Il potere sarà sempre in mano a chi non se lo merita, ci disse Pasolini in Petrolio

Nella cultura italiana Pasolini ha assunto il ruolo di santino laico: osannato più che studiato, assurto a martire delle borgate senza che siano mai state soppesate realmente le sue considerazioni politiche. Pasolini è ormai da tempo un’icona pop, un simbolo riconoscibile di ciò che vuol dire essere un intellettuale. Eppure, ridotto a icona, la complessità della sua poetica è appiattita su una facile semplificazione, venerarlo è un modo per evitare di sviscerarne le idee più spigolose, smussare le criticità di un pensiero profondo e a tratti profetico.

Nell’ultimo Pasolini frammentarietà, simbolismo e critica sociale sono portate al massimo grado, è l’esito di una ricerca trentennale. L’ultima grande opera  è Petrolio un lungo romanzo in cui i capitoli sono chiamati “Appunti” che, nelle intenzioni dell’autore, doveva raccontare il contesto politico e sociale dell’Italia del boom economico, narrando la mutazione dei costumi e il fenomeno dello stragismo. Lo stesso Pasolini, nel gennaio del ’75, dichiarava alla stampa l’ambizione del progetto: “Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Basti sapere che è una specie di summa di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie”.

Il suo lavoro verrà bruscamente interrotto il 2 novembre dello stesso anno, da una morte avvenuta in circostanze mai chiarite. Nei mesi precedenti Pasolini aveva inviato la prima stesura di Petrolio all’amico Moravia, motivando le scelte stilistiche – la narrazione allegorica, la forma di appunto – nella lettera che lo accompagnava: “È un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi la sua lingua e quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia”. Un’opera totale che avrebbe dovuto mimare ogni linguaggio della società contemporanea. Dalla morte dell’autore alla pubblicazione passeranno 17 anni, Petrolio verrà pubblicato da Einaudi nel 1992.

Il motivo è chiaro sin dalle prime pagine: si tratta di un romanzo scomodo, una violenta accusa ai poteri che hanno influenzato la società italiana dal Dopoguerra. L’opera si apre in maniera non convenzionale: il suicidio del protagonista, Carlo, un ingegnere torinese assunto dall’Eni. Dal suo cadavere nasceranno Carlo di Polis e Carlo di Tesis, i due aspetti della sua personalità: da una parte il Carlo arrivista, integrato, ambizioso, dall’altra la proiezione del suo inconscio sregolato, erotico, in comunione con il mondo naturale. Carlo e Karl – così viene chiamato il Carlo anticonformista – prendono due strade parallele che testimoniano l’ambivalenza del nostro Paese negli anni Settanta.

Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, 1962

Karl si approccia ai rimasugli di quell’Italia contadina che, nella repentina industrializzazione italiana, è stata spazzata via dalla Storia. Il suo modo di relazionarsi è fisico, diretto, Karl è l’incarnazione del desiderio. Per questo la sua storia è corredata di rapporti sessuali, una riscoperta della corporeità che si apre anche alla critica di genere. Pasolini descrive Karl in grado di provare il desiderio maschile e quello femminile allo stesso tempo, attraverso il prisma del sesso conosce tutte le figure di un’Italia mutata nei costumi: gli studenti di umili origini che cercano di elevarsi dalla propria condizione, i contadini convertiti in operai, i proletari diventati criminali, le comunità rurali smembrate dall’urbanizzazione.

