L’Odio dopo 25 anni è più attuale che mai

Sono tante le immagini che in questi mesi di pandemia abbiamo eletto a simbolo di un momento epocale che non dimenticheremo mai. Il Papa che cammina lungo via del Corso o che prega solo in Piazza San Pietro, i camion dell’esercito a Bergamo, le piazze deserte delle nostre città, i video dei droni che sorvolano il centro storico di Roma, normalmente invaso da migliaia di turisti, completamente vuoto e silenzioso. Tra i tanti momenti che hanno fatto da sintesi a uno degli anni più assurdi che la storia recente conosca, c’è stato un video in particolare che mi ha colpita più di tutti, quello che ritrae un barbecue pasquale su un tetto di un palazzo a Palermo, in pieno lockdown, immortalato da elicotteri delle forze dell’ordine arrivate per interrompere quella assurda convivialità fuori legge. Era la metafora tragicomica di quanto forte possa arrivare un messaggio dall’alto, una regola imposta, se messa di fronte all’anarchia di luoghi periferici e ghettizzati che circondano le nostre città e che spesso dimentichiamo che esistano. Eravamo intrappolati nell’alienazione casalinga, magari anche distanti dai nostri parenti, dai nostri amici, e quella sfacciataggine di un gruppo di persone riunite in barba alle norme che tutti dovevamo seguire ha suscitato fastidio, ma un fastidio condito anche dal divertimento di poter assistere a tanta spavalderia incosciente.

Quelle immagini mi hanno ricordato un’altra situazione, diversa per molti aspetti ma simile per altri: ho pensato all’inizio di un film che è uscito venticinque anni fa e che, ironia della sorte, torna nel presente non per una scena di un barbecue su un tetto di una zona disagiata interrotto dalle forze dell’ordine ma per altre ragioni. L’odio, il film del 1995 di Mathieu Kassovitz, è infatti una testimonianza di un fenomeno che non solo riguarda tutto l’Occidente civilizzato e progredito, ma che oggi, alla luce di ciò che sta succedendo negli Stati Uniti e di riflesso anche in Europa, dimostra di non essere invecchiato per niente.

C’è un filo rosso che collega tutte le periferie degradate delle nostre città ed è la spinta,  sistematica, a creare dei compartimenti stagni per dividerci in base a quanto guadagnamo, quanto possiamo spendere, e da che parte del mondo veniamo. Sia che si tratti delle borgate romane, sia che si tratti delle periferie palermitane dove si arrostisce carne sul tetto in piena emergenza sanitaria come fosse normale, in Italia, così come nel resto d’Europa – salvo magari qualche prodigiosa eccezione – gli spazi urbani sono demarcati da linee di divisione nette. “Non andare a Torpignattara di sera da sola, è piena di immigrati”, “Non avvicinarti a Corvetto, ci sono solo musulmani”: ogni città ha il suo hic sunt leones di sicurezza e vivibilità, a un certo punto diventa la terra di nessuno, o meglio, diventa la terra dell’altro. L’altro che è straniero, perlopiù, ma anche connazionale povero, miserabile, pericoloso; c’è un muro invisibile che separa ciò che è civile da ciò che consideriamo, da borghesi con le carte in regola per la società, selvaggio e lontano.

Le proteste che sono cominciate in America a partire dall’uccisione di George Floyd dimostrano una cosa chiara che sapevamo già ma di cui non sempre si parla in modo esplicito, ossia che il razzismo è legato a doppio nodo con il classismo. L’odio, film cult per diversi motivi, non solo contenutistici, focalizza il suo racconto sull’altra parte della barricata, mettendo al centro non la differenza del “quartiere difficile” ma l’identità di chi fa parte di queste realtà. Quando interi quartieri vengono messi a ferro e a fuoco in un Paese che si fregia del ruolo di civilizzatore e faro di progresso per il mondo, come gli Stati Uniti – che con Trump hanno semplicemente sottolineato ulteriormente delle discriminazioni che non avevano smesso di esistere solo perché c’era Obama – la domanda non può essere “Come fermiamo chi si sta ribellando?” ma quali sono stati i sistemi che hanno portato a questa segregazione. Processi che fanno da punto di contatto tra tutte le nazioni che hanno incentrato il loro sviluppo su basi colonialiste, seppur in modo diverso, e che periodicamente si trovano a fare i conti con le conseguenze di un mondo diviso tra giusti e sbagliati.

I protagonisti de L’odio, infatti, sono tre ragazzi di origine straniera che parlano la lingua delle banlieue, il verlan, e che vivono in una città divisa in due: quando si ritrovano al centro di Parigi è come andare in gita in un luogo sconosciuto, si stupiscono del fatto che le persone diano loro del lei. Il bianco e nero del film, per certi versi, potrebbe essere una metafora di questa divisione che intercorre tra Stato, e quindi le forze per mantenere lo status quo come la polizia, e i suoi “nemici”, persone che dovrebbero avere il diritto di far parte della società evoluta come tutti gli altri ma che per questa stratificazione di classe e di provenienza si trasforma in una lotta perenne e rinnovata. L’omicidio di George Floyd, infatti, non è stato solo una goccia che ha fatto traboccare un vaso di risentimento e frustrazione ataviche – cosa che è già successa in USA negli anni Sessanta con un impatto molto più forte, e poi negli anni Novanta – ma è l’immagine ripresa e condivisa in tutto il mondo di una dinamica che fa parte di queste realtà, esattamente come vediamo nel film di Kassovitz che racconta una storia vera. La tua identità è un marchio, sia che si tratti di un maghrebino, che di un ebreo, che di un nero, che di un emarginato – poveri, nomadi, mendicanti, senzatetto, tossicodipendenti e tutto ciò che viene percepito come fuori dallo schema dominante; e così, anche il tuo destino è inevitabilmente legato a quello della tua provenienza. Nasci e cresci in un Paese che ha fondato il suo progresso e la sua avanzata verso la ricchezza sullo sfruttamento di altri esseri umani, sterminati per fare spazio – come nel caso dei nativi americani – o deportati per creare forza lavoro schiavista, per poi ritrovarti a vivere in un luogo che ti relega a una periferia, tanto lontana da avere una sua lingua e un suo codice, in cui la tua rabbia per la condizione che vivi, alimentata dal razzismo che subisci, si trasforma in una guerra contro l’unico esponente delle istituzioni che ti trovi davanti, la polizia.

