Come la teoria queer ha cambiato il femminismo

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Dopo la grande stagione degli anni Settanta, nel 1978 qualcosa si spezza nel movimento delle donne. La conquista della legge 194 sulla depenalizzazione dell’aborto da un lato e l’omicidio Moro dall’altro rompono gli equilibri della società italiana. Il femminismo, in particolare, che in Italia era frammentato in numerosi e piccoli gruppi sparsi per il Paese, si scopre incapace di organizzare quelle manifestazioni di massa che avevano reso grandi gli anni Settanta. Negli anni Ottanta, il femminismo cerca così altre strade. Una è quella del cosiddetto “femminismo culturale”: nascono le librerie delle donne, centri di documentazione storica e di ricerca, comunità filosofiche come la celebre Diotima dell’Università di Verona e la Società italiana delle storiche. Accanto a queste istituzioni più culturali, si diffondono in tutto il Paese anche i centri antiviolenza e le Case per le donne.

A livello globale, soprattutto nei Paesi anglofoni, il femminismo entra nelle università: negli Stati Uniti si aprono i primi dipartimenti di women’s studies o gender studies. Queste facoltà, spesso dal carattere interdisciplinare, rispondono a un’esigenza inedita, ovvero quella di includere nel sapere filosofico anche il nuovo “soggetto imprevisto”, le donne. Questo processo avviene contemporaneamente con la crisi del “soggetto” così come teorizzata dalla filosofia postmoderna. Si cominciano così a includere tutte quelle soggettività che il femminismo degli anni Settanta non era riuscito a includere, ad esempio il femminismo lesbico e quello nero e afroamericano. Grazie all’apporto di queste discipline, il femminismo bianco comincia a mettere in discussione il dogma della differenza sessuale come unico discrimine tra i sessi.

Negli anni Novanta si fanno strada alcune teorie molto importanti, come quella del cyborg di Donna Haraway – l’ibrido tra macchina e uomo in grado di superare ogni dualismo, compreso quello di genere – e, soprattutto quella queer, introdotta dalla studiosa italiana Teresa de Lauretis, docente di Storia della coscienza presso l’Università della California Santa Cruz. Il termine “queer” indica il rifiuto del riferimento all’eterosessualità come termine di paragone per tutte le forme di sessualità e nega la rappresentazione della sessualità gay e lesbica come se fossero un’unica forma. I queer studies si basano quindi sull’idea che l’identità non sia qualcosa di fisso, di naturale o di immutabile, ma che le identità siano tante quanto gli individui che le incarnano. Un altro contributo fondamentale è stato quello di Judith Butler, che nel suo libro più celebre Gender Troubles spiega che il genere non è legato alla biologia, ma è la ripetizione di norme o l’incarnazione di un ruolo che siamo continuamente costretti a interpretare. In questo senso, per Butler il genere è una performance.

Il femminismo, insomma, è molto cambiato rispetto a dieci, quindici, vent’anni prima. È più complesso, più frammentato ma non per questo più escludente. Anzi, negli anni Ottanta e Novanta è riuscito ad abbracciare più soggettività che negli anni precedenti erano state escluse. In questi decenni il femminismo si apre al respiro intersezionale.

Foto copertina di Luisa Festa (Archivio delle memorie delle donne di Napoli)

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