Pavese ha raccontato una generazione di giovani senza radici. Come la nostra.

In una delle lezioni tenute da Antonio Tabucchi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi nel novembre del 1994, l’autore di Sostiene Pereira parla di una “Nostalgia del possibile”: una saudade non tanto di quello che si ha avuto, quanto piuttosto di quello che si sarebbe potuto avere. E credo che questa descriva bene ciò che molti giovani italiani oggi sperimentano ogni volta che tornano nel luogo dove sono cresciuti, dopo un esilio più o meno forzato per diversi motivi. Prima ancora di Tabucchi, questo sentimento è stato perfettamente narrato da Cesare Pavese, che ne ha parlato in tutte le sue opere, e soprattutto nel suo ultimo libro: La luna e i falò.

La storia di Anguilla – alter ego dell’autore che torna nel suo paese sperduto nelle Langhe dopo la fuga prima a Genova e poi in America – descrive ancora quella di tanti ragazzi scappati all’estero o nelle grandi città. Sia Anguilla che Pavese si trovano a disagio di fronte a luoghi cui non riescono a togliere la patina della “nostalgia del possibile”: il pensiero di quello che sarebbe potuto essere se si fosse rimasti è difficile da rimuovere ma anche da descrivere a parole. Per questo spesso chi torna rinuncia a parlare di quel senso di mancanza per un periodo che rimane chiaro quasi solo nella propria testa.

Nel suo libro Homesickness: An American History, Susan Matt scrive: “Poiché la nostalgia di casa è assente dai resoconti moderni del passato, è vista come un’emozione illegittima nel presente”. La luna e i falò è sicuramente l’opera maggiormente autobiografica di Pavese (che arrivò a definirla il suo “vero” libro”) ma, pur essendo estremamente personale, funziona ancora nel raccontare una generazione mai a proprio agio con l’idea del ritorno a casa, anche quando è solo ipotizzato. Questa attualità non avrebbe sorpreso Pavese che nel suo diario, pubblicato postumo col titolo Il mestiere di vivere, scriveva: “Le generazioni non invecchiano. Ogni giovane di qualunque tempo e civiltà ha le stesse possibilità di sempre” e quelle possibilità si sintetizzano in tre opzioni: andare, restare o tornare.

Il protagonista, Anguilla, decide di andare, stanco di una società contadina in cui è impossibile per un orfano di umili origini crescere: è un ragazzo frustrato da un ascensore sociale bloccato che gli impedisce anche solo di partecipare alle feste e di conoscere le donne che potrebbe desiderare. La libertà è rappresentata dal rumore del treno in lontananza, inebriante come una promessa. Anche ne I Vitelloni, uno dei film che meglio raccontano la provincia italiana, il treno diventa simbolo di quella fuga necessaria per realizzarsi. Un altro parallelo di queste due opere è che, quando i protagonisti lasciano i luoghi dove si sono formati, abbandonano infatti anche due personaggi che rappresentano metaforicamente ciò che sarebbero potuti diventare se non si fossero mossi dalla loro comfort zone.

 

I vitelloni, 1953

Nel libro, costituito da un andirivieni tra i ricordi del passato e la realtà del presente, vengono dedicati due capitoli all’esperienza di Anguilla in America. Gli Stati Uniti sono l’esatto contrario della realtà in cui è cresciuto ma, finiti gli iniziali entusiasmi, a stancarlo è proprio la libertà eccessiva di quel gigantesco Paese dove tutto è transitorio e non lascia traccia: i rapporti destinati a esaurirsi rapidamente, basati sulla necessità e quella continua solitudine, comune in certi luoghi che appartengono a tutti e quindi a nessuno, lo sfiancano presto. La sua traiettoria è simile a quella della protagonista di Penelope alla guerra di Oriana Fallaci, altro romanzo semi autobiografico di un’autrice transitata per gli Usa: nel finale, la Giò della Fallaci si avventura nella massa informe della folla non più spavalda ma intimorita e anche i grattaceli non le danno più l’estasi del suo arrivo ma delimitano nuove prigioni. I personaggi dei due libri tornano indietro quando intuiscono che quella vita nelle metropoli non gli lascerà nulla. Anguilla dice: “Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”.

Oriana Fallaci

Il problema è che la nostalgia che si innesta in Anguilla è la stessa che si innesta nei suoi connazionali che ritornano alla provincia, più o meno remota: è una nostalgia basata sulla sensazione di aver perso qualcosa che non può tornare. “Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici”, scriveva Pavese ne La spiaggia e questa idea si ritrova anche ne La luna e i falò. Anguilla torna col desiderio di mostrare il suo successo, i viaggi lo hanno reso un uomo, ma non ritrova niente di quello che ha lasciato alla partenza: tra morti reali e scomparse metaforiche, di quello che ha amato è rimasto solo lo scheletro. In Un’ombra ben presto sarai di Osvaldo Soriano il protagonista ammette che ciò di cui aveva nostalgia quando era lontano era in realtà un ricordo. Anguilla si accorge che per lui è lo stesso solo quando torna nel suo paese del piemonte. Ogni volta che si ritorna bisogna rassegnarsi alla perdita di molte cose e all’eternità di altre, ci dice sempre Pavese.

