È la costanza il nostro unico antidoto all’isolamento sociale?

L’uomo è un animale sociale, in questo periodo ci è ancora più chiaro. Reclusi in casa via decreti, la narrazione sui sommersi e i salvati dalla COVID-19 ha contribuito a premere l’acceleratore sul nostro senso di abbandono: affettivo, istituzionale, ideologico. Ognuno di noi ha assistito al dissiparsi dei propri punti fermi, trovandosi ad affrontare quella che l’Organizzazione mondiale della sanità ha definito “infodemia”.

Senza nemmeno accorgercene, siamo scivolati così da uno stato di profonda ansia a uno primigenio, in cui abbiamo disperatamente bisogno di sentirci parte di una comunità e di aggrapparci all’idea che in questo scorrere incessante di storie e di vite, di limitazioni alle nostre libertà personali, di abitudini scomparse e principi violati, ci sia qualcosa di immutabile su cui poter sempre contare: le persone.

Il modo in cui la popolazione sta reagendo all’isolamento, se da un lato può far sorridere, dall’altro dimostra quanto sia importante la costanza nelle relazioni umane. Fino a oggi, infatti, la distanza, anche se virtuale, era un’usanza socialmente accettata e una scusa per non prenderci troppa confidenza, mantenere i nostri spazi e in certi casi il nostro status.

Prima non ci saremmo mai sognati di darci appuntamento su un balcone e cantare a squarciagola col dirimpettaio, che magari ci dava pure fastidio. In queste settimane abbiamo improvvisato aperitivi e compleanni in videoconferenza. Lo smart working ci ha imposto di mescolare la nostra vita privata alla presenza costante di capi e colleghi, quando prima del virus ci preoccupavamo di non portare il lavoro a casa. Ci mancano più di prima i genitori, da cui magari eravamo scappati per insofferenza. Abbiamo trovato il coraggio di ricontattare qualcuno a cui avevamo detto addio, o di farci avanti con chi non avremmo mai osato. In una lotteria di occasioni e speranze, la possibile risposta a questa sorta di intraprendenza è nella “costanza dell’oggetto” libidico, una fase del processo evolutivo che tutti abbiamo affrontato, con cui potremmo fare però i conti di nuovo.

In un’era in cui tutto muta incessantemente, esigiamo l’altro come nostra costante esistenziale, per sentirci meno soli con noi stessi e dare un senso al tutto. È un sentimento che si sviluppa nelle prime fasi di vita e a cui Margaret Mahler, psicoanalista e psicoterapeuta ungherese, esponente della corrente della “Psicologia dell’Io”, ha dedicato ampi studi. È normale che, costretti a stare rinchiusi fra le quattro mura di casa, la nostra ora d’aria sia diventata la chat con amici e i parenti o i feed dei social.

Secondo Mahler infatti, ogni essere umano attraverserebbe nella propria vita tre fasi di sviluppo psicologico. Studiando il rapporto tra madri e figli, Margaret Mahler si accorse negli anni Cinquanta di come tutti gli individui interiorizzano le relazioni umane fin dai primi mesi di vita, passando da una fase autistica (0-2 mesi), in cui i bambini sono consapevoli solo dei loro bisogni fisiologici; a una simbiotica (2-6 mesi) in cui si considerano un tutt’uno con la figura materna; fino a una di individuazione (dai 6 mesi in poi) in cui cominciano a sperimentare il mondo esterno e ad avventurarsi sulle proprie gambe. Ed è proprio in questa fase che emerge “la costanza dell’oggetto” per le relazioni umane. Il bambino, più o meno intorno ai 3 anni, comincia a capire infatti che, pur non essendoci sua madre accanto a lui, la madre esiste nel mondo. Comincia, in parole povere, a percepire la complessità della realtà. E inizia così il distacco evolutivo del bambino che, seppur in avanscoperta, si sentirà sempre legato indissolubilmente a un altro essere umano, a cui fare eterno ritorno, cercando conforto per ciò che ha visto mentre era lontano.

La pandemia ha contribuito, nell’iperconnessione quotidiana, a metterci con le spalle al muro in un momento in cui sentiamo che la vita ci sta sfuggendo di mano. Ci ha costretti a colmare tutte quelle distanze relazionali, comunicative e intime che prima anteponevano nel rapporto con gli altri. E l’unico modo che ora abbiamo per farlo è farlo attraverso la rete. Siamo disposti, prima che sia troppo tardi, ad andare incontro alle persone con fiducia e a mostrarci per quello che siamo veramente: egocentrici per indole naturale, ma disposti a squarciare il velo e ad affermarci nei nostri bisogni più profondi.

Il nostro status psicologico definirà il grado di ripresa da questa crisi globale. Sarà il modo in cui imbriglieremo le nostre emozioni, in cui sapremo limitare la nostra ansia del domani a fornirci gli strumenti necessari per riprenderci e magari riuscire davvero a costruire un mondo migliore, come i tanti “Andrà tutto bene” si auspicano.  Tenere le proprie emozioni sotto controllo significa anche evitare di diffondere istantaneamente informazioni non verificate, che spesso si rivelano bufale e che però contribuiscono al rumore di fondo e all’aumento della paura.

La psicologa comportamentale Jