Letizia Battaglia è un monumento della fotografia, molto di più di una sterile polemica sui social - THE VISION

Alla base di ogni luogo comune, seppur esistano sempre eccezioni e varianti, c’è un fondo di verità. Il problema del cliché non è tanto nella sua esistenza quasi inevitabile, quanto nel danno che fa a tutto ciò che gli sta attorno, oscurando spesso ciò che invece meriterebbe attenzione. Quando si parla della Sicilia, per esempio, regione in cui sono nata e cresciuta, si fa riferimento alla diffusa mentalità spesso retrograda, sessista, misogina, ancorata a un’idea della donna intesa solo come fattrice e angelo del focolare. In Sicilia c’è molta arretratezza per quanto riguarda questo e molti altri temi, è vero, ma c’è anche un altro aspetto di quest’isola che non viene quasi mai preso in considerazione, anche a causa della forza di un luogo comune che ha una solida base di realtà, ed è quello che riguarda il culto di alcune figure femminili, le più importanti sante patrone delle due maggiori città, Palermo e Catania: Santa Rosalia e Sant’Agata. Queste sono donne che, stando alla tradizione rispettata con una devozione e un rigore senza pari, proteggono palermitani e catanesi da centinaia di anni, salvando le metropoli dalla peste, dalle colate laviche dell’Etna e dalle sventure di tutti i cittadini che chiedono loro aiuto in vari modi; due simboli di forza femminile. Sant’Agata appena adolescente si ribella infatti al matrimonio che le viene imposto e resiste alle torture inflitte dall’uomo che la voleva in sposa e la stessa sorte spetta anche a Santa Rosalia. La Sicilia è un luogo complesso e particolarmente stratificato per molte ragioni e da donna cresciuta circondata da queste contraddizioni – la cultura reazionaria e misogina che si amalgama con una mitologia femminile così impetuosa – sono sempre stata alla ricerca di figure simili, che potessero offrire un punto di vista alternativo alla narrazione dominante che le vorrebbe tutte casalinghe imbacuccate e sottomesse, buone giusto a far la parmigiana. Letizia Battaglia, fotografa palermitana di fama mondiale, donna di 85 anni con addosso l’energia di una bambina, è una di queste.

Quando, pochi giorni fa, ho visto che il suo nome veniva menzionato sui social ho pensato subito che fosse un gran bene, perché ogni volta che si possono usare le piattaforme online per parlare di qualcosa o di qualcuno di interessante, anche per una ragione destinata a tramontare in fretta, vale la pena andare a fondo, anche solo per far scoprire quel personaggio a qualcuno che magari non lo ha mai sentito nominare. Il dibattito in questione, come spesso succede su internet, è scaduto nella solita divisione bipartita. Da una parte i fan oltranzisti di Battaglia e dall’altra i suoi detrattori occasionali, che magari non sempre ne conoscono il lavoro in maniera approfondita, ma vengono spinti a dire la loro dai social. Il casus belli, o la scintilla, che ha fatto accendere un trending topic in questo anno così tristemente monotematico è stata una campagna fotografica che Letizia Battaglia ha scattato per una nota azienda di macchine di lusso, Lamborghini.

Letizia Battaglia ha scattato una serie di fotografie che hanno come sfondo Palermo, in secondo piano una Lamborghini gialla e in primo piano delle bambine tra i 7 e gli 11 anni. Queste immagini, che giocano su un ammiccamento tra un prodotto di lusso e uno sguardo innocente e infantile, hanno suscitato così tanto scalpore da indurre non la Lamborghini, ma addirittura Leoluca Orlando in persona, sindaco della città con cui Battaglia collabora da sempre, a ritirare le immagini, giusto per innescare quel famoso effetto Barbra Streisand che in queste occasioni fa da ottima benzina sul fuoco di paglia dei social.