Parallelamente la storia di Carlo incontra gli aspetti più pericolosi della politica italiana. Lavorando all’Eni entra in contatto con i dirigenti della società, in particolare con il presidente Bonocore e il vicepresidente Troya. I riferimenti di Pasolini non sono neanche troppo velati: si tratta di Enrico Mattei e Eugenio Cefis. Pasolini ripercorre la lotta contro le multinazionali, quella combattuta realmente da Mattei contro la lobby internazionale del petrolio, e la morte misteriosa di Bonocore/Mattei, ritrovandone le cause in una cospirazione ordita, assieme a mafia, gruppi fascisti e massoneria da Troya/Cefis. Pasolini si rifà alle teorie sul caso Mattei che vedevano nella sua morte non un incidente ma un omicidio e volevano Eugenio Cefis, poi succedutogli alla guida dell’Eni, mandante dell’attentato. Qui risiede il nocciolo più problematico di Petrolio: l’accusa dell’autore a una sacca di potere occulta che interessa dirigenti d’azienda, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e parti deviate dell’apparato statale.

Eugenio Cefis

Il fulcro di quell’inquisitoria doveva concretizzarsi nel capitolo “Lampi sull’Eni”, che invece risulta essere mancante. Non è chiaro se Pasolini intendesse lasciarlo bianco – come a testimoniare una sostanziale impossibilità nel descrivere le infinite ramificazioni criminose della classe dirigente italiana – oppure, una volta redatto, questo capitolo sia andato perso, o addirittura trafugato. Nel 2010 Marcello Dell’Utri dichiarò di aver visionato il fantomatico capitolo, affermazione poi tempestivamente ritrattata. Il giallo sulle accuse di Pasolini e la possibile relazione fra Petrolio e il suo omicidio rimane.

I resti dell’aereo su cui viaggiava Enrico Mattei al momento dello schianto, 1962

Sta di fatto che Pasolini aveva tirato le somme di un certo modello di società e ne aveva previsto gli esiti, fino al nostro presente. Innanzitutto nel cambiamento dei costumi, dominati dalla vacuità dell’immagine, dall’egocentrismo, dallo stress per la lotta perenne sul posto di lavoro: “Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia e del benessere, corrotti e distrutti dalle mille lire che una società sviluppata aveva infilato loro in saccoccia”. Aveva poi prefigurato le conseguenze estreme dello stragismo, arrivando a profetizzare, con cinque anni d’anticipo, la strage di Bologna, il 2 agosto del 1980: “La bomba è fatta scoppiare: un centinaio di persone muoiono, i loro cadaveri restano sparsi e ammucchiati in un mare di sangue, che inonda, tra brandelli di carne, banchine e binari. La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una Visione”.

Ma Pasolini tocca anche il tema del disastro ambientale, i viaggi di Karl nell’Italia arcaica e contadina sono il canto del cigno di un paesaggio disastrato, un ambiente inquinato e razionalizzato dal nuovo modello produttivo.  Allo stesso modo Carlo viaggia, per conto dell’Eni, prima in Grecia e poi in Oriente, qui si trova a contatto con le vestigia di civiltà scomparse, arrivate all’apice della prosperità prima di scomparire, come ad ammonire i posteri sul rischio che si corre nel cercare di ergersi al di sopra delle leggi naturali. Così il petrolio del titolo assume i tratti di una sostanza esoterica, una risorsa su cui la nostra società fa affidamento in maniera fallace, per cui le multinazionali si invischiano negli affari di Stato, influenzano le economie, smembrano le comunità, distruggono l’ambiente.

Il più grande nemico di Pasolini è stato il Potere, una forza distruttiva incarnata in una classe dirigente senza scrupoli e inchinata  alla logica del profitto. La sua forte indignazione è stato il tentativo di ammonirci a tenere sempre a fuoco la facoltà di giudizio, la capacità di individuare i segmenti corrotti della società. In questo senso Petrolio è il suo testamento spirituale: una mappa che traccia i momenti più oscuri del Novecento italiano, provando a immaginare le conseguenze a lungo termine dei traumi della Storia. Oggi possiamo soppesare le ipotesi di Pasolini, e accorgerci che in gran parte si sono avverate. Eppure continuiamo a evitare la sua parola, venerando il Pasolini “eretico”, e lasciando allo stesso tempo che le sue denunce più spinose e importanti cadano nell’oblio.

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