I nostri genitori non ci hanno insegnato a diventare adulti

Quando si arriva alla soglia dei trent’anni è inevitabile fermarsi, prendere un bel respiro e fare il punto della situazione. Siamo cresciuti con la pretesa che tutto, un giorno, sarebbe stato nostro. È l’eco della formazione disneyana prima, e delle speranze adolescenziali poi. Solo che è sorto un problema: l’adolescenza non è mai finita.

Anche chi è riuscito a ottenere un’indipendenza economica e a vivere da solo – sì, esiste chi ce l’ha fatta – è attanagliato da una rogna che accomuna un’intera generazione: essere intrappolato nello status di “figlio”.

I nostri genitori hanno assorbito gli insegnamenti dei nostri nonni, ovvero coloro che hanno ricostruito l’Italia dopo la guerra, annaspando tra le macerie e poi godendosi il boom economico. Il rapporto genitori-figli era all’epoca basato su una prospettiva concreta, ovvero il concetto di “sistemarsi”. Senza girarci intorno: equivaleva a trovare il posto fisso.

Un ritratto efficace di quelle dinamiche è rappresentato dal meraviglioso Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, del 1977, tratto dal romanzo di Vincenzo Cerami. Probabilmente la prova attoriale più struggente di Alberto Sordi, che interpreta un padre intento a inserire il figlio nel mondo del lavoro. Le prova tutte, cercando appoggi persino nell’universo massonico. La vicenda sfocia poi nella tragedia, spostandosi verso altre tematiche. Oggi, nell’era del precariato, il posto fisso più che una chimera è diventato il simulacro di un tempo che non esiste più e un genitore non può fare niente per il figlio, se non tentare di recidere quel cordone ombelicale che ancora lo tiene prigioniero.

Un borghese piccolo piccolo, 1977

Nel film L’amico di famiglia di Sorrentino, al bizzarro e spietato usuraio Geremia, un sessantenne che vive ancora con la madre, viene posta questa domanda: “Come si diventa disperati come te?” La sua risposta è lapidaria: “Trascorrendo un’infanzia felice.”

L’amico di famiglia, 2006

Il problema dei giovani d’oggi può anche risiedere in questo: dopo anni sotto l’ala protettrice della famiglia, che più che preparare il figlio alla strada ha preparato la strada al figlio, si trovano sperduti in un mondo che non conoscono, fatto di responsabilità da cui preferirebbero scappare. E quale modo migliore, se non continuare a rifugiarsi sotto quell’ala. Secondo l’Istat, 7 under35 su 10 vivono ancora con i genitori. Sempre in quella fascia d’età, i matrimoni sono diminuiti del 24% in soli cinque anni; il calo coinvolge anche le nascite: negli ultimi dieci anni sono diminuite di quasi 100mila unità. Certamente un trentenne fatica a potersi permettere un matrimonio, una casa e dei figli. La disoccupazione giovanile è una piaga del nostro tempo, ma non rappresenta l’unico motivo di una crescita a rilento, del continuo aggrapparsi a un’adolescenza ormai perduta.

La visione patriarcale del Novecento – uomo che lavora, donna che sforna figli e diventa l’angelo del focolare – si è sgretolata con il passare degli anni e l’evolversi della società. Eppure l’emancipazione dei figli non è andata di pari passo con quella femminile. La tendenza del nuovo millennio è quella di protrarre ad libitum l’adolescenza. In questo processo l’università ha avuto un ruolo fondamentale. Nel 1970 soltanto il 12% dei giovani era iscritto in un ateneo, si tentava subito la strada del lavoro. Quattro decenni dopo, gli iscritti all’università hanno superato il 40%, e nella maggior parte dei casi i genitori continuano a mantenere i figli (tasse universitarie, affitto, bollette, spese varie). Poi i tempi si allungano ulteriormente: in Italia, in media, per completare la triennale uno studente impiega cinque anni. Aggiungiamo la specialistica e notiamo come sia difficile terminare gli studi prima dei 27-28 anni. Questo periodo assomiglia pericolosamente a un prolungamento del liceo, nonostante i sacrifici e i tentativi di indipendenza.

I nostri genitori rappresentano la generazione privilegiata: non hanno vissuto la guerra e la povertà dei loro padri, e hanno schivato la nostra lotta al precariato. L’errore in cui sono incappati è stato quello di proteggere eccessivamente i figli. In questo modo è nata in noi una ritrosia nell’affrontare le difficoltà della vita: di fronte alle scelte da prendere è entrata in gioco la procrastinazione, la consapevolezza di poter contare sui genitori sempre e comunque, in uno svezzamento infinito.

È difficile intuire il momento esatto in cui oggi si smette di essere figli. Probabilmente quando si diventa genitori, o addirittura quando i ruoli si invertono, e tocca a noi prenderci cura dei nostri padri e delle nostre madri. Arriva un momento in cui occorre abbandonare la campana di vetro che ci hanno costruito attorno per affrontare il mondo. Un mondo fatto su misura della loro generazione, non della nostra. La principale eredità che c’hanno lasciato è proprio quella di essere figli per sempre.

C’è chi riduce il tutto alla sindrome di Peter Pan: il rifiuto della crescita, la continua ricerca dei riverberi dell’infanzia. Questo è determinato dall’educazione imposta dai genitori che, per espiare l’autoritarismo che hanno subito nella loro epoca, hanno assunto un modello permissivo e autoreferenziale. Il loro tentativo di metterci al riparo dalle frustrazioni del mondo, creando un nucleo familiare figliocentrico, ha generato un esercito di figli spaesati.

Holly Schiffrin, della University of Mary Washington, ha condotto uno studio sull’ansia dei figli correlata al ruolo di quelli che lei definisce “genitori elicottero”, ovvero quelli che analizzano morbosamente ogni passo dei figli, senza lasciarli liberi di sbagliare e di prendere le proprie decisioni. Secondo la Schiffrin vi è un eccesso di coinvolgimento dei genitori che crea una generazione di giovani deboli, incapaci di affrontare le difficoltà della vita.

Molto lucida l’analisi di Michele Serra, che nel suo bestseller Gli sdraiati parla del microcosmo dei figli attraverso lo sguardo di un padre che osserva una generazione allo sbando, interrogandosi sulle proprie responsabilità. A cominciare dal silenzio dei padri di fronte ai figli stesi sul divano, in un’epoca in cui i vecchi lavorano e i giovani ronfano. Serra non si assolve, e non assolve la sua generazione, semmai rimarca i confini che si stanno sempre più assottigliando tra genitori e figli, i ruoli che hanno mutato la propria forma.

Michele-Serra
Michele Serra

Non siamo pronti a emergere. Anche se lavoriamo, facciamo sacrifici e lottiamo per la nostra indipendenza, un filo invisibile ci lega ai nostri genitori. Mentre noi sgomitiamo per crescere, loro stanno attuando il percorso inverso: fanno di tutto per ritrovare la giovinezza perduta, per avvicinarsi a noi. Sono su Facebook, e anche lì ci controllano, tentano di ostacolare l’invecchiamento fisico in ogni modo, per preservare la loro immagine ai nostri occhi e fermare il tempo. Noi resteremo sempre figli, e loro sempre giovani. Non lo fanno in malafede, la loro protezione nei nostri confronti è autentica, sincera. Gli effetti controproducenti dipendono anche dal modo in cui noi ci sediamo sugli allori perché tanto siamo ancora sotto la loro ala, non dobbiamo temere nulla. Abbiamo trent’anni, e non siamo mai cresciuti veramente. Non lo vogliamo noi, e non lo vogliono i nostri genitori.

Continueremo ad andare ai matrimoni degli altri, a conoscere i figli degli amici e non i nostri, a lottare per un’indipendenza che non auspichiamo fino in fondo. Non fino a quando saremo figli.

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