Forse con la cultura non si mangia, ma ci si difende dall'autoritarismo - THE VISION

Lea Niccolai, ricercatrice di Studi classici e orientali a Cambridge – prontamente citata soltanto come “Lea” dai titoli dei giornali italiani – si è aggiudicata il prestigioso Hare Prize per la migliore tesi di dottorato di ambito umanistico, che diventerà un saggio, dimostrando che anche con la cultura si può mangiare, nonostante quello che la narrativa corrente da anni ci ripete e che troppo spesso la realtà di questo Paese ci conferma. Che la sua storia abbia fatto il giro dei giornali è emblematico dello stupore che una notizia del genere suscita in Italia: il sapere, tanto più quello umanistico, da noi non sta attraversando il periodo migliore. Eppure la sua diffusione nella cittadinanza può essere uno strumento importante per la difesa della democrazia: uno studio recentemente pubblicato dalla Georgetown University di Washington DC, lo dimostra. La conclusione a cui giunge la ricerca – intitolata “The Role of Education in Taming Authoritarian Attitudes” (ossia “Il ruolo dell’educazione nel domare le attitudini autoritarie”) – è che un titolo di studio superiore, specialmente di ambito umanistico, diminuisce la probabilità di entrare nelle fila dei sostenitori dell’autoritarismo.

Esagerare l’influenza del ruolo giocato da un titolo universitario nell’orientamento politico degli individui sarebbe ovviamente un errore, oltre che classista: non è detto che da sola l’istruzione sia sufficiente a proteggere un Paese dal rischio di una deriva autoritaria. Come ci sono persone con un basso livello d’istruzione che rigettano l’autoritarismo, così ci sono laureati che lo sostengono. Ma questo resta un dato interessante. La scienziata politica Karen Stenner – che descrive l’autoritarismo come una visione del mondo che conduce gli individui a preferire l’autorità e l’uniformità rispetto all’autonomia e alla diversità – ipotizza che alcune persone abbiano una vera e propria predisposizione per l’autoritarismo, che può essere attivata dalla percezione di vedere norme comunemente accettate sotto minaccia, presunta o reale. Individui che percepiscono sé stessi o il proprio stile di vita come in pericolo possono preferire le rassicurazioni di una leadership autoritaria. Tra i fattori che possono aiutare a prevenire il fascino della popolazione verso l’autoritarismo, però, l’educazione – in particolare quella universitaria, stando allo studio – ha un ruolo importante nel mitigare i rischi per la democrazia. Non si riscontra però differenza di orientamento socio-politico tra chi ha un diploma superiore e chi ha abbandonato gli studi prima di ottenerlo.

Questi sono alcuni dei risultati emersi dalla ricerca della Georgetown University, basata sull’analisi dei dati raccolti su scala mondiale dalle statistiche dei World Values Surveys – condotte tra il 1994 e il 2016 – e sul presupposto che l’autoritarismo non apporti benefici sul piano sociale e sia invece una minaccia per le repubbliche democratiche. Tra le osservazioni più interessanti c’è l’emergere del ruolo fondamentale dei corsi di laurea nelle cosiddette arti liberali (espressione, diffusa soprattutto in ambito anglosassone), con cui oggi si intendono molti studi di impronta umanistica, ma più ampia di quella che siamo ormai abituati a considerare noi. L’università di arti liberali è una classificazione dell’ordinamento dell’istruzione superiore degli Stati Uniti di cui fanno parte percorsi di formazione orientati principalmente agli studi umanistici, all’arte, al diritto e alla matematica. La classificazione può derivare, almeno parzialmente, da quelle che Seneca definisce artes liberales: lettura e scrittura, grammatica, geometria (in cui è compresa l’aritmetica) e musica, cioè gli insegnamenti propedeutici alla retorica e alla filosofia, alla base della suddivisione medievale tra Trivio e Quadrivio. Proprio queste aiuterebbero gli individui a immaginare altre prospettive rispetto alla propria e ad apprezzare, più che a temere, culture e religioni diverse. L’opposto, cioè, dell’autoritarismo, che è il rafforzamento della conformità a un gruppo, e quindi la forte predilezione per una sola cultura, una sola religione, un solo modello di vita in opposizione agli altri e, in via definitiva, un solo leader che incarna l’ordine costituito e l’autorità, nei confronti di cui si esprime una stretta obbedienza, anche a scapito delle proprie libertà personali.

Negli Stati Uniti l’istruzione universitaria è caratterizzata dalla combinazione di un percorso di studi molto specifico (il major) con un tipo istruzione più generale e variegata (la general education) obbligatoria nel Bachelor’s degree (corrispondente grossomodo alla nostra laurea triennale), in cui hanno ampio spazio proprio le arti liberali. In Europa, invece, si segue un percorso di studi incentrato su una disciplina, che sia la matematica, la medicina, la storia o l’architettura, e lo studente non è tenuto ad ampliare il suo bagaglio studiando materie estranee al corso a cui è iscritto – teoricamente lo ha già fatto alle superiori, e in particolare al liceo (classico o scientifico). Per questo le tendenze politiche di un laureato statunitense sono nettamente più lontane da quelle di un suo coetaneo non laureato, rispetto a quanto non avvenga in Europa. Il potenziale di questa correlazione è interessante e sarebbe uno strumento potente al servizio delle democrazie se un certo tipo di istruzione riguardasse la maggioranza della popolazione. Ma non è così: nonostante l’impressione che le università siano piene – forse dovuta semplicemente all’inadeguatezza delle strutture e del sistema stesso, drammatica rispetto alle necessità del Paese, come per quanto riguarda medicina, ma non solo – l’Italia ha livelli record di abbandono scolastico, ulteriormente aggravati dalla didattica a distanza imposta dall’epidemia di Covid, e un tasso molto basso di laureati rispetto al resto d’Europa. Il livello di istruzione di un Paese può essere un indicatore importante della sua tenuta democratica e viceversa: forse non è un caso che in Italia si assista al permanere di sentimenti fascisti.

Determinare le cause del nesso non è facile, anche perché sono vari i fattori in gioco: tendenzialmente un titolo di studio maggiore è correlato anche a un migliore status socioeconomico, ma se in certi casi l’educazione superiore migliora anche la sicurezza economica, negli ultimi anni le cose si sono ulteriormente complicate, e questo non è sempre detto, specialmente per i laureati in discipline umanistiche. Studiare, poi, accresce il senso di responsabilità civica, regala maggiore autostima, autonomia e controllo sulla propria vita e instilla una maggior fiducia interpersonale. Tutti questi fattori concorrono a rendere meno seducente il richiamo dell’autoritarismo.

Viceversa, i cittadini che hanno intrapreso gli studi superiori, negli Stati Uniti, sembrerebbero avere più probabilità di essere attivi politicamente, probabilmente perché incoraggiati a leggere e a sviluppare il proprio pensiero critico, dando ai giovani gli strumenti per distinguere tra notizia e propaganda, e anche perché l’università, oltre a supportare e promuovere la formazione degli studenti, fornisce un contesto e un supporto alla ricerca contribuendo al bene comune delle comunità più ampie di cui è parte. La formazione, però, dovrebbe promuovere fin dagli inizi il pensiero indipendente, il rispetto per il diverso, una valutazione critica delle evidenze – che non dovrebbero mai essere per scontate, ma sottoposte a vaglio critico – tutti fattori in contrapposizione rispetto alla deferenza acritica e incondizionata nei confronti dell’autorità, tratto distintivo dell’autoritarismo. Motivi in più per cui la democrazia punta – o, per lo meno, dovrebbe puntare – a garantire un’istruzione quanto più avanzata e quanto più equa possibile a tutti i cittadini. Non a caso le università sono minacciate dai regimi autoritari, dalla Turchia all’Ungheria.

Sempre dallo studio della Georgetown University emerge poi che livelli di istruzione più alti sono associati a valori e culture secolari, fattore a sua volta connesso alle tendenze politiche; risulta, infatti, che le persone più religiose sono più inclini a tendere verso l’autoritarismo, probabilmente perché una marcata religiosità attribuisce grande valore alla coesione, all’ordine e alle norme prestabilite. E se lo si fa, quando si percepisce negli estranei alla propria comunità e nei cambiamenti sociali una minaccia al proprio stile di vita, si può decidere di sostenere dei leader forti che promettono di rafforzare la conformità alle norme esistenti, anche con la forza, se necessario. Un gruppo di votanti che reagisca a tali minacce percepite ha un enorme potere di influenza sulla direzione politica di un Paese.

La ricerca giunge alla conclusione che livelli più avanzati d’istruzione possono giocare un ruolo cruciale nella protezione della democrazia contro la minaccia dell’autoritarismo, che negli ultimi anni è tornato in auge, anche per effetto della crescente pressione competitiva a livello globale, delle migrazioni di massa e delle instabilità politiche. Forse con la cultura non si mangia, ma – come dice Paolo Rossi – la cultura “permette di imparare a difendere i propri diritti e, se si impara a difendere i propri diritti, qualcosa da mangiare a casa lo si porta sempre”. La cultura – spesso incoraggiata da un certo tipo di istruzione – insegna proprio a non barattare la libertà. Ecco perché certe discipline non dovrebbero essere una branca elitaria del sapere.

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