Franco Battiato ha rivoluzionato la musica pop italiana. E oggi non ha ancora eguali.

Non ho mai capito bene cosa spinga una persona a provare per i propri idoli – musicali, cinematografici, intellettuali – quella sorta di reverenza fanatica che ti porta a fare ore di fila per una foto concessa in modo distratto da qualcuno che non saprà mai nemmeno il tuo nome. O meglio, capisco quali siano le dinamiche che si attivano in queste forme di idolatria estreme: anche io ho avuto il poster del mio cantante preferito appeso sopra il letto a mo’ di santino, ma non mi sarei mai sognata di farne una vera e propria religione. Per una forma di contrapposizione anche piuttosto banale, mi sono sempre tenuta lontana dal rischio di poter incappare in un sentimento simile, magari liquidando con superficialità cantanti e musicisti che venivano definiti come una sorta di divinità fatta persona. Nella mia esperienza personale però, quando sono riuscita ad andare oltre questo spirito da bastian contraria spesso me ne sono pentita. Nel caso di un artista come Franco Battiato – che in quasi cinquant’anni di carriera si è guadagnato il titolo volutamente reverenziale di “maestro”, oltre che una schiera compatta e agguerrita di sostenitori che darebbero un braccio per potersi anche solo avvicinare a lui – ricredersi sulla propria indifferenza adolescenziale mi ha consentito di comprendere la portata della sua rivoluzione musicale. Non si tratta infatti solo di uno dei tanti idoli delle folle che riempiono i palazzetti, ma di un fenomeno culturale che prima o poi nella propria vita se si è anche solo un minimo interessati alla musica bisogna conoscere, e per un motivo ben preciso. Nessuno come lui in Italia è riuscito nell’impresa di creare una commistione di registri – musicali, linguistici, estetici – così ben amalgamata da annullare le distanza formale tra ciò che definiremmo “alto” e ciò che invece, come nel caso del pop, siamo soliti definire “basso”, o più semplicemente commerciale. E non è un caso che uno dei festival italiani più interessanti, lOrtigia Sound System Festival (Ortigia, 24-28 luglio), che ha proprio l’obiettivo e l’ambizione di ricercare questa commistione di registri – si ispiri quest’anno al lavoro dell’artista siciliano. 

Per avere un resoconto esaustivo di tutto ciò che comprende la musica di Franco Battiato, dai suoi riferimenti spirituali a quelli musicali, estetici, stilistici, ci sono quintali di testi molto approfonditi a riguardo. Un punto che invece si può analizzare senza per forza spingersi in apologie e sviolinate varie che, sebbene siano legittime, rischiano di trasformare la storia di un artista in una agiografia stucchevole –  è quello che riguarda gli anni del cambiamento, del passaggio da un’epoca di sperimentazione a un’altra ben diversa. Dall’inizio degli anni Ottanta in poi, infatti, le produzioni di Battiato – che già dagli anni Sessanta lavorava a Milano come musicista e compositore, dopo aver lasciato la Sicilia a diciannove anni – fanno uno di quei famosi grandi balzi in avanti, e non serve essere grandi critici o conoscitori della materia per rendersene conto. Basta infatti prendere l’album della svolta, La voce del padrone, e ascoltare con un po’ di attenzione ognuna delle sette tracce per rendersi conto da soli di quanto nel 1981 questo disco fosse una sterzata all’idea di pop che mai più è stata replicata da altri artisti italiani, perlomeno non con quella intensità. 

