Sandro Pertini fu eletto al Quirinale nel luglio 1978, solo al XVI scrutinio ma con 832 preferenze su 955 votanti, la più alta percentuale mai registrata. “Un buon presidente eletto male”, fu il commento della stampa, dopo che la coalizione di governo era quasi andata in frantumi nel tentativo di convergere su un nome gradito alle forze che sostenevano la maggioranza costituitasi all’atto del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.
L’ottantunenne di Savona aveva un glorioso passato. Nel 1921 aveva dato vita al Partito Socialista Unitario dopo la scissione comunista; era stato strenuo oppositore del fascismo e perciò incarcerato dal regime; aveva scampato una condanna a morte da parte dei nazisti e guidato le formazioni partigiane nella Resistenza. Nel dopoguerra aveva fatto parte dell’Assemblea costituente e aveva presieduto la Camera dei deputati fra il 1968 e il 1976. Tuttavia, non aveva mai ricoperto incarichi di governo nei lunghi anni del centro-sinistra ed era di fatto retrocesso alla figura di padre nobile nei primi anni del PSI di Bettino Craxi. Fu quindi per certi versi catapultato alla ribalta della politica italiana quasi da outsider.

Pertini giunse alla massima carica dello Stato con il principale proponimento di rinsaldare il malfermo edificio democratico, di chiudere la divaricazione che si era aperta fra il “palazzo” e il “Paese reale” e in sostanza di riavvicinare alle istituzioni la popolazione disillusa. Lo circondava un ceto parlamentare largamente screditato, responsabile di un sistema politico bloccato e che riservava le energie migliori a escogitare formule politiche percepite dai più come astruse e incomprensibili, mentre la Repubblica si dibatteva in una sfibrante crisi economica e doveva fronteggiare l’attacco del terrorismo rosso e dello stragismo di destra.
L’ex partigiano era del tutto diverso: diretto e chiaro, gracile e vivace, sorprendentemente a suo agio nel rapporto con i mezzi di comunicazione. In quella che oggi si può definire la fase aurorale del predominio televisivo nella narrazione della politica, Pertini mise a frutto una naturale spigliatezza mediatica per stabilire una connessione fortissima e benefica con le persone comuni e diventare in breve il presidente più amato della storia repubblicana. Poté vantare benevoli riconoscimenti persino dagli idoli della canzone, come dimostrarono gli omaggi che gli tributarono Toto Cutugno e Antonello Venditti ne “L’italiano” e “Sotto la pioggia”.
Le sue doti di comunicatore insieme alla sua capacità di entrare in sintonia con l’umore popolare, che avevano avuto modo di imporsi in situazioni drammatiche come la strage alla stazione di Bologna dell’agosto 1980 o il terremoto dell’Irpinia del novembre successivo, giunsero all’apice in occasione dell’entusiasmante cavalcata che condusse l’Italia di Enzo Bearzot alla conquista dei Mondiali di calcio nell’estate di quarant’anni fa.

In realtà, i leader politici mostrarono in principio una certa goffaggine nel maneggiare l’onda emotiva suscitata dalla kermesse iridata. Dopotutto, erano sempre stati i dittatori a cavalcare gli avvenimenti sportivi per motivi di consenso interno o prestigio internazionale, com’era capitato alla precedente Coppa del mondo in Argentina o alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Prima di volare in Spagna, i ragazzi di Bearzot furono ricevuti dal presidente del Consiglio, il repubblicano Giovanni Spadolini, il quale non seppe far di meglio che affidare agli azzurri il ruolo di messaggeri di pace, in vista di una competizione che vedeva in lizza le rappresentative di due Paesi in guerra, proprio l’Argentina della Junta Militar e l’Inghilterra. Al contrario, dopo la semifinale con la Polonia, il segretario del PRI si allineò all’entusiasmo collettivo e chiamato a gran voce si affacciò alle finestre di Palazzo Chigi per salutare la folla festante con le dita a “V”, recuperando il gesto che Winston Churchill aveva reso celebre in occasione di ben altre conflagrazioni.
Non era solo inusuale che un politico si lasciasse andare a una manifestazione di gioia popolare, era inedita tutta la situazione. Infatti, incombente una crisi dell’esecutivo, il discorso del Capo del Governo al Senato era stato fissato in maniera strategica nel primo pomeriggio, la riunione del Consiglio dei Ministri alla sera e il dibattito parlamentare all’indomani, per consentire agli onorevoli di assistere alla partita contro i polacchi. Infine, era insolito lo stesso Spadolini. Fiorentino, studioso del Risorgimento, ex direttore del Corriere della Sera, provvisto di forbita affabilità e ragguardevole ingombro volumetrico, il leader repubblicano – sul cui celibato spettegolavano gli agenti della sicurezza – era in pratica estraneo alla politica professionalizzata e alle imperscrutabili logiche partitiche da cui emergevano deputati e senatori. Soprattutto, Spadolini era il primo presidente del Consiglio non democristiano.

