L’industria musicale è sempre stata dominata dagli uomini. È tempo di cambiare le cose.

Fino a non molto tempo fa, se capitava di guardare un film o di ascoltare un album, non ci si chiedeva quante donne avessero lavorato alla realizzazione di quell’opera. Non si sentiva parlare spesso, per non dire quasi mai, di gender pay gap e non veniva in mente a nessuno di mettersi a spulciare tra i nomi presenti sul retro della copertina dell’ultimo disco delle Spice Girls per vedere quante ragazze fossero accreditate nella composizione di quell’opera pregna di girl power. Eppure, siamo stati abituati per decenni a vedere attrici, cantanti e presentatrici muoversi sul palcoscenico dell’intrattenimento, solo che non ci sembrava poi così importante domandarci se dietro all’ultimo singolo di Britney Spears ci fosse uno stuolo di uomini adulti che indicavano a quella scolaretta con le codine a batuffolo rosa come rosicchiare il tappo della penna. Le cose negli anni sono cambiate, la scala dei valori con cui ci rapportiamo alla realtà ha mutato il suo ordine di priorità e se fino a qualche decennio fa il destino femminile era nella maggior parte dei casi subordinato al volere maschile in quasi tutti i campi lavorativi, oggi le donne possono ritenere – a ragione – di trovarsi sulla strada dell’emancipazione. Soprattutto dal momento in cui l’ineguaglianza di genere è stata finalmente individuata come un problema, e non come uno stato di cose normale.

Britney Spears

Il fatto che il genere femminile si stia lentamente facendo spazio in ambienti lavorativi che prima gli erano quasi totalmente alieni significa che quello che si dava per scontato, ovvero che certi mestieri fossero ad appannaggio esclusivo degli uomini, non è più così scontato: le femmine fanno le maestre, le segretarie, le casalinghe; i maschi gli imprenditori, i politici, i dirigenti. Nel mondo dell’industria musicale, come in molti altri ambienti, questa fila di paletti che determinano chi fa cosa è sempre stata particolarmente fitta, delimitando con precisione quali fossero gli spazi che una donna poteva occupare. È normale poter godere dell’esibizione di artiste, ma non è altrettanto automatico che all’immagine di una pop star femminile corrispondano autrici, manager, compositrici o producer. Si potrebbe controbattere a questo genere di osservazione dicendo che forse, se le donne non fanno questi mestieri, è perché non sono portate, o perché non hanno interesse. Ma il ragionamento più immediato e superficiale, quello che esclude le donne da certi lavori per una mera questione di “attitudine”, non tiene in conto di un fattore sia storico e culturale: il genere femminile non è presente all’interno di certi ambienti lavorativi semplicemente perché per secoli non ha avuto la possibilità di avvicinarsene, ne è stato escluso o ne è stato violentemente respinto. Se il fatto che una ragazza possa iscriversi all’università e intraprendere una carriera di un certo tipo è sempre più la normalità, lo si deve alla diffusione di un principio di emancipazione imprescindibile. Ma anche se le battaglie femministe per i diritti delle donne si fanno avanti da ormai più di un secolo nella nostra società, scardinando sistemi esclusivi e discriminatori, un cambiamento pieno non è ancora stato compiuto, e i dati lo dimostrano.

All’inizio del 2018, all’interno di una serie di studi sulla diversità di genere portati avanti da un think tank della University of Southern California, lAnnenberg Inclusion Initiative, è stato rilasciato un dossier sulla situazione dell’industria musicale americana. Si tratta di un’indagine che analizza seicento brani di musica pop usciti dal 2012 al 2017 e le proporzioni tra la presenza di uomini e donne nella loro realizzazione. Quando si hanno i grafici e le tabelle davanti agli occhi, l’opinione personale che ci si è costruiti basandosi sulla propria percezione viene presa a schiaffi dall’oggettività dei numeri: di tutte le canzoni prese in analisi, solo il 22% è di artiste donne. Ma il gap tra i due generi, molto più che nella presenza di performer di sesso femminile, lo si può constatare all’interno degli studi di registrazione.

Nella produzione di musica pop i numeri sono sbalorditivi, considerato che circa il 96% dei credits risulta essere composto uomini. Le autrici sono il 12%, mentre le producer il 2%. Inoltre, i casi in cui una donna compare tra i nomi come producer si verificano quasi sempre nel momento in cui l’artista è anche compositrice delle sue stesse canzoni, confermando ulteriormente il punto della questione, ovvero che al genere femminile di solito non spetta ricoprire questa posizione, se non in casi specifici, come nel caso delle grandi pop star o delle cantautrici. Inoltre, anche cambiando genere musicale, la situazione rimane uguale, anzi, lo studio riporta che tra tutte le cantautrici donne presenti nella classifica di Billboard dal 2012 al 2017, il 60% è autrice di canzoni pop, il 15% di testi hip hop mentre il 10% di produzioni di musica elettronica o dance.