Fino a quel momento infatti, Battiato aveva lavorato su diversi progetti sperimentali, oltre che come autore di canzonette anni Sessanta che non avevano granché di diverso da una qualsiasi hit di Celentano. Fetus, ad esempio, il suo primo 33 giri pubblicato nel 1972, che già solo con la sua copertina avrebbe avuto un impatto piuttosto dirompente – c’è stampata sopra la foto di un feto, non esattamente una mossa di marketing adatta al grande mercato discografico – è anche un mix di atmosfere elettroniche e acustiche, e contiene in nuce alcuni elementi che saranno poi alla base della poetica di Battiato, come i riferimenti testuali, ma in chiave molto più oscura e psichedelica. Dopo Fetus è il turno di Pollution, un album che vira sul progressive rock, ma sono anche gli anni in cui il cantante assorbe nuove lezioni e spunti da personaggi fondamentali per la sua carriera, come Karlheinz Stockhausen. La sperimentazione continua: Sulle corde di Aries, Clic, M.elle Le Gladiator, Juke Box, Franco Battiato, L’Egitto prima delle sabbie sono tutti album che precedono il momento della svolta commerciale. Nel 1979 però esce L’era del cinghiale bianco, che oltre a venire pubblicato da una major – la Emi – contiene il singolo che prende il nome dall’album, primo vero brano da classifica pop. Dopo Patriots, uscito l’anno successivo, in cui si trova un’altra delle sue canzoni più famose ovvero Prospettiva Nevski, arriva il 1981 e con questo anno anche il vero e proprio punto di svolta: La voce del padrone. Esce sempre per Emi e fa un ingresso abbastanza timido nel mercato musicale italiano, ma dopo pochi mesi Battiato passa dall’essere un musicista sperimentatore confinato all’underground e alla nicchia a essere la colonna sonora dell’estate italiana, nonché re della classifica. Il disco infatti batte i record e vende un milione di copie con diciotto settimane non consecutive di prima posizione tra la primavera e l’autunno del 1982. La domanda a questo punto è inevitabile: come ha fatto a passare dalle copertine con i feti al dominio delle radio?

La risposta, ovviamente, non è una sola. Il connubio miracoloso che porta Battiato a dominare le classifiche e a fare ballare la gente con citazioni di Theodor Adorno è una commistione sapiente di ingredienti che fino a quel momento erano stati tenuti ben separati e alla larga l’uno dall’altro. Fino a quel punto c’erano due scompartimenti precisi e distinti: da un lato la musica colta, dall’altro la musica pop. Pensare di mettere insieme alto e basso era come dire di bere il caffè con il limone, ma gli anni Ottanta erano arrivati, e con loro il postmodernismo, la crisi dei valori Occidentali, l’accatastarsi di immagini e riferimenti culturali che si mescolano in modo inevitabile. Battiato arriva proprio all’alba di questa nuova fase della contemporaneità e decide di dare forma a qualcosa che fino a quel punto non si era mai visto, anche soprattutto grazie all’aiuto prezioso del suo maestro di violino, Giusto Pio, che collabora agli arrangiamenti del disco. La musica pop diventa un’arte, non solo intrattenimento, e già dalla copertina si ha chiaro il significato di questa unione di mondi lontani messi in comunicazione. Di solito sui dischi pop era obbligatorio mettere la faccia del cantante: Battiato usa una foto di sé ma la stravolge, mischia palme a pezzi di volta celeste, sbatte in faccia a tutti il suo stile, che più che eccentrico sarebbe quasi da definire nerd ante litteram. Calzettoni, occhiali da sole, una nuvola di capelli arruffati, un viso da illustrazione bizantina, e poi quella voce flebile e pacata che diventa riconoscibile all’istante. 

Se già dalla copertina si intuisce la portata rivoluzionaria dell’album, è nelle tracce che si trova la conferma di questo sospetto: Battiato ha rischiato e ha fatto tombola. Musica classica – gli archi di Giusto Pio, i cori lirici compresi i falsetti di Giuni Russo – elettronica, punk e pop si uniscono per un risultato che potrebbe essere o un’accozzaglia di roba indigeribile o una combinazione benedetta. La seconda opzione prevale sulla prima grazie a un lavoro di bilanciamento ed equilibrio tra elementi totalmente estranei al pop, come per esempio nella sezione ritmica. In brani come Cuccuruccuccù, Summer on a solitary beach e Centro di gravità permanente, Battiato dà forma a questa commistione di tempi terziari e binari, dando la possibilità a strutture complesse di diventare perfettamente comprensibili anche alle orecchie profane di chi non ascolta musica dodecafonica. C’è la batteria dritta, un po’ punk, che tiene sempre alto il tempo e la velocità che si combina a suoni sintetici che il cantante crea con sintetizzatori come il Roland 808, mentre il suono della voce prende pieghe oniriche in anni in cui ancora non esisteva nemmeno l’autotune, e il basso sotto che martella senza sosta. I cori lirici che doppiano i ritornelli e le strofe creano un effetto insolito, dal momento che non siamo abituati a sentire quel tipo di canto per riprodurre pezzi di brani come “C’mon baby let’s twist again”. 

Centro di gravità permanente

A essere unico in La voce del padrone non è solo l’arrangiamento, che già di per sé vale come marchio di fabbrica per un album capolavoro, con un’idea di musica che quasi definirei totale, una sperimentazione che non si confina ai margini dell’esoterismo ma attinge a piene mani da tutto ciò di cui è fatto il presente. I testi di Battiato sono forse l’elemento che subito viene in mente quando si pensa al cantautore siciliano, specialmente quando si vuole sottolineare la sua apparente insensatezza e sconclusionatezza per via delle “parole difficili” e dei concetti messi l’uno accanto all’altro senza un senso visibile a primo sguardo. In realtà, mi sembra quasi superfluo sottolinearlo, il senso c’è eccome, e non è solo uno. Il primo aspetto che si può notare nei testi di Battiato è ovviamente quello legato al citazionismo di cui fa uso abbondante, da Alan Sorrenti – “Siamo figli delle stelle pronipoti di sua maestà il denaro” – che si combina con una critica al consumismo, dalla famosa “Bandiera Bianca” di Arnaldo Fusinato, all’Iliade, a Nicola Di Bari; dal mistico Georges Gurdjigeff ai Beatles, Bob Dylan, Mina. Questa operazione linguistica di commistioni sotto forma di pastiche letterario, musicale, poetico è esattamente l’essenza di un modo di comunicare che oggi è diventato parte integrante della nostra quotidianità. Al di là della questione dei riferimenti alti e bassi, oggi viviamo in un mondo che ci ha immersi in immagini, simboli, icone, tutto è segno e tutto è testo e noi non facciamo altro che attingere a questi bacini di riferimenti, specialmente su internet. Anche solo usare una gif vuol dire usufruire di un riferimento semantico condiviso: allo stesso modo i testi di Battiato ci rimandano in continuazione a questa operazione di ripescaggio, creando anche una connessione tra chi canta e chi ascolta, come un legame idiosincratico. Tanto forte è il risultato di questa operazione che ogni frase di una canzone di Battiato verrebbe voglia di usarla come didascalia di una foto per Instagram, come biografia su Facebook: “C’è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero” se fosse stata scritta nel 2019 avrebbe milioni di retweet. Nel video di Bandiera Bianca, ad esempio, Battiato fa un vero e proprio facepalm, mentre la pratica di mescolare inglese e italiano è diventata un’usanza tipica di internet e di certi meme. La lingua di questo cantante, in sostanza, non è altro che un’anticipazione di tutti i modi in cui ce ne saremmo serviti nei decenni a seguire, in questa accozzaglia postmoderna di simboli e riferimenti in cui sguazziamo ormai da anni e di cui alcuni artisti, come Battiato, hanno saputo fare tesoro. 

Tutto ciò che è stato Franco Battiato dopo l’uscita di questo album è storia della nostra musica. Lo stile è cambiato, le sperimentazioni sono tornate, altre canzoni che rimarranno per sempre nel nostro patrimonio culturale sono ormai una pietra miliare – basti pensare alla scena di Palombella Rossa in cui Moretti canta E ti vengo a cercare per averne un’idea – e nel frattempo “il maestro” si è dedicato al cinema, alla pittura, all’editoria e a qualsiasi altra cosa possa nutrire l’estro di una persona tanto curiosa da essersi spinta oltre certi limiti. L’idolatria di Franco Battiato è un fenomeno che comprendo, nonostante magari in certi soggetti superi i limiti della ragione – per esempio mi raccontò una volta che c’era gente che pagava per entrare nella sua stanza d’albergo e fissarlo mentre dormiva. Non esistono divinità scese in terra, e non smetterò di provare diffidenza verso chi usa espressioni come “Mostro Sacro”. Ma una cosa devo riconoscerla: Franco Battiato ha veramente dato una svolta alla nostra musica, sciogliendo una questione che attanaglia tutti gli intellettuali e i più grandi pensatori di sempre. La voce del padrone ci fa capire dopo quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione che non esistono arte alta e arte bassa, ma solo opere d’arte belle e opere d’arte brutte. La materia di cui sono fatte è secondaria, il risultato globale è l’unica prova che ci serve. Quante altre canzoni sono riuscite allo stesso tempo a fare ballare nostra madre adolescente e a scucire parole di lusinga a un critico musicale snob?

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