C’è una scena ne L’odio, tra le tante che sono diventate poi momenti cult della cinematografia anni Novanta – Kassovitz ha infatti dato vita a un vero e proprio genere che è stato replicato e imitato da tanti dopo di lui –, in cui Vincent Cassel, che interpreta Vinz, il ragazzo ebreo del trio, dopo gli scontri della sera precedente tra la polizia e le gang della banlieues entra in contatto con una piccola troupe di giornalisti che cercano immagini e testimonianze degli scontri. La frase di Vinz “Non siamo mica a Thoiry”, una battuta che è diventata persino una canzone di Achille Lauro tanto è simbolico questo film per la cultura urban che si è sempre più allargata negli anni successivi, è piuttosto emblematica di ciò che significa nascere e crescere in un luogo relegato ai confini della realtà civile. Thoiry è infatti uno zoo, e i giornalisti che rincorrono le immagini succulente degli scontri da fornire ai cittadini perbene, che non vedono l’ora di scandalizzarsi di fronte a queste bestie che si ammazzano, è la metafora perfetta del voyeurismo per il degrado di una società per certi aspetti avanzata e progredita, e per molti altri ipocritamente irrisolta. L’odio che dà il titolo al film è infatti il disprezzo per questo stato esistenziale che accomuna gli stranieri francesi, lo stesso che anima gli afroamericani nella loro recente lotta Black Lives Matter, e che si sublima nello scontro diretto con le forze dell’ordine, come fossero un target da colpire per arrivare ai piani più alti. Vinz, a differenza di Hubert, il nero del trio che cerca di mantenere un profilo basso e di Said, che invece cerca di integrarsi in modo più attivo nella parte di società che lo rigetta, è costantemente animato dal desiderio di uccidere un poliziotto per pareggiare i conti. La violenza della polizia che tutti e tre hanno modo di sperimentare sulla loro stessa pelle è la traduzione fisica di un’oppressione istituzionalizzata, che si trasmette attraverso il lavoro di gente che magari proviene anche dallo stesso contesto, come nel caso del poliziotto maghrebino che gioca un ruolo fondamentale alla fine del film.

Anche il fatto stesso di mettere al centro del racconto la lingua, le idee, l’ironia in certi momenti, la musica in altri – un’altra scena iconica del film è quando si sente Nique la Police che suona da una finestra – e i vestiti, uno stile che in quegli anni è diventato fondamentale anche per la moda di oggi (basti pensare a marchi come Balenciaga o Vetements) ma soprattutto la rabbia consapevole di questi ragazzi, fa sì che L’odio sia un film che nonostante il passare degli anni rimane, purtroppo, molto attuale.

Oggi, alla luce delle cose che stanno succedendo negli Stati Uniti, c’è la tendenza a credere che si tratti di fenomeni solo americani, dettati dalla violenza della polizia del luogo, dalla ghettizzazione degli afroamericani, dalla storia di un Paese schiavista. La realtà è un’altra, e noi europei non siamo in alcun modo meno responsabili dei sistemi disuguali e violenti su cui si fondano le nostre città. Le storie però sono diverse, certo, e in questo l’Italia ha le sue particolarità. La nostra storia coloniale non è infatti paragonabile a quella francese o inglese, ma viviamo oggi un’immigrazione economica che separa nettamente il nostro mondo da quello di chi arriva: chi viene dalla povertà trova posto solo nell’emarginazione urbana, in lavori sottopagati, nell’umiliazione di essere trattato come feccia dalle forze dell’ordine – il caso recente del rider su Trenord è solo uno dei tantissimi esempi – e preso di mira da politici che usano il razzismo come valvola di sfogo di un popolo frustrato. L’odio è diventato un piccolo capolavoro della cultura street degli anni Novanta, citato e riprodotto da tanti, specialmente nel mondo del rap, che affonda le radici negli stessi contesti e racconta gli stessi disagi – Marracash ha fatto un album intero che cita la frase con cui si apre e si chiude il film, Fino qui tutto bene.

Il razzismo e il classismo dell’Occidente non sono problemi distanti, lontani dalla nostra quotidianità, ma sono il frutto di secoli di errori e politiche improntate sull’idea di una supremazia violenta e spietata. Oggi paghiamo i conti di una mentalità obsoleta e incompatibile con un vero progresso del genere umano, e come dice la citazione cult de L’odio: “Fin qui tutto bene. Il problema non è la caduta ma l’atterraggio”. Che sia arrivato il momento di atterrare e di rovesciare un sistema che non funziona?

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