Come il devastante terremoto dell’Irpinia nel 1980 ha segnato per sempre la mia generazione - THE VISION

C’è una cosa che mi pare distintiva dell’infanzia: quando nasci, prendi il mondo che hai davanti come l’unico possibile, non sai se il posto in cui vivi è diverso dagli altri, credi a ciò che hai davanti come fosse l’unica realtà. Io sono nata nel 1983 a Eboli, provincia di Salerno: se davanti c’è il mare, la spianata dei campi, la mia cittadina di origine si incunea con le sue spalle tra le montagne dell’Appennino campano e lucano – tra l’area di Avellino e quella di Potenza – e fa da porta all’Irpinia, una sorta di confine ricordato di solito grazie a Carlo Levi e al suo “Cristo”, sinonimo di uomo e di civiltà che si ferma. Questo margine dettato dalla geografia – basta dare un’occhiata a Google Maps per vederlo bene ancora oggi e leggerlo nella diramazione delle strade statali e provinciali – era tornato a farsi evidente poco prima che nascessi, precisamente 788 giorni prima, quando Eboli era stata erroneamente indicata dai primi telegiornali come epicentro di un terremoto di cui si sapeva ancora poco: quello che alle 19:34 di domenica 23 novembre del 1980 s’era in realtà irradiato a circa 50 km di distanza, tra i comuni di Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania e che solo nei giorni seguenti iniziò ad assumere contorni più distinti e sempre più disastrosi.

Cavalcando un’area lunga circa 60 km e larga 15, in 90 secondi, non un unico evento ma almeno tre “sub-eventi”, produssero la frattura della crosta terrestre rompendo in successione tre segmenti di faglia adiacenti e squassando ben 8 province – principalmente quelle di Avellino, Salerno e Potenza, ma anche Benevento, Napoli, Caserta, Matera e Foggia – e rivoltando una zona di 27 mila chilometri quadrati, tre volte quella del sisma in Friuli del 1976.  Magnitudo 6.9 della scala Richter, X grado della scala Mercalli, il sisma dell’Irpinia causò, secondo le stime del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, 2.914 morti, 8.848 feriti e circa 280mila senzatetto: dietro questi numeri ci sono altrettante vite, storie interrotte, cambiate per sempre. La catastrofe andò ad aggiungersi a una “dolorosa serie di eventi disastrosi: la strage del Vajont del 1963, l’alluvione di Firenze del 1966, i terremoti del Belice del 1968 e del Friuli del 1976 e – come spiega Valerio Agnesi, Presidente dell’Associazione italiana di geografia fisica e geomorfologia al sito di approfondimento avellinese Orticalab – mise in evidenza la fragilità del territorio italiano, altamente esposto ai rischi geologici naturali e/o indotti”.

Di tutto questo, ovviamente, cosa volete ne sapesse una bambina che, in quel momento, non era neppure in programma? Eppure, in tutto questo io ci sono cresciuta e, come me, tanti altri. Crepe, impalcature, strade smottate o chiuse, vicoli inagibili, palazzi franati, tipici prefabbricati e container di lamiera: la città, nei miei ricordi d’infanzia, è grigia e marrone, proprio come loro. Poi c’è il verde scuro delle campagne nel cui nulla si tiravano su fabbriche e baracche, casette a pannelli, il centro storico crollato da un certo punto in poi, le marce e gli incontri di Italia Nostra per la sua ricostruzione, i palazzoni di edilizia popolare tirati su ai margini del paese, poco lontano dal cimitero, la zona che prese il nome, per tutti, di 167, una legge – quella sulle aree PEEP – che indicava il destino non proprio roseo di chi ci viveva. Tutto ciò ha rappresentato una parte integrante della mia infanzia e dell’adolescenza, quando, in forza di ciò che i miei occhi vedevano ogni giorno, credevo che a popolare l’intero mondo non esistessero che cose simili.

Mentre crescevo, il sisma dell’Ottanta era nel pieno della sua digestione emotiva: pacchetti di foto di quei giorni e dei successivi che, anche quando a colori, sembravano fuori dal tempo; coperte di lana cotta beige e marroni trattate come importanti cimelii – le si chiamava “coperte svizzere”, e prima che capissi che erano una forma fisica dell’aiuto ricevuto, nella mia mente avevano fatto il paio con la cioccolata, perché di svizzero, io, solo quello conoscevo tramite gli amici di famiglia che lì erano emigrati – credevo anche che le roulottes parcheggiate da alcuni zii nel verde della campagna fuori dall’abitato testimoniassero una qualche indole da giramondo; ho ricordi molto nitidi di quella che, nella mia immaginazione infantile, era una bellissima baita come quelle dei cartoni animati e, nella realtà, il container dal tetto spiovente e triangolare in cui vivevano altri parenti, lo stesso identico prototipo utilizzato per gli sfollati del terremoto del Centro Italia del 2016 e del 2017. Due grossi quadri dipinti da mio padre in stile metafisico andante, campeggiavano, infine, in salotto. Il primo presentava porzioni di cielo dal colore diverso e la composizione umana data da un vecchio e un bambino seduti su un cumulo di macerie, e io mi trovavo spesso a utilizzarlo come una sorta di termine di paragone per il tempo fuori dalla finestra. L’altro, invece, raffigurava un gruppo di persone senza volto che, sullo sfondo di un minaccioso skyline metropolitano, provava a tirar su e a mettere in salvo un pezzo di paese antico su cui svettava un campanile martoriato: quel pezzo di torre era lo scenario che vedevo ogni santo giorno da casa di mia nonna.

Nessuno mi ha spiegato niente e io niente ho mai chiesto, ma sono cresciuta sapendo: che non bisogna mai fidarsi del caldo fuori stagione; che quel giorno “non sembrava novembre” – come recita, oggi, il titolo della cinque giorni di eventi in streaming promossi dalla Fondazione Valenzi per commemorare il tragico evento – che, la prima cosa da fare, se hai un dubbio anche lontanissimo, se avverti anche solo uno spostamento d’aria, è guardare il lampadario, mantenere la calma e cercare un muro portante e che i soldi della ricostruzione sono serviti sì per ricostruire, ma cosa, dove, come, perché, in quale maniera, con quale risvolto economico-sociale sulla popolazione è tutto un dire, tutto da definire a distanza di quarant’anni e a parlare di “Irpiniagate”, corruzione, sprechi, tangenti e via dicendo, sembra di dare l’occasione – l’ennesima – a nuove strumentalizzazioni politiche e antichissimi pregiudizi sui meridionali.

Quando ho avuto l’età, ho cominciato a leggere qualsiasi cosa mi capitasse a tiro e che avesse, come argomento, il terremoto. Il materiale alla mia portata era vastissimo, dall’audio della scossa – la cosiddetta, tremenda, “voce del terremoto” – ai giornali dell’epoca, e sistemarlo tutto ora in un solo scritto non sarebbe né giusto né possibile; posso però dire di un libro in particolare, scritto da Ezio Di Carlo, medico di base e sindaco di Balvano, a 61 km da dove sono nata, dal 1980 al 1985: la storia raccontata è quella del piccolo paese in cui morirono quasi tutti i bambini  – ben 66 – perché si trovavano tutti alla messa dedicata ai giovani nella Chiesa di Santa Maria Assunta. Crollò il tetto e la balaustra dell’ingresso, occludendo l’ultima via di scampo e Mario Trufelli – ai tempi caporedattore della redazione giornalistica della Rai di Basilicata – quando arrivò sul posto, trovò genitori a cercare i loro figli tra pietre e calcinacci, ben prima che arrivassero i soccorsi.

Il tema dei ritardi dei soccorsi fu drammaticamente evidente il 25 novembre, quando il Presidente della Repubblica Sandro Pertini fece visita ai territori e ne rese poi pubblico lo stato nel famoso messaggio televisivo del 26: “A distanza di 48 ore, non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari […]. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione dei sepolti vivi […]. Nel 1970, in Parlamento, furono votate leggi riguardanti le calamità naturali: vengo a sapere adesso che non sono stati fatti e attuati i regolamenti di istituzione di queste leggi […]. Qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana”. È del 26 novembre anche il famoso titolo de Il Mattino, quel “Fate Presto” in prima pagina che, inizialmente, era “Fare presto” e che divenne nelle mani di Andy Warhol un’opera d’arte, richiamato poi continuamente per fare paragoni, più o meno ficcanti – dalla crisi economica del 2010 alla crisi pandemica di oggi – per testimoniare che in Italia abbiamo ben chiaro che possono accadere delle sciagure, una specie di coscienza anticipata, ma quando si palesano ci facciamo lo stesso trovare impreparati. Ma il terremoto dell’Irpinia, nella sua tragicità, tra le innumerevoli brutture e le storture del sistema, mostrò anche l’approccio del Paese alle tragedie collettive, per alcuni l’ultima vera occasione di percepire l’unità nazionale e fu alla base della nascita della Protezione Civile, inoltre insegnò ancora una volta il valore della solidarietà nelle emergenze, il tesoro inestimabile che oggi ci appare sempre più episodico e accidentale proprio come le catastrofi che ci troviamo a vivere,  sempre che non venga percepito come deresponsabilizzante per le popolazioni che ricevono aiuto e che, secondo alcuni, dovrebbero cavarsela da sole.