Leoluca Orlando

Da qui le due fazioni: chi si dice sconvolto dal fatto che si possa essere travisata un’opera di una fotografa famosa per i suoi ritratti femminili tutt’altro che sessisti, chi invece trova che proprio una donna come Battaglia non possa permettersi di entrare nel solco dell’associazione tra corpo femminile e le macchine, ammiccando addirittura alla pedofilia, vista l’età dei soggetti. Al centro di questi due fuochi, alcune fotografie non particolarmente significative, se paragonate al corpus fotografico di quest’artista che, come ha specificato lei stessa, sono ritratti in cui le ragazzine – le sue famose “monelle” – stanno ben davanti la macchina, lontane dal veicolo, eppure entrano a far parte di un ritratto, che nella sua ambiguità – vista anche l’età dei soggetti – non risulta di immediata comprensione: per la fotografa, le ragazze sono una metafora della città di Palermo, prive di malizia e pregne di un senso di spiccata libertà, dovuta proprio alla loro età che sta a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza, non ancora adulte sessualizzate, delle Lolita; per chi non coglie questa sfumatura simbolica sono invece bambine oggettificate in una pubblicità che associa al corpo femminile un prodotto automobilistico, il più classico dei cliché.

Sicuramente non sono le foto migliori che Battaglia abbia realizzato, ma poco importa dato che si tratta di pubblicità e non di arte, e quindi di un messaggio che include anche un discorso economico ed etico diverso. La malizia che si innesca guardando queste foto, probabilmente è dovuta sia al fatto che, contrariamente al modo in cui siamo abituati a vedere il lavoro di Battaglia, stavolta è chiara la presenza di un prodotto, che finisce per svilire la sua poetica, stona con la cornice che lo ospita e a ben vedere crea proprio questa ambiguità di fondo. Le immagini risultano così fraintendibili, nonostante l’intento della fotografa non fosse di certo quello di creare un malinteso del genere, considerata proprio la sua storica attenzione e bravura nel rappresentare quel tema. La domanda allora dovrebbe essere rivolta semmai all’azienda che le ha commissionate, a cosa volevano dire e a che immaginario volessero fare riferimento. In questi anni assuefatti dal consumo e storditi dalle logiche del tardo-capitalismo, trovare i confini tra arte e messaggio promozionale è molto difficile, dato che in questi casi l’arte si presta ai fini della vendita e di un committente. Questo è un tema che merita un approfondimento che va ben oltre questo episodio, ma ciononostante la campagna di Lamborghini, al di là delle opinioni, può essere un ottimo spunto per parlare di Letizia Battaglia. 

Mettendo da parte le reazioni che ha suscitato e tornando alla questione più essenziale che riguarda Battaglia, ossia quella legata a doppio filo con il tema della Sicilia, delle donne, del sessismo e delle tante battaglie l’emancipazione e la libertà, il suo nome appare imprescindibile. Così come una patrona che veglia sulla sua città, consapevole del male e della cattiveria che vive e prolifica sotto ai suoi occhi, Battaglia è stata lo sguardo attraverso il quale abbiamo visto e continuiamo a poter vedere Palermo negli anni della sua guerra civile, quelli che vanno dal 1974 al 1992, in cui nella città siciliana si viveva col coprifuoco per via delle sparatorie, anni di cui è difficile tenere il conto dei morti, tra civili coinvolti e mafiosi.

Diventata fotografa a quarant’anni dopo aver avuto la prima figlia a sedici, Battaglia scatta foto per sopravvivere, sia nella sua città d’origine che a Milano, soprattutto per il giornale palermitano baluardo dell’antimafia, il quotidiano L’Ora, la cui sede venne fatta saltare in aria in un attentato di cosa nostra nel 1958, ma che non smise per questo di andare avanti con le sue inchieste. Battaglia è la prova vivente che la donna non ha data di scadenza – cosa che lei stessa ribadisce anche ora da ottantenne – e non ha limiti dettati da avvenenza o fertilità, in un’età e in anni in cui non essere più nel “fiore” della propria giovinezza per una femmina era uno stigma, così come in molti ambiti lo è tutt’ora, Battaglia non solo ritrae personaggi del calibro di Pier Paolo Pasolini, non solo diventa una delle prime foto-reporter a lavorare per un giornale italiano, non solo documenta in prima persona con la sua macchina fotografica, strumento di libertà ed emancipazione, decine e decine di omicidi negli anni della guerra di Cosa Nostra, tra i quali quello di Piersanti Mattarella, ma riesce anche a creare un racconto del femminile che non ha precedenti. 

