la dignità che gli spetta, spezzando il circolo vizioso di un pensiero che concepisce delle gerarchie tra uomini. Solo così possiamo mettere la parola fine al razzismo una volta per tutte.

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