Nel caso di Anguilla, l’illusione che nulla sia cambiato è possibile grazie ai luoghi, rimasti più o meno gli stessi. Il paesaggio gli fa dire: “Tutto è lo stesso. Tutto torna sempre uguale”, ma non è così. Anguilla ritrova lo stesso cespuglio di rosmarino, lo stesso vino, la stessa vallata e gli stessi odori, però a popolare questo immutabile sfondo manca qualcuno: i conflitti, il tempo e le scelte altrui hanno allontanato le persone che popolavano i ricordi di Anguilla da quei luoghi e gli tocca constatare che la vera patria è sepolta nell’infanzia e per questo è impossibile ritornarci. Tutto scorre, anche in quei luoghi lontani dalla città che Franco Armino esaltava definendoli “senza additivi e senza mistificazioni”, e ora Anguilla vede nello zoppicante Cinto, vessato dal padre frustrato, lo stesso ragazzo pieno di vita che lui era stato.

A quasi sessant’anni di distanza la lente della provincia italiana non sembra essere cambiata: la provincia piemontese, ma anche emiliana, marchigiana, laziale o abruzzese, punta a rimanere sempre uguale a se stessa, almeno esteriormente. Quando si torna, dopo che il lavoro o un semplice viaggio ci hanno portati lontani, la sensazione straniante è quella di ritrovarsi a contemplare una commedia in cui a cambiare sono solo gli attori. La nuova generazione è cresciuta e ora sogna di andare, come quella precedente, mentre chi rimane si rassegna a fare quello che facevano i padri perché in fondo “L’America è già qui: ci sono i milionari e i morti di fame”. Questa Italia lontana dalle città, che vive a un suo ritmo e guarda con distacco a quello che succede al centro del mondo, conserva inevitabilmente le proprie specificità, ha un’identità forte che non soccombe neanche alle spinte più forti del  cambiamento, cambia lentamente la forma ma la sostanza resta la stessa. La guerra è passata e i morti sono stati ridotti in cenere, nei falò, come capita alla bellissima doppiogiochista Santa, la figlia più piccola dei padroni di Anguilla. Quello che rimane di tutti quegli anni è solo polvere: neanche gli eventi epocali riescono a scalfire l’anima e le dinamiche di quei luoghi, che sopravvivono anche alla scomparsa di chi li ha abitati.

Alla fine Anguilla si arrende all’ineluttabilità del suo destino, preannunciatogli dall’unico amico rimasto. Il migliore amico di Anguilla, Nuto, ha una diversa prospettiva sulle cose: non è mai andato via e nonostante tutto mantiene vive speranze e ideali, senza farsi vincere dalla disillusione di Anguilla. Nuto ha ancora la genuina voglia di comprendere che anni prima era riuscito a trasmettere al più piccolo Anguilla, manca totalmente di quella spavalderia che contagia spesso chi torna ed è convinto di avere ormai capito tutto. Ha ancora l’umiltà di confrontarsi con gli altri e di finire le frasi con: “Se sbaglio, correggimi”.“Nuto,” scrive Pavese, “aveva davvero ragione quando diceva che vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono esser ricchi, innamorati, far fortuna”.

Quando si torna, però, ci si sente cambiati, soprattutto quando si parla con quegli amici che non si sono spostati. Anguilla è il primo a rendersi conto della diversità di vedute che ormai lo divide dall’ottimista Nuto “che non se n’era mai andato veramente” e  “voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni. O forse no, credeva sempre nella luna. Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo”. Probabilmente nessuno dei due ha del tutto ragione, ma non è questo l’importante per Pavese: come fa notare nella sua introduzione Gian Luigi Beccaria, lo scrittore piemontese voleva piuttosto inscenare un confronto tra ciò che è cambiato e ciò che è rimasto uguale, e la tensione interiore che questo provoca.

Oggi, il ritorno alla provincia, legata a tradizioni e legami apparentemente indissolubili, è ancora difficile per chi ormai vive in realtà che cambiano a una velocità almeno triplicata rispetto a quella in cui si muoveva Pavese. Il problema è proprio capire da dove iniziare e il sospetto è che gran parte della nostra penisola sia ormai condannata a essere vista da un’intera generazione solo come “un posto di vacanza”, per citare il titolo di una poesia di Vittorio Sereni: un luogo dove si possono solo ricaricare le batterie per poi ripartire, come fa Anguilla e come fece Pavese stesso. In un contesto simile, viene a tutti il dubbio che tornare indietro possa rappresentare in qualche modo una sconfitta, forse a ritornare in maniera stabile sono solo coloro che si sono scoperti inadatti alla vita adulta, quelli bloccati nella condizione di figli, come suggerisce J.M. Coetzee nel suo libro Tempo d’estate. Scene di vita di provincia. O al contrario quelli che sono cresciuti abbastanza da capire, da trasformarsi in Nuto ed essere diventati immuni sia all’immobilismo che all’ambizione.

Forse questo ritorno eternamente parziale, circoscritto a feste, ricorrenze e cerimonie importanti o al solo mese di agosto, rimane davvero l’unico possibile per una generazione che comunque lo ritiene necessario, incapace di tagliare definitivamente i ponti con le proprie origini, o per ricordare anche a se stessa la propria identità. Aveva ragione Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

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