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Manual de

Dia de Muertos

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Il Día de Muertos è la meravigliosa festa messicana che celebra la morte come inno alla vita

DI MANUEL SANTANGELO

Poche altre nazioni possono vantare un calendario congestionato di feste come quello dei messicani. Alcune sono molto particolari e uniche nel loro genere, come la Fiesta del Grito​, che si celebra ogni 15 settembre e che fa riversare nelle piazze del Messico migliaia di persone, pronte a urlare all’unisono allo scoccare delle undici di sera per ricordare l’atto che diede inizio alla guerra d’indipendenza. Come fa però notare lo scrittore premio Nobel messicano Octavio Paz, “Da noi la festa è un'esplosione, un botto. La morte e la vita, la gioia e il lamento, il canto e l'urlo si uniscono nelle nostre celebrazioni, non per ricreare o riconoscerci, ma per divorarci a vicenda. Non c'è niente di più gioioso di una festa messicana, ma non c'è nemmeno niente di più triste”. Proprio per questo motivo forse di tutte le tante festività la più sentita del Paese rimane il ​Día de Muertos che, sebbene non si festeggi solo sul territorio nazionale, rimane quella che meglio rappresenta la continua comunità degli opposti su cui si fonda l’identità messicana.

Il ​Día de Muertos nacque grazie a civiltà antiche come Aztechi e Toltechi, unite nel considerare irrispettoso portare il lutto per un trapassato. Uno dei più grandi pensatori di epoca preispanica, il monarca della città-stato di Texcoco Nezahualcóyotl, ​rappresentò il rapporto speciale che già allora si aveva con la morte in alcune poesie: nei suoi versi, già allora, si riconosceva come l’inizio e la fine dell’esistenza avessero un legame indissolubile per quelle popolazioni.

Per tali culture la morte era parte del percorso della vita e viceversa, motivo per cui morire non significava scomparire: si era ancora membri della società e si ritornava sulla Terra proprio in occasione del “​día”​ in cui si veniva celebrati. Come ​evidenzia sempre Paz, “La morte non era la fine naturale della vita ma piuttosto una parte di un ciclo infinito. La vita, la morte e la risurrezione erano le fasi di un processo cosmico, che si ripeteva insaziabilmente. La vita non aveva funzione più nobile che condurre alla morte, suo contrario e suo complemento; e la morte, a sua volta, non era fine a se stessa; l'uomo con la sua morte nutriva la voracità della vita, sempre insoddisfatta”. In questa idea si esplicita forse la differenza sostanziale che esiste tra il ​ Día de Muertos e​ una festività con cui fuori dal Messico viene spesso confusa: Halloween. Mentre quest’ultima trasmette la paura del passare a miglior vita, attraverso scherzi e travestimenti paurosi, nella festa latina la morte viene accolta con manifestazioni di gioia e senza timori o ansie.

Il ​Día de Muertos c​he si celebra oggi non è comunque lo stesso che trovavaposto nel calendario azteco. A cambiare sono state la data della festa, che in origine era prevista per l’inizio di agosto, e la durata delle celebrazioni, che si protraevano anche per diverse settimane. All’epoca la festa era dedicata a ​Mictecacihuatl​, dea del regno ultraterreno che veniva chiamato ​ Mictlan, e sopravvisse nella sua forma iniziale fino al Sedicesimo secolo. Furono gli spagnoli a trasformarla gradualmente, facendo combaciare la ricorrenza con il giorno dei morti cattolico e condensando ogni celebrazione nelle prime due giornate di novembre.