Lo vediamo in modo chiaro sia nei suoi scatti più famosi, quelli ormai iconici come la bambina con il pallone – fotografie che le hanno permesso di vincere premi prestigiosi come l’Eugene Smith a New York negli anni Ottanta –, ma anche nell’ultimo documentario di Franco Maresco, La mafia non è più quella di una volta, di cui Letizia Battaglia è co-protagonista. Esordisce nel film chiedendo al regista palermitano di farle una promessa, ossia che nel suo prossimo lavoro le farà interpretare il ruolo della “buttana”: sembra una battuta divertente, e lo è, ma è anche l’essenza del lavoro di Battaglia sulle donne. Lo sguardo femminile, ironico, dissacrante e privo di qualsiasi traccia di male gaze della fotografa – cosa che le permette di giocare anche su ruoli così classici come quello della prostituta – si traduce nella scelta dei suoi soggetti, “le monelle”, come le chiama lei, le bambine palermitane che incarnano l’anima della sua città, in quel momento che sta giusto un attimo prima della pubertà, quando una bambina sa che qualcosa sta per cambiare ma ha ancora dentro di sé la libertà dell’infanzia. Lei dice di voler essere una “buttana” non perché vuole un ruolo subalterno sterereotipato femminile, ma ciò che ha sempre interpretato nella vita con le sue foto e la sua arte, ossia la purezza cinica e irriverente di un corpo femminile privo di qualsiasi imposizione dominante maschile. E quando nel documentario incontra un gruppo di adolescenti nel quartiere Zen dice loro di non ridere, non fare smorfie, non coprirsi di un ruolo che viene imposto alle donne sin da piccole, quello di essere leziose e gradevoli a tutti i costi.

La cosa che mi dispiace di questa storia di marketing, macchine di lusso, città d’arte come Palermo e un’artista degna di questa definizione come Letizia Battaglia è che inevitabilmente questa vicenda, che si è consumata soprattutto a livello virtuale, ha delle ripercussioni sulla realtà, dal momento che la fotografa ha detto di voler lasciare la direzione dei cantieri della Zisa. Le ragioni per cui una shitstorm lascia il tempo che trova è che si nutre sostanzialmente e in modo quasi imprescindibile di un principio di hic et nunc; esaurita l’energia momentanea che la spinge a un picco altissimo ed estemporaneo, quasi ci scordiamo che esiste e tutto torna com’era. 

C’è una cosa però che non può tornare come prima e che non può essere scalfita da nessuna diatriba ed è l’impatto storico ed epocale del lavoro di Letizia Battaglia, una fotografa che con il suo bianco e nero è stata in grado non solo di raccontare un pezzo di storia d’Italia fondamentale, come quello degli anni dell’egemonia del clan dei Corleonesi e della loro relazione stretta e capillare con lo Stato e la Democrazia Cristiana, ma anche di creare un manifesto estetico femminile in anni in cui le donne avevano bisogno di una spinta come queste per sentirsi parte della storia del mondo e non solo co-protagoniste. Le sue “monelle”, la sua Palermo, la sua ironia, la sua voce segnata dalle sigarette, i suoi capelli sgargianti ed eccentrici, il suo impegno politico, sociale, artistico, sono tutte cose che di certo non svaniscono per via di una foto a una macchina sportiva, e sono certa che passata la sbornia del momento saremo tutti e tutte d’accordo su questo, a prescindere da come la pensiamo su quegli scatti.

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