Sandro Pertini

Chi è nato e cresciuto nelle aree colpite dal terremoto del 1980 conosce lo stigma di una ricostruzione in alcuni casi lentissima e, troppo spesso, priva di un mastice abbastanza forte da rinsaldare la società. I nostri paesini si sono sgretolati ben oltre le case e le strade; il post sisma ha polarizzato le singole ed eventuali ricchezze economiche, dato luogo a scenari di corruzione e infiltrazioni camorristiche,  condannato moltissimi ceti all’immobilità, al cinismo o all’emigrazione. E i giovani se ne vanno ancora, in realtà.  Me ne sono andata anche io, che pure la ricostruzione l’ho vista, ne sono stata testimone diretta, vi ho addirittura partecipato attivamente quando, più di vent’anni dopo, fu ripristinato l’orologio della piazza centrale di Eboli aggiungendo uno dei numeri recuperato dalle macerie: quel numero, io, l’ho tenuto tra le mani. Perché, allora, ho la sensazione, ogni volta che torno, che mentre l’orologio prosegue a segnare il tempo, il mio paese, sia fermo? Cosa ne pensano gli altri nati e cresciuti in quell’area come me?

Ho approfittato, per quel poco che si può, della pandemia che ci fa tutti virtuali, per domandarlo: le risposte che ho raccolto sono molte, non posso riportarle tutte, così come non posso trarre, da loro, una morale unica che condanni o assolva qualcuno: sono frammenti, pezzi che però collimano. Chiara, che è nata nell’avellinese nel 1982, racconta che le tracce del terremoto erano ovunque, ricorda prefabbricati che dovevano essere appoggi temporanei e che sono diventati strutture fisse per anni. Annita, invece, nel novembre 1980 c’era, aveva dieci anni e si trovava non in un paesino dell’Irpinia, ma in una città grande, Napoli, dove il terremoto fu “freddo”, difficile da riconoscere e che però rese evidenti tutte le fragilità, le mancanze, le assenze ataviche delle istituzioni, dando vita a condizioni e luoghi che conoscono tutti pur non avendo mai messo piede in Campania: Scampia, ad esempio, è nata allora, è nata così. “Non ricordo se mi spiegarono cosa fosse successo,” dice Annita, “ma mi è rimasta la paura e non andrà mai via, persino ora che vivo a Milano”.

C’è anche qualcos’altro, però, ancora presente in modo forte e chiaro in noi bambini di quegli anni, oggi adulti, e me lo rende evidente Luana, che si occupa di comunicazione politica ed è cresciuta ad Atripalda. A casa sua, mi racconta, “c’erano segni del terremoto in ogni angolo, prima di tutto nei racconti, infine nelle crepe. La sensazione è quella di essere nata con delle mani, delle braccia, una testa e la consapevolezza di quell’evento anche se non c’ero. Qualche mese dopo il terremoto – prosegue – casa divenne una delle scuole del paese: c’erano diverse camere libere, così mio nonno le mise a disposizione del comune. L’idea che la mia camera dei giochi fosse stata una scuola, un posto frequentato da maestre e bambini a cui mia nonna preparava dolci e merende ai tempi mi rendeva quasi gelosa: da bambina non realizzi il dolore. Col tempo, però, cominci a fare tuo anche quello. Ero a Roma, nel periodo dello sciame sismico ad Amatrice, e ho avvertito la sensazione di vuoto dentro di cui mi ha sempre parlato mamma, ma per non turbare nessuno sono rimasta calma e mi sono sentita “complice”, per una volta, “di quelli nati prima”: ero anch’io, ormai, una di loro, a prova del fatto che tramandare la memoria significa scegliere chi saremo domani”.

Già, chi saremo, chi siamo? Dal terremoto dell’Irpinia sono passati 40 anni e tanti, poco più o poco meno, ne abbiamo noi nati proprio lì, proprio allora: inconsapevolmente, come tutti i bambini, siamo stati ciò che cresce e si fa futuro anche quando il passato è distrutto e il presente non dà certezze. La tutela dell’infanzia, all’epoca, non era certo un argomento principe; la didattica a distanza non esisteva quando, ancora negli anni Novanta, abbiamo fatto i turni per andare a scuola mentre gli edifici venivano ristrutturati. E ciò che forse oggi sembra strano è che di tutte le condizioni raccontate fin qui non abbiamo percepito la straordinarietà: era la nostra quotidianità. Forse per questo al ricordo dell’anniversario e di chi quel giorno ha perso la vita, ci intristiamo, ma sentiamo anche l’urgenza di dire, di chiedere: perché le dichiarazioni, i dettagli, le storie di quel giorno che non abbiamo vissuto ma che ha segnato la nostra esistenza, non tengono mai conto di noi, testimoni, che con quella nuova realtà e con le sue problematiche abbiamo dovuto fare i conti? Forse perché rappresentiamo una prova concreta, una traccia, non del sisma, ma di quello che è venuto dopo e che potrebbe essere utile ancora oggi ricordare.

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