Nel 1943, lo scrittore messicano José Revueltas scrisse ​El luto humano​. In questo romanzo​, attraverso la storia di una famiglia che piange la scomparsa della figlia, Revueltas criticava il cattolicesimo per la sua visione negativa del lutto. Va però ricordato come entrambe le visioni, sia quella cristiana che quella mesoamericana, abbiano qualcosa in comune: la vita, infatti, rimane in entrambi i casi aperta alla prospettiva di una morte che sia a sua volta una nuova vita. La differenza sta tutta nella natura del luogo dove si continuerà la propria esistenza: l’oltretomba di popoli come quello azteco non si divide in inferno, purgatorio e paradiso, perché dopo la morte non esiste punizione o premio da elargire altrove. Per queste popolazioni, le direzioni in cui potevano dirigersi i trapassati ​dipendevano solo dal modo in cui avevano lasciato il mondo dei vivi: nell’​Omeyocan ​trovavano posto per esempio solo i morti in combattimento, mentre il Mictlan vero e proprio ospitava le morti naturali e il ​Chichihuacuauhco era il limbo in cui si trovavano le vittime di una morte in giovanissima età e in attesa di resurrezione.

OFRENDA

Non essendoci giudizio per quanto fatto in vita dopo la morte, era più facile per i popoli preispanici non vedere il trapasso come una condanna da affrontare il più tardi possibile. Nonostante l’influenza cattolica, col passare dei secoli questa visione della morte è comunque sopravvissuta nell’indole di chi è nato e cresciuto in certi luoghi e ne ha conservato le radici culturali. Lo psicologo messicano Gustavo Novelo spiega come lui e i suoi connazionali, proprio in virtù di queste radici, siano “portati a burlarci della morte: la abbelliamo e la celebriamo ancora oggi per renderla quotidiana e amabile, togliendoci così la paura di morire.” Proprio per questo motivo, André Bretón ​diceva che la morte come oggetto di uso quotidiano tra i messicani era stata portata “in tutte le aree, dal picaresco al surreale” e diversi elementi simbolo dell’iconografia del ​ Día de Muertos l​o certificano. Basti pensare all’​ofrenda​,la porta tra la vita e la morte, che è l’​altare centro di tutte le celebrazioni che viene posto nelle case, nei cimiteri e persino nelle piazze, ricolmo di foto, fiori, cibo, candele e teschi coloratissimi.

Le calaveras sono gli elementi più legati alla festività, anche perché rappresentano il perfetto tramite tra la vita e la morte. Nella tradizione li troviamo per esempio nei papado picado, s​trati di carta gialla o viola ritagliati a forma di scheletro che rappresentano l’essere costantemente a metà tra l’esistenza terrena e quella ultraterrena. Il teschio è anche uno dei simboli più recenti e amati della festività, la Catrina, maschera nata attorno al 1910 nei disegni dell’illustratore messicano José Guadalupe Posada. Il suo successo internazionale si deve però al pittore Diego Rivera, che inserì Posada assieme alla sua creazione nel ​quadro del 1947, ​Sogno di una domenica pomeriggio nel parco di Alameda​. La ​ Catrina era stata chiamata inizialmente “​Calavera Garbancera​” (teschio “​garbacero​”) con riferimento alle “​garbaceras​”, ovvero quelle donne che fingevano di essere europee rinnegando la propria cultura. Il personaggio rappresenta appunto una ​calavera vestita come una donna di classe alta nella Parigi di inizio Novecento. La ​ Catrina è oggi uno dei travestimenti più amati del Día de Muertos ma rappresenta anche un monito a non trasformare eccessivamente la festa, facendole perdere le sue radici: un rischio che pure il solito Octavio Paz aveva sottolineato a suo tempo.

CATRINA

La Catrina è un teschio, il simbolo per eccellenza della festa e l’esempio più efficace per far capire quanto nel ​Día de Muertos si giochi non solo con le immagini ma anche con le parole. "​La pelona​", "​la buesuda"​ o "​la calaca​” sono solo ​alcune delle varianti ironiche della parola spagnola "calavera"​. A farlo notare è l’artista messicana Betsabé Romero che ricorda come i giochi di parole siano una parte ​fondamentale della festa. Forse proprio per questo, tanti grandi poeti messicani hanno usato la loro abilità con le parole per riflettere sulla morte in maniera non banale: se per José Gorostiza la vita ​era una “morte senza fine”, per il suo collega Xavier Villaurrutia l’esistenza intera andava ​vista come una “nostalgia della morte”: perché è da essa che possiamo rinascere e non viceversa.

Oggi il ​Día de Muertos ​è riconosciuto come patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco e l’iconografia di questa celebrazione ha ispirato persino capolavori del mondo dei videogiochi come ​Grim Fandango o del cinema d’animazione come il recente ​film Pixar ​Coco.​ Anche l’​epilogo dell’opera del grande regista sovietico Sergej Ėjzenštejn, incentrata sul Messico e rimasta incompiuta, consiste in una serie di riprese dei festeggiamenti del ​Día de Muertos​. Difficile immaginare un miglior finale per una pellicola che si intitola ¡Que Viva México! e che mostra quanto, perché il Paese viva, debba prima passare attraverso la celebrazione della morte: se sono molte le culture che per tradizione ricordano i propri defunti con specifiche ricorrenze, nessuna lo fa infatti con la stessa forza del ​ Día de Muertos messicano.

Questa ricorrenza è diventata ormai un unicum nella storia e la sua anima popolare va preservata: il​ Día de Muertos h​a un significato profondo e ci ricorda non solo il rispetto e la “normalità” dell’evento luttuoso, ma anche l’importanza di chi è venuto prima di noi.

Sono molte le culture a ricordare i propri defunti, ma nessuna lo fa con la stessa pregnanza del Día de Muertos messicano. Festa antichissima di origine azteca, il Día de Muertos fonde la cultura mesoamericana con quella cattolica, diventando una celebrazione della vita dei defunti, che si crede possano tornare per consigliare e aiutare i vivi con la loro saggezza e il loro esempio. Ne parliamo su The Vision grazie al supporto di Espolòn Tequila, brand che si è fatto interprete e messaggero di questo immaginario, in virtù delle sue origini messicane e del forte legame con il territorio. Prodotto artigianalmente con il 100% di Agave Blu, il tequila Espolòn nasce nel 1998 nella distilleria messicana San Nicolas. Fu fondata da Don Raul Plascencia in memoria del nonno, che dal secolo precedente sognava di produrre questo distillato nato all'epoca dei Conquistadores spagnoli e divenuto prodotto nazionale messicano dopo l'indipendenza dalla Spagna ottenuta nel 1821. Come nei festeggiamenti del Día de Muertos, anche per Espolòn Tequila il legame con i propri avi e la propria storia è fondamentale, e viene celebrato dalla sua fondazione all'etichetta.

Come La Catrina da simbolo della rivoluzione è diventata simbolo del Messico

DI JENNIFER GUERRA

Nel 1885, una ragazza americana di 21 anni viaggiava da sola in Messico, prendendo appunti. Osservava e annotava la vita dei messicani, strana agli occhi di una giovane donna di Pittsburgh, le loro usanze, i matrimoni colorati, l’uso smodato di tabacco, la passione per la lotteria, gli effetti del mescal, il distillato amato dai tantissimi soldati rientrati dai conflitti che il Messico aveva affrontato negli ultimi decenni. Questa ragazza era una giornalista, Nellie Bly, che lavorava come reporter per il quotidiano del North Carolina The Dispatch. Stanca di scrivere solo di moda e pettegolezzi, aveva chiesto al direttore un posto come corrispondente nel Paese contro cui gli Stati Uniti avevano appena combattuto una guerra durissima quanto vittoriosa: il Messico aveva infatti ceduto agli americani più della metà del suo territorio. Scrisse anche della povertà diffusa, e delle ingiustizie subite dai contadini e dagli operai, ma tra le tante cose che Bly notò ce ne fu una che le costò quasi la vita: il presidente Porfirio Díaz era al potere da troppi anni e si comportava come un dittatore, tanto che aveva fatto imprigionare in maniera arbitraria e ingiustificata un altro giornalista che lo aveva criticato. Non ci volle molto perché le autorità messicane manifestassero di non gradire più la presenza di una corrispondente così attenta e precisa: Bly fuggì dal Paese prima che fosse troppo tardi, raccogliendo le sue memorie in uno dei primi libri di viaggio scritti da una donna, Sei mesi nel Messico. Nellie Bly ci ha lasciato una testimonianza unica di quegli anni, anche se non fece in tempo ad assistere a uno degli eventi fondanti della storia messicana: la rivoluzione, simboleggiata da la Catrina, l’elegante teschio con il cappello che diventerà una delle icone della cultura del Paese.

Il periodo alla fine dell’Ottocento raccontato da Bly fu comunque uno dei più complessi per il Paese. Lasciato alle spalle il conflitto con gli Stati Uniti, Porfirio Díaz, eroe di guerra all’epoca molto amato dalla popolazione, era riuscito a prendere il potere nel 1876 e a mantenerlo nel 1911. In questi anni, passati alla storia come Porfiriato, Díaz si comportò a tutti gli effetti come un dittatore, reprimendo il dissenso e favorendo gli interessi dell’aristocrazia europea, che investiva nel Paese. Alcune voci di protesta riuscivano tuttavia a levarsi, ad esempio nei movimenti operai, ma soprattutto tra le fila degli intellettuali: il simbolo per eccellenza della resistenza al Porfiriato divenne infatti la satira politica del vignettista José Guadalupe Posada. La storia di Posada è molto particolare: incisore e litografo, non raggiunse mai la fama in vita se non sul finire della dittatura di Díaz, pochi anni prima della sua morte avvenuta nel 1913. Eppure, le sue illustrazioni hanno fondato l’estetica messicana moderna e influenzato alcuni dei più famosi artisti del Paese, come Diego Rivera e Frida Kahlo. L’occhio dissacrante di Posada, capace di descrivere con il suo talento le trasformazioni che stava attraversando il Messico, si tradusse in particolare in un’immagine iconica che ancora oggi tutti associano a questo Paese: la Catrina, la Calavera Garbancera.

Apparso per la prima volta nel 1913, lo scheletro adornato con un cappello di piume è una caricatura della signora messicana borghese che tenta di emulare la nobiltà parigina, non solo attraverso l’abbigliamento ma anche nella carnagione, tanto da apparire letteralmente bianca come un cadavere. La questione etnica era infatti un tema molto sentito, anche a causa della cancellazione delle tradizioni e della cultura indigene. Avere la pelle scura era sinonimo di inferiorità sociale e persino il presidente Díaz nascondeva la sua identità mestiza. Per i messicani, la carnagione scura era motivo di vergogna, tanto che molte donne tentavano di camuffarla con il trucco anche se, agli occhi di un osservatore disincantato come Posada, rimanevano sempre “garbanceras”, mangiatrici di ceci, cioè umili indigene. L’immagine del teschio popola diverse illustrazioni di Posada, sia come rovesciamento tipico del comico sia come memento mori, un messaggio non molto diverso dalle Danze Macabre popolari durante il Rinascimento: nobili o sudditi, ricchi o poveri, bianchi o neri, di fronte alla morte siamo tutti uguali. Non si può poi ignorare l’esplicito richiamo de la Catrina con una delle più importanti festività messicane, di cui è diventata simbolo: il Día de Muertos.

La tradizione, che mescola usanze amerindie con le ricorrenze cristiane, si radica nella convinzione degli aztechi che l’anima immortale dovesse compiere un lungo viaggio nell’aldilà, dove avrebbe incontrato Mictlantechutli, il dio dei morti che ha proprio le fattezze di uno scheletro. Nel Día de Muertos i defunti tornano sulla terra grazie al ricordo dei vivi, che li sostengono nel loro cammino attraverso le offerte: la festa quindi celebra la morte come un ritorno alla vita, come un ponte tra chi se ne è andato e chi resta.

CATRINA

In questo senso, un personaggio come la Catrina non poteva che essere il simbolo di un passato che il regime cercava in tutti i modi di dimenticare, quell’aggancio tra il mondo dei morti e quello dei vivi così importante nella cultura messicana. Da sberleffo nei confronti della borghesia conservatrice che si vergogna delle tradizioni popolari, la Calavera Garbancera è diventata un’icona di libertà, un simbolo di speranza di chi non vuole soccombere al conformismo: il suo volto era riprodotto sui volantini e sui pamphlet politici venduti per strada per pochi centesimi. Il più famoso risale al 1913 ed è una lunga poesia satirica che prende in giro le classi dirigenti con un monito inequivocabile: “Quelle che oggi sono mangiatrici di ceci incipriate, diventeranno crani deformi”. Questa risignificazione della Catrina avvenne soprattutto dopo la morte di Pesada, che riuscì a vedere solo gli inizi della rivoluzione che tanto attendeva. Già negli ultimi anni del Porfiriato si moltiplicarono le proteste del Partito Liberale Messicano, ma fu solo con le elezioni pilotate del 1910, che videro l’ennesima rielezione di Díaz, che si arrivò il punto di svolta: la rivoluzione, guidata prima dal candidato perdente Francisco Madero e poi dal leggendario Emiliano Zapata.

Non è un caso quindi che il grande artista Diego Rivera abbia inserito la Catrina, simbolo di questa rivoluzione, nel murale “Sogno di una domenica pomeriggio nel parco dell’Alameda” del 1947, insieme ai grandi personaggi della storia messicana. Lo scheletro tiene per mano Rivera stesso, ritratto come un bambino e abbracciato dalla futura compagna Frida Kahlo, e posa accanto a José Guadalupe Posada, come a segnare il passaggio di un’eredità non solo artistica, ma anche ideologica. La Catrina di Rivera è vestita come Coatlicue, la dea azteca della fertilità, e indossa un collo di piume che ricorda Quetzalcoatl, il serpente piumato, tra le divinità più importanti per gli aztechi. Sempre dalla parte degli ultimi e contro ogni forma di sopruso, Rivera si pone così come erede spirituale del grande vignettista, che ha regalato al Messico la sua eroina involontaria di libertà.

Diego Rivera, Sogno di una domenica pomeriggio nel parco dell'Alameda, 1947; Museo del Mural Diego Rivera

Oggi la Catrina è ancora il personaggio più popolare del folklore messicano e del Día de Muertos, una tradizione che negli ultimi anni è stata recuperata anche come forma di orgoglio per le proprie radici. Questa ricorrenza, che potrebbe sembrare lugubre, è invece un’occasione per celebrare la vita e la storia del Messico che, nonostante le molte difficoltà che ha incontrato questo Paese, ha preferito la libertà.

Sono molte le culture a ricordare i propri defunti, ma nessuna lo fa con la stessa pregnanza del Día de Muertos messicano. Festa antichissima di origine azteca, il Día de Muertos fonde la cultura mesoamericana con quella cattolica, diventando una celebrazione della vita dei defunti, che si crede possano tornare per consigliare e aiutare i vivi con la loro saggezza e il loro esempio. Ne parliamo su The Vision grazie al supporto di Espolòn Tequila, brand che si è fatto interprete e messaggero di questo immaginario, ispirandosi per l'artwork della sua etichetta, disegnata da Steve Noble, ai capolavori degli artisti messicani del Diciannovesimo secolo e in particolare del genio e Maestro Josè Posada, creatore delle icone del Día de Muertos come La Catrina. L'etichetta di Espolòn Tequila reintepreta i personaggi della tradizione popolare, da Guadalupe e Rosarita, protagonisti della guerra d’indipendenza messicana, a Padre Miguel Hidalgo e Ramón, il Gallo, simbolo dell’orgoglio nazionale, e li presenta in chiave contemporanea, per ricordarli e celebrarli.

Nessuna festa popolare sta influenzando la cultura moderna come il Día de Muertos

DI MANUEL SANTANGELO

Poche altre feste hanno ricevuto negli ultimi anni l’attenzione mediatica riservata al Día de Muertos. Per capirlo, basti pensare che dal 2014 al 2019 i lungometraggi d’animazione dedicati a questa ricorrenza sono stati ben tre: Il libro della vita (prodotto da Guillermo Del Toro), il capolavoro Pixar Coco e il più indipendente Día de Muertos. Si tratta di tre film molto diversi tra loro, ma tutti uniti dallo stesso immaginario di partenza, ormai in grado di affascinare bambini e adulti anche ben al di fuori dai confini del Messico, patria di questa ricorrenza, e dell'America Latina.

Un’ulteriore certificazione della ribalta internazionale raggiunta dalla festività è il fatto che il Día de Muertos sia stato omaggiato di recente anche all’interno di blockbuster hollywoodiani di lunga tradizione, come la saga di 007. Secondo molti, l’iconica scena iniziale di Spectre, in cui James Bond insegue un cattivo in mezzo alla parata tradizionale del Giorno dei morti, avrebbe segnato l’inizio di un fenomeno singolare: la rinnovata popolarità di questa festa a livello internazionale, che da celebrazione intima e familiare si è trasformata in uno dei simboli della cultura messicana nel mondo, un’occasione da celebrare con ampie manifestazioni di gioia collettiva, quali appunto la cavalcata di teschi giganti e i festaioli in costume che animano la parte iniziale del film sull’agente segreto più famoso di sempre.

Spectre 2015

In realtà, il cinema è sempre stato considerato uno dei media più adatti per restituire l’immaginario vivace del Día de Muertos, da ben prima che se ne accorgesse Hollywood. Non a caso, il primo importante film in cui si racconta la magia di questa festività risale addirittura al 1931 e porta la firma del leggendario regista sovietico Sergej Ėjzenštejn. Quando quest’ultimo decise di girare un film intitolato ¡Que Viva México!, capì subito che il suo ritratto del Paese non poteva prescindere dal racconto della sua festività più rappresentativa. Secondo Ėjzenštejn, il culto della morte era infatti “ciò che aveva reso il Messico il Messico”. A ispirare l’autore de La corazzata Potëmkin, erano stati in primis i murales dell’amico artista Diego Rivera. In quegli anni, Rivera stava contribuendo a rendere immortale il Día de Muertos grazie a opere come Sogno di una domenica pomeriggio nel parco dell’Alameda del 1947, in cui ritraeva una delle figure simbolo della festa – la calavera (in italiano “teschio”) in abiti eleganti de La Catrina – insieme ad altri importanti personaggi della storia messicana.

Diego Rivera, Sogno di una domenica pomeriggio nel parco dell'Alameda, 1947; Museo del Mural Diego Rivera

Dopo essere stata inserita nel murales di Rivera, la popolarità de La Catrina crebbe sempre di più, fino a farla diventare una delle maschere più amate della festa. A inizio millennio, fu resa co-protagonista di un cortometraggio girato con la tecnica della stop-motion molto famoso in Messico: Hasta los huesos di René Castillo, un animatore specializzato nell’animazione fatta con la plastilina e che ispirò con questo lavoro opere più celebri a livello internazionale come La Sposa Cadavere di Tim Burton. La visione di questa pellicola premiata in diversi festival nel mondo, da quello di San Sebastian a quello di Seul, è utile per comprendere come la morte in America Latina non venga vista, com’è più comune in altre culture, come l’irrimediabile fine di tutto: nel corto, dopo essere trapassato, il protagonista raggiunge infatti un Aldilà che di lugubre ha molto poco. Si tratta piuttosto di una grande festa, in cui la Catrina, simbolo di una visione anche frivola e leggera della vita, fa da anfitrione. In un’intervista pubblicata sul sito web del governo messicano, il regista René Castillo ha spiegato cosa intendesse comunicare con la sua opera: "Mi piace pensare che dopo la vita ci siano altre cose. (Il corto) parla molto di noi e della nostra paura della morte, così come del modo in cui la conciliamo ogni giorno con le nostre convinzioni personali”.

Il libro della vita (2014)

Questa continua riflessione sulla vita e su quella che in altre parti del mondo è considerata la sua antitesi è alla base del Día de Muertos, ma anche di molto del cinema che da esso viene ispirato. In Italia, si decise di far uscire il primo film messicano candidato all’Oscar nel 1960 (Macario di Roberto Gavaldón) col titolo di Morte in vacanza, proprio per evidenziare come in quella cultura la fine dell’esistenza sia equiparata quasi a un momento di stacco. Nella pellicola, lo stretto rapporto con la morte è esplicitato dal fatto che il protagonista entra in contatto diretto con una personificazione della stessa proprio alla vigilia della sua festività. Del film ai tempi venne apprezzata soprattutto la colonna sonora realizzata da Raúl Lavista, musicista e compositore che avrebbe lavorato successivamente anche con Luis Buñuel. Questo successo non deve sorprendere, considerando quanto l’elemento musicale sia centrale nella creazione dell’atmosfera del Día de Muertos.

I latini e in particolare i messicani compongono già dai tempi dei primi popoli precolombiani come gli Olmechi, vissuti tra il 1200 e il 400 a.C., canzoni sul tema del trapasso, e continuano a farlo. Basta vedere il gran numero di playlist dedicate alla festività presenti nei servizi di streaming musicale: insieme ai brani più tradizionali, ci sono anche canzoni più recenti, composte non molto tempo fa da pesi massimi del pop latino americano, da La muerte chiquita della rock band messicana Café Tacuba, a Mis muertos della popstar nazionale Julieta Venegas, fino a Que la vida vale di Natalia Lafourcade. Tutte queste canzoni, uscite in tempi più o meno recenti, non fanno che ricordare come sia sopravvissuta in certi luoghi una visione preispanica della morte, nella quale si arriva ad avere un rapporto intimo ed estremamente naturale con essa. Tra questi brani è facile trovare spesso una delle tante versioni della canzone dedicata alla Llorona, un altro dei simboli del Día de Muertos. La vicenda della Llorona, una donna che ha perso i propri figli e vaga in forma di spirito nella speranza di ritrovarli, è diventata famosa anche nel resto del mondo, passando ovviamente da Hollywood. Il tentativo di rendere il mito latino materiale da film horror ha prodotto però risultati modesti, che non sono riusciti a rendere giustizia alla leggenda millenaria, trasformandola purtroppo nell’ennesima generica storia di un demone che non ha colto l’essenza di una tradizione che nasceva per essere una celebrazione intima, lontana dagli eccessi di chi, sbagliando, la vede solo come una rilettura “un po’ più strana ed esotica” di Halloween.

Quando ci si approccia a tradizioni e culture diverse, come in quest’ultimo caso, il rischio è quello di snaturarle o di impoverirle. Fortunatamente, la storia è piena di esempi in cui l’immaginario del Día de Muertos è stato utilizzato da chi ne ha tratto ispirazione in maniera rispettosa ma anche molto creativa. È il caso di uno dei più grandi videogiochi di tutti i tempi: Grim Fandango. L’avventura grafica immaginata da Tim Schafer alla fine degli anni Novanta si svolge durante quattro Días de Muertos. In queste giornate, lo scheletro protagonista Manuel “Manny” Calavera (il cui cognome, come detto, significa “teschio” in spagnolo) si muove a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, attraversando anche i diversi luoghi che formano l’aldilà nella tradizione mesoamericana, fino ad arrivare al Mictlan, la parte dell’Oltretomba che viene da sempre maggiormente celebrata durante la festività, perché è qui che i morti dovrebbero finalmente trovare pace.

Grim Fandango è un grande omaggio al Día de Muertos e alla cultura che lo ha generato. Già il nome è infatti un riferimento a Gran Fandango, un’illustrazione dell’inventore del personaggio de La Catrina, José Guadalupe Posada. Nei suoi lavori, Posada utilizzava i teschi tipici della festività per fare commenti sulla situazione politica e sociale del suo Paese e per dare voce al popolo oppresso dalla dittatura. Una delle frasi che gli sono state attribuite sintetizza bene il suo pensiero e spiega perché tutto il suo immaginario, come il mondo di Grim Fandango, sia popolato di calaveras: “La morte è democratica. Alla fine dei giochi, non importa che sia bionda, mora, ricca o povera: qualunque persona finisce per diventare un teschio”.

Grim Fandango

Quest’ultimo elemento è d’altronde quello più immediatamente riconducibile al Día de Muertos. Nella cultura che dà origine a questa festività, la calavera non è infatti solo simbolo di pericolo, ma rappresenta anche il legame che rimane con la persona scomparsa: l’atto di colorare i teschi, abbellendoli con gioielli e altri oggetti e accessori, era una maniera per ricordare che la persona, sebbene ormai priva di esistenza fisica, rimaneva ancora presente nello spirito. Questa idea, ad esempio, è sopravvissuta anche grazie ai tatuaggi: molti, ormai non solo in America Latina, ricordano un defunto inchiostrando la propria pelle con uno dei coloratissimi simboli del Giorno dei morti, che, oltre al loro importante significato, hanno anche indiscutibile valenza artistica.

La risignificazione di questa festività attraverso altri mezzi non si è fermata ai tatuaggi, ma ha toccato anche iniziative commerciali e simboli estremamente pop, come la Barbie abbigliata per il Día de Muertos, e diverse forme di street art. Se i murales fanno parte dell’eredità artistica messicana ormai già da tempo, grazie a nomi come José Clemente Orozco, David Alfaro Siqueiros e il già citato Diego Rivera, ora per arte di strada si intendono anche nuove forme espressive. Ad esempio, le due calaveras giganti che spuntano dall’asfalto nella municipalità di Tláhuac, a Città del Messico, create in occasione della festività dello scorso anno. Le enormi sculture temporanee erano state costruite in cartone dal collettivo di artigiani Jaén Cartonería: l’idea dei creatori dell’installazione era quella di trovare un modo spettacolare per mostrare ai bambini del quartiere di Santa Cecilia il patrimonio del loro Paese, affinché questa tradizione non venisse dimenticata.

Il rinnovato successo di una festività come il Día de Muertos non si spiega tuttavia soltanto con la fascinazione per la cultura popolare e il crescente desiderio di conservarla. A pesare è anche il significato più profondo che questo giorno porta con sé: riconnettersi con i propri cari che se ne sono andati per poter tornare a celebrare con più forza la vita di chi resta. Perché, un po’ come nel quadro di Frida Kahlo Ritratto di Luther Burbank, il ricordo di chi ci ha lasciato finisce per alimentare sempre quello che siamo. Il Día de los Muertos è oggi soprattutto una festa utile per riscoprire il senso di comunità e la propria identità attraverso il legame con i propri antepasados (antenati). In un mondo sempre più alienato, celebrazioni come il Día de Muertos diventano un’opportunità di sentirsi parte di qualcosa e superare la sensazione straniante di non avere radici cui appoggiarsi. Per questo vale la pena conservarle e renderle popolari, a patto che lo si faccia senza svuotarle di significato.

Sono molte le culture a ricordare i propri defunti, ma nessuna lo fa con la stessa pregnanza del Día de Muertos messicano. Festa antichissima di origine azteca, il Día de Muertos fonde la cultura mesoamericana con quella cattolica, diventando una celebrazione della vita dei defunti, che si crede possano tornare per consigliare e aiutare i vivi con la loro saggezza e il loro esempio. Ne parliamo su The Vision grazie al supporto di Espolòn Tequila, brand che si è fatto interprete e messaggero di questo immaginario e che si propone di essere ispirazione per i creativi di tutto il mondo. Come il Día de Muertos ha influenzato la cultura moderna più di qualsiasi altra festa popolare, approdando al cinema, nella musica e nell'arte, dalla street art ai tatuaggi, così Espolòn Tequila si propone di essere benzina creativa e di fare da esempio nella sua interpretazione della tradizione in chiave contemporanea.