Come unico volto presentabile di una classe dirigente quasi completamente delegittimata dallo scandalo della loggia massonica segreta P2, era salito in carica nel giugno 1981, per audace iniziativa di Sandro Pertini, che rappresentò un altro durevole lascito del suo settennato. Lungi dall’autoghettizzarsi in una funzione meramente coreografica, seppur preziosissima, di autorevole guida morale, Pertini si discostò da un’interpretazione semplicemente “notarile” del ruolo di capo dello Stato, optando per una condotta apertamente “interventista”, sul cui solco si sarebbero posti successori come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. L’impronta presidenzialista fu lampante proprio nella designazione di Spadolini al vertice dell’esecutivo, con cui Pertini svolse un ruolo di supplenza alle manchevolezze dei partiti, riempiendo la voragine che si era spalancata fra opinione pubblica e partiti.

Spadolini non fu però il nume tutelare della spedizione azzurra, funzione che esercitò il capo dello Stato in via esclusiva. Consapevole del proprio ascendente nei confronti dei media, il “presidente partigiano” intravide negli sviluppi del Mundial un’occasione irripetibile di rafforzamento dell’identità nazionale, da sempre considerata fragile o incompleta, e di collegamento con lo sfuggente universo giovanile, cui spesso si rivolgeva nei suoi discorsi e con cui cercava di intessere un dialogo quotidiano, ricevendo al Quirinale legioni di scolaresche. Gli italiani furono una volta ancora rapiti da questo vecchio socialista, dal suo eloquio anacronistico, dalle sue esclamazioni fuori dal tempo e dal suo ricorso a espressioni altisonanti, che in bocca a qualsiasi altro sarebbero apparse come vacua retorica o come una predica fastidiosa. Al contrario, le sue uscite, anche quelle più volutamente ingenue, venivano percepite come schiette e affettuose, per il suo innato carisma, per la biografia che rispecchiavano e per l’insofferenza di Pertini agli stucchevoli cerimoniali della politica.


Arrivato a Madrid la mattina della finale contro la Germania Ovest, il presidente si recò nel ritiro degli azzurri, congratulandosi paternamente soprattutto con Paolo Rossi: “Ti ho visto con la Polonia”, gli si rivolse. “Ogni volta che avevi il pallone, io gridavo ‘Spara, spara!’, anche se sono per il disarmo. Però devi ricordarti che se tu fai i gol, tutti gli altri lavorano per aiutarti a farli. E ricorda anche un’altra cosa: sta’ attento alle gambe. L’altro giorno ho visto che ti picchiavano sempre. Appena ti avvicina uno, devi saltare, o ti pestano i piedi, te li schiacciano. Salta. Salta e spara!”. Lodò invece il portiere e capitano Dino Zoff come esempio dell’Italia seria e industriosa, riportando infine il discorso sui binari che più gli stavano a cuore: “Io sono qui perché tutto il popolo italiano vuole stare con gli atleti che lo hanno onorato. E io lo rappresento”. La sera dell’11 luglio, si accomodò sulle tribune del Santiago Bernabéu, accanto al re Juan Carlos e al cancelliere tedesco Helmut Schmidt, e seguì la partita con partecipazione. Quando Alessandro Altobelli siglò il 3 a 0, tutti lessero il suo labiale: “Adesso non ci prendono più!”. Durante la premiazione, lo si ricorda ancora abbracciato a Enzo Bearzot, entrambi con l’amata pipa in mano, e poi, sull’aereo di ritorno, impegnato in un’accanita partita a scopone, la cui fotografia sta di diritto nel pantheon iconografico italiano. Il bagno di folla all’aeroporto di Roma precedette il pranzo al Quirinale, dove snobbò ministri e alti funzionari per sedere fra Bearzot e Zoff.
Non erano ancora i tempi dei festeggiamenti gestiti da ben pagate società di marketing, né quelli della propaganda ideologica che il regime fascista aveva sapientemente organizzato sulle affermazioni degli atleti italiani. Tuttavia, la spontanea esplosione di gioia popolare, il suo afflato unificante, segnarono un chiaro spartiacque nella sempre mutevole combinazione di elementi che concorrono a formare una collettività nazionale.

L’attuale e inestricabile intreccio di politica, racconto sportivo, sentimenti nazionali, mezzi di comunicazione di massa e calcio cominciò proprio durante i Mondiali spagnoli, per le sapienti sottolineature ideali e culturali di un uomo politico di matrice risorgimentale, acutamente consapevole delle proprie straordinarie capacità comunicative e del peso determinante dei media nella costruzione dell’immagine moderna dei leader politici.