Perché abbiamo bisogno di Dante e Manzoni anche da adulti

Quando ero un liceale, spinto dai tormenti dell’adolescenza, leggevo Irvine Welsh e Chuck Palahniuk. L’inquietudine che sosteneva ogni mia azione mi faceva amare i libri crudi, diretti, con sfumature nichiliste. Non a caso, tra gli italiani prediligevo la corrente dei Cannibali, su tutti l’Ammaniti degli esordi, e di conseguenza non potevo trovare alcun conforto in “quel ramo del lago di Como.” Detestavo I promessi sposi. Don Abbondio e i bravi mi avrebbero appassionato solo se si fossero incontrati in un pub di Edimburgo per farsi di metanfetamina. Della Divina Commedia apprezzavo esclusivamente l’Inferno perché ci ritrovavo le dannazioni presenti nelle mie letture dell’epoca. Una decina di anni dopo, libero dalle imposizioni scolastiche, ho ripreso in mano questi due capolavori di Dante e Manzoni, amandoli alla follia. Forse col tempo avevo affinato i miei gusti letterari, o più semplicemente la scuola italiana aveva finito per fare un danno ai due grandi autori della letteratura, o meglio, ai loro potenziali lettori.

I promessi sposi è un testo obbligatorio dal 1870, e non voglio certo mettere in discussione il suo valore. Si tratta del primo “vero” romanzo moderno italiano, capostipite di un’identità linguistica e culturale che ha saldato il Paese tanto quanto l’Unità del 1861, se non di più. Lo stesso vale per Dante. La Divina Commedia è senza dubbio l’opera letteraria italiana più famosa al mondo – viene citata pure in How I Met your Mother – vive di vita propria e continuerà a farlo, a prescindere dai nostri piani didattici. È anche un testo estremamente complesso, ma quando lo si legge per la prima volta, intorno ai quindici anni, non ci si può trasformare di colpo nel Sermonti.

William-Adolphe Bouguereau, Dante e Virgilio, 1850, Musée d’Orsay, Parigi

Eppure è difficile per un adolescente muoversi con agilità attraverso queste strutture intricate, afferrarne fino in fondo i risvolti e leggerle con piacere e passione. Di certo, il metodo didattico non aiuta: tra parafrasi, analisi del testo e destrutturazione dell’opera, la scuola sembra quasi voler forgiare dei critici letterari, prima che dei lettori.

Proprio da qui parte il dibattito sul ruolo che la scuola dovrebbe svolgere: decidere se incentivare gli alunni alla lettura o sacrificare Dante e Manzoni sull’altare dell’insegnamento fine a se stesso. Istituzionalizzare queste due opere ha da un lato contaminato pagine meravigliose, condannandole alla claustrofobia dell’obbligo scolastico, e dall’altro sembra non aver raggiunto il risultato sperato: avvicinare gli studenti a una fruizione attiva della letteratura. Le eccezioni risiedono come al solito nell’energia e nel metodo del singolo professore, e la responsabilità del sistema scolastico viene riversata come al solito nella romantica visione dell’insegnante “diverso dagli altri” che trasmette una passione allo studente, contagiandolo, cambiandogli per sempre la vita e il modo di vedere il mondo.

Intanto, dall’ultima rilevazione dei dati Istat si evince che soltanto il 40,5% degli italiani dichiara di aver letto almeno un libro in tutto l’anno (al Sud siamo al 27,5%). E solo il 14,1% si annovera tra i “lettori forti”, ovvero quelli che hanno letto almeno dodici libri nell’ultimo anno – e se si considera un lettore forte colui che legge in media un libro al mese comunque siamo messi male. Certo, dipende sempre da come si interpretano i dati. Seguendo questi parametri rientra tra i lettori forti anche chi legge tre Harmony in due mesi, e non chi nello stesso lasso di tempo legge solo I fratelli Karamazov. I numeri, però, restano inquietanti, soprattutto se si fa un confronto con l’estero. In Norvegia legge il 90% della popolazione, in Spagna il 60%, tanto per citare altre due nazioni europee. L’Italia lotta ancora con l’analfabetizzazione.

Francesco Hayez, Ritratto di Alessandro Manzoni, 1841, Pinacoteca di Brera, Milano

Non è certo tutta colpa di Dante e Manzoni però, e non sono esclusivamente le scuole a doversi assumere questa responsabilità . L’abitudine alla lettura spesso nasce grazie all’imprinting familiare – crescere in una casa di lettori può rendere più naturale per un bambino lo stare tra i libri – ma anche per merito di fattori esterni, spunti che possono essere veicolati dai media. L’estro di Roberto Benigni, ad esempio, ha fatto realmente avvicinare il grande pubblico alla Divina Commedia, oppure il talento di divulgatore letterario di Alessandro Baricco, partendo da Pickwick, del leggere e dello scrivere (andato in onda su Rai3 nel 1994) per arrivare alle recenti Palladium lectures, e passando per l’indimenticabile Totem, ha fatto scoprire e amare opere come Il giovane Holden, Cyrano de Bergerac, o Viaggio al termine della notte, per citarne due tra le tantissime che altrimenti sarebbero rimaste relegate per sempre sugli scaffali di una libreria.

Daniel Pennac in Come un romanzo scrive: “Il primo diritto di un lettore è di non leggere”. L’approccio alla lettura, la spontaneità, per lui assume un ruolo di rilievo, eppure non si può negare l’importanza di genitori e insegnanti nel dare uno stimolo iniziale ai ragazzi. C’è chi assegna ai propri studenti dei libri da leggere, chi lo fa direttamente in classe, chi crea un “club del libro” o, perché no, un gruppo di lettura su Facebook, c’è poi chi vive letteralmente circondato dai libri e ci fa crescere in mezzo di conseguenza anche i propri figli. Non bisogna leggere perché lo dicono i programmi ministeriali, bisogna leggere per essere liberi, per cercare risposte sulla vita, per viaggiare, per ampliare i propri orizzonti, non per compilare una scheda di lettura, fare una buona analisi del testo e portarsi a casa un bel voto dopo le vacanze estive, o almeno non solo per questo.

Dal programma ministeriale però non ci si scosta: Dante e Manzoni sono simulacri inamovibili.

Ary Scheffer, Paolo e Francesca, 1835, Wallace Collection, Londra

Qualcuno ha suggerito l’idea di sostituirli con letture meno impegnative e più adatte ai ragazzi, altri hanno rigettato l’idea con sdegno. È una disputa che dura da decenni senza trovare sbocco, ma qualora si scegliesse di trovare dei validi sostituti, o delle letture integrative, sarebbe opportuno pesare bene la scelta. Certo, le possibilità non mancherebbero.

Potremmo pensare a Italo Calvino. L’autore di Marcovaldo viene già studiato nelle scuole: i suoi libri non rientrano tra le letture integrali obbligatorie, ma se gli venissero dedicate più ore un quindicenne potrebbe facilmente appassionarsi al suo modo di raccontare storie. Poi ci sono ad esempio Primo Levi e Beppe Fenoglio: la trama delle loro opere segue la storia del nostro Paese, e leggerle con più attenzione unirebbe lo studio di due materie. Questo è un discorso che vale anche per due grandi scrittrici italiane, Natalia Ginzburg ed Elsa Morante: libri come Lessico famigliare e La storia farebbero scoprire ai più giovani epoche che non hanno mai vissuto, coinvolgendoli senza sconfinare nel paternalismo di certe lezioni frontali.

Andrea Camilleri ha dichiarato: “Da ragazzo non sopportavo Manzoni. La lettura che ci veniva propinata a scuola lo rendeva odioso, noioso. La colpa non era sua, ma della lettura penitenziale e penitenziaria che ne veniva fatta”. La scuola, dai suoi tempi, è cambiata molto, eppure molti studenti di oggi si ritrovano nelle sue parole. Proprio Camilleri, anni fa, propose la creazione di biblioteche familiari, libri regalati alle famiglie per incentivare alla lettura: un’iniziativa simile a quella proposta da Zavattini negli anni Ottanta, un metro di libri per ogni italiano, per ogni nuova casa costruita.

Il rischio è che le opere fondamentali della letteratura italiana diventino odiose. Niente e nessuno può assicurarci che chi rabbrividisce al solo ricordo delle ore passate in aula possa riavvicinarsi al tortuoso cammino di Dante o alle infinite disavventure di Renzo e Lucia, ma forse se si provassero a cambiare i programmi scolastici, a portare un po’ di fantasia anche nel modo di fare lezione, la scuola potrebbe, per una volta, stupirci.

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