Internet non ha distrutto le sottoculture giovanili, ha contribuito a trasformarle

Pigri, privi di valori o interessi e poco votati al sacrificio; sfacciati, maleducati, cresciuti troppo in fretta eppure immaturi. Difficilmente le vecchie generazioni hanno una buona parola per quelle nuove, troppo impegnate a lasciarsi accarezzare da un comodo quanto irreale sentimento di nostalgia per il passato. Le recriminazioni che solitamente vengono fatte ai ragazzi non sono solo di tipo politico o sociale – seppure queste siano certamente le più ipocrite in quanto ignorano, o fingono di ignorare, che le condizioni attuali sono anche frutto delle scelte passate – ma anche culturale. Tra le più frequenti, sicuramente, la colpa di aver “ucciso” le sottoculture giovanili. O meglio, di aver permesso al web di appiattire i loro gusti e le loro pratiche, distruggendo l’individualità (presunta) celata in vecchi fenomeni come la sottocultura punk, skinhead, mods ma anche emo o goth. Paradossalmente, infatti, internet pullula di articoli su come internet abbia distrutto le sottoculture giovanili: “che non esistono più sottoculture musicali è una gran bella verità,” sentenzia qualcuno, “dove sono finite le sottoculture giovanili?”, si chiede qualcun altro. Forse è ora di lasciare da parte questo atteggiamento e iniziare ad analizzare il mondo che ci circonda per come è: una realtà in costante evoluzione che, per essere compresa, ha bisogno di strumenti altrettanto flessibili.

La sociologia si è occupata a lungo di pratiche culturali e stili di vita. Prima della seconda metà del Novecento era più semplice identificare questi fenomeni perché erano legati a una stratificazione sociale fissa e difficilmente un individuo, nel corso della sua vita, riusciva a cambiare la sua condizione. Secondo uno dei padri fondatori della sociologia, Max Weber, per comprendere le pratiche culturali associate ai vari gruppi era fondamentale capire come essi si fossero formati. I luoghi che gli individui frequentavano, i prodotti che acquistavano, il modo in cui parlavano e le opinioni che esprimevano erano influenzate dai tre aspetti della stratificazione sociale: il ceto (in cui le persone confluiscono in base a interessi ideali), la classe (nella quale gli individui sono accumunati da simili possibilità materiali) e infine il gruppo di dominio, che attira le persone spingendole verso forme associative che puntano a controllare il potere sociale. Gli stili di vita per il sociologo erano generati in seno a tutte queste categorie in maniera interconnessa e creavano insieme una comune base d’azione, tramandata in modo verticale di generazione in generazione: persone che appartenevano allo stesso ceto – e quindi a una simile classe e simili gruppi di dominio – tendevano a parlare allo stesso modo, frequentare gli stessi ambienti, comprare lo stesso genere di prodotti, avere simili opinioni. 

In un certo senso è ancora così, ma nel corso del Novecento la trasmissione di questi modelli ha smesso di essere propriamente verticale e rigida, ed è diventata più fluida: il consumo di massa ha reso accessibili anche alle classi subalterne status symbol originariamente appartenenti ai più benestanti, anche se nella loro versione economica. Le masse sono entrate prepotentemente nei processi di partecipazione alla cultura, diventata appunto “di massa”. Di fronte a questa forma totalizzante, alcuni individui hanno sentito la necessità di opporsi, dando inizio a tutte quelle pratiche culturali cosiddette “devianti”. Il fenomeno trova nell’Inghilterra della seconda metà del Novecento la sua culla principale, ed è sempre lì che nascono infatti la branca dei Cultural studies e il Centre for Contemporary Cultural Studies, fondato nel 1964 dallo studioso britannico Richard Hoggart. Come spiega Roberto Pedretti, professore all’Università degli Studi di Milano e ricercatore di studi culturali nel suo libro Dalla lambretta allo skateboard, non potevano che essere i giovani i fautori di questo cambiamento, che per la prima volta emergevano dal punto di vista del riconoscimento sociale, della capacità di spesa, della rivendicazione di una qualche forma di autonomia. E così, ispirati dai modelli dell’adolescente ribelle che avevano visto al cinema, interpretati da Marlon Brando e James Dean, e che avevano letto in libri come The Cartcher in the Rye o Absolute beginners, diedero vita a movimenti di reazione nei confronti del mainstream.

Ma cosa ci dice tutto questo delle sottoculture giovanili oggi? “Una volta le sottoculture nascevano, si sviluppavano, transitavano o morivano per strada, erano immediatamente pubbliche e avevano rapporti col mainstream culturale,” spiega il professor Pedretti. “Oggi siamo di fronte a un paradosso: la facilità della comunicazione ne facilita il mantenimento in una luce crepuscolare, che non la rende completamente pubblica. Siamo immersi h24 in una connessione continua: le sottoculture dovrebbero essere più visibili, eppure non lo sono.” 

È chiaro che, negli ultimi dieci anni, per coloro che sono cresciuti con la possibilità di distinguere per strada, con uno sguardo, l’emo da un metallaro, piuttosto che il tamarro dal raver, sembra difficile oggi fare lo stesso, ma la visione forzatamente romantica di queste sottoculture dei primi del Duemila le inquadra in una luce di autenticità irreale. Persino le sottoculture spettacolari degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta – per quanto abbiano avuto meriti enormi in termini di reazione e contrapposizione ai valori dominanti – avevano attinto dal passato, mescolandosi con esso. È la teoria del bricolage, mutuata dal pensiero di Claude Lévi-Strauss ma anche di Jean-Marie Floch: i nuovi modelli si costruiscono prendendo oggetti, simboli, estetismi e pratiche culturali da modelli precedenti, mutuandoli sul presente e adattandoli, dando loro un nuovo significato. Il punk in questo è stato forse il più geniale in quanto, attraverso lo spirito del do it yourself, ha reso conflittuale il rapporto con il mercato, prendendo ciò che il mercato stesso offriva e facendone una versione tutta sua: fanzine autoprodotte, etichette indipendenti, e poi la moda, che ha avuto un’influenza incredibile in tantissimi prodotti del mainstream successivo – basti pensare a stilisti come Vivienne Westwood. Come spiega Pedretti però, anche i punk erano consci che la loro indipendenza non sarebbe potuta durare in eterno perché, prima o poi, sarebbero stati inglobati da quel mercato che avevano contestato.

Vivienne Westwood

“Il mio parere è che non esiste e non è mai esistita una sottocultura pura,” continua Pedretti. “Bisogna pensare che le sottoculture giovanili nella contemporaneità rappresentano un momento nella vita dell’individuo, che le elabora e le interpreta come meglio crede. Del resto è la stessa forma di partecipazione alle sottoculture che cambia da individuo a individuo: c’è chi aderisce profondamente e vi rimane attaccato anche in età adulta, chi ne entra e ne esce con più facilità, magari aderendo a più sottoculture in una volta”. Il paradigma più evidente della società attuale, ce l’hanno detto in molti, tra filosofi e pensatori, è la fluidità: non esistono più confini netti tra le fasi della vita, gli ambienti che frequentiamo, la nostra stessa identità è diventata mutevole e frammentata. Per questo non possiamo aspettarci di riuscire ad analizzare l’oggi con i rigidi canoni del passato.

Perdipiù, oltre alle rivisitazioni delle vecchie pratiche culturali – pensiamo all’hip-hop, che rimane oggi una delle sottoculture più diffuse e capaci di produrre fenomeni nuovi, come la trap – ne esistono moltissime altre. Alcune non hanno particolare risalto e sembrano sparire nel giro di un secondo, come la vaporwave o lo steampunk, altre invece incarnano una forma di consapevolezza molto più politica e, quindi, sono più duraturi. Pensiamo ad esempio a tutto quel mondo queer o del femminismo radicale: ha una sua simbologia, un suo linguaggio, ideali comuni, luoghi di ritrovo e anche un obiettivo ben definito; lo stesso si può dire del movimento globale per l’ambiente, che riunisce sotto comuni istanze milioni di ragazzi da tutto il mondo.

Nell’Occidente di oggi, infatti, non c’è più bisogno – anzi sarebbe inutile – tentare di scatenare una reazione semplicemente attraverso l’aspetto estetico, che invece era dominante nelle sottoculture spettacolari: sono ormai poche le provocazioni individuali, in termini di canoni estetici, che possono generare il panico morale. Probabilmente non esistono nemmeno più, se pensiamo che abbiamo sdoganato persino l’idea di uscire senza pantaloni. Laddove questo è ancora necessario, infatti, accade costantemente: basti pensare al movimento punk indonesiano che ha un senso fortissimo di reazione nei confronti della sharia e del bigottismo religioso. In altre parti del mondo, come la nostra, la ricerca dell’individuo si è spostata su un altro piano, un piano in cui i canoni estetici o i modelli musicali di riferimento ci sono, ma sono meno rilevanti, meno riconoscibili e più frammentati. 

Quindi piuttosto che pensare che internet abbia distrutto la capacità dei giovani di aggregarsi e creare forme e pratiche culturali, dovremmo chiederci, come suggeriva Stuart Hall, “what’s going on?”: guardare alla realtà nelle sue forme mutevoli e avere il coraggio di superare i nostri stessi paradigmi, che magari potevano funzionare in passato, ma ora non hanno più senso di esistere. Così come tutte le teorie, anche quella sottoculturale classica, per quanto possa essere stata innovativa e illuminante, non può funzionare per sempre. Il fatto che le sottoculture giovanili non esistano più nel modello tradizionale in cui le abbiamo conosciute e studiate, non significa che non esistano in altro modo e altre forme. Esattamente come l’interazione tra individui, su cui la formazione delle pratiche sociali e culturali è basata, è cambiata radicalmente con internet, sono cambiati i suoi prodotti. I ragazzi di oggi non hanno nessun demerito o colpa rispetto a quelli delle generazioni precedenti, anzi, hanno in comune qualcosa di fondamentale: devono rapportarsi con un mondo di “adulti” che li guarda con sospetto e spesso si rifiuta di capirli o ascoltarli. 

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