Si può attribuire all’eredità della storia che ci precede l’incidenza di questi dati, si può giustificare questa disparità adducendone le ragioni a un semplice disinteresse da parte delle donne, si possono trovare tutte le contingenze del caso per spiegarsi un simile dislivello, ma una cosa non si può ignorare – e anche le autrici dello studio ne sono più che convinte: a determinare tanta la quasi esclusività maschile in questo ambiente, come sempre, è il pregiudizio che si porta addosso il cosiddetto “sesso debole”. L’idea che la donna non abbia gli strumenti necessari per poter ricoprire certi ruoli dirigenziali, e dunque la tendenza ad affidarli a persone ritenute più affidabili, non solo è ancora diffusa ma è anche largamente sostenuta.

In Italia non è stato condotto uno studio simile ma si possono prendere come campioni di analisi esempi piuttosto esemplificativi come le line-up dei festival. Succede in tutto il mondo, e diversi lo hanno notato, da Lily Allen al magazine Pitchfork,  che da qualche anno sta tracciando la tendenza per capire se c’è un miglioramento. Non ci vuole chissà quale strumento analitico per rendersi conto che la presenza di donne nei cartelloni è talmente scarsa da sfiorare l’inesistenza. Tanto è tragicomica la situazione che c’è stato chi ha fatto la prova di a cancellare dai cartelloni dei festival italiani i nomi maschili per vedere cosa rimanesse, in certi casi praticamente nulla rimasta vuota.

Lily Allen

Il paradosso di questa realtà è che a frequentare i festival e ad ascoltare la musica ci sono un sacco di donne e ragazze, specialmente per quanto riguarda il genere che in questa fase storica del nostro mercato musicale spopola molto, ovvero l’indie. Escluse alcune eccezioni, come Maria Antonietta, Verano, Mèsa o i gruppi misti come Coma_Cose e Any Other, il panorama artistico di questo genere si mantiene fisso su uno schema preciso: ragazzi che cantano canzoni per ragazze. Ovviamente non sono solo le femmine ad ascoltare l’indie, ma è evidente che il ruolo della donna è più gettonato in forma passiva – come oggetto della canzone e non come soggetto – che attiva. Spostandosi verso altri generi, poi, i risultati di questa disparità possono addirittura dare vita a fenomeni di squallida tifoseria, come è successo alla rapper CRLN, che dopo un episodio di discriminazione pesante e gratuita durante la sua apertura a Gemitaiz si è sfogata con un lungo post in cui racconta la frustrazione di una ragazza lasciata sola davanti a una mandria di invasati misogini.

La situazione è dunque abbastanza sbilanciata verso un presente in cui nell’industria musicale occidentale, compresa quella italiana, il ruolo della donna è quasi sempre marginale, a meno che non si tratti di grandi nomi del pop. Ma la fortuna che abbiamo nell’essere nate in questo momento storico, mettendo da parte altri disastri che colorano la nostra esistenza, è che abbiamo la possibilità di agire. Se vogliamo che fare la producer o la musicista non sia più un’eccezione ma un normale corso di vita che si vuole intraprendere indipendentemente dal proprio genere di appartenenza, dobbiamo farlo. E se si incontrano difficoltà, discriminazioni, favoritismi e sessismo, oggi, abbiamo piano piano sempre più mezzi per denunciarlo. Questo vale non solo per la musica commerciale, ma anche per altri settori: nella musica classica, come ho avuto conferma anche confrontandomi con una donna che conosce bene l’ambiente, il pregiudizio verso le concertiste le limita al ruolo di spalla, che al massimo può raggiungere il suo apice in solista. Mentre l’idea che non possa esistere, per esempio, una grande direttrice d’orchestra o un compositrice importante viene confermata principalmente dal fatto che ce ne siano davvero poche, alimentando sempre lo stesso circolo vizioso per cui se una donna non svolge questo ruolo è perché non lo sa fare.

Nell’ultimo anno, per esempio, anche in Italia è arrivata shesaid.so, una comunità di supporto per donne di cui fanno parte professioniste coinvolte nell’universo musicale, dalle producer alle addette agli uffici stampa. L’obiettivo di questo tipo di organizzazione è proprio quello di abbattere ogni forma di stereotipo di genere che frena le donne nel loro ingresso in questo settore lavorativo, sensibilizzando e garantendo una rete di supporto attiva, reale ed efficace. Esiste poi per esempio anche una campagna supportata dal Creative European program dell’Unione Europea che si chiama Keychange e che ha come obiettivo quello di portare una proporzione di 50:50 tra uomini e donne ai festival musicali entro il 2022. Sembra sempre scontato e retorico mettere in mezzo la questione che “l’unione fa la forza”, ma a conti fatti l’unico supporto su cui possiamo contare è esattamente questo, e le iniziative cominciano a farsi vedere. Non c’è nient’altro da fare se non agire: riempire gli spazi che per centinaia di anni abbiamo lasciato vuoti, senza il timore di non essere all’altezza. Che si tratti di una carriera da artista o da agente di booking, l’unico criterio su cui oggi devono essere valutati la professionalità e la capacità di un individuo è il merito, di certo non il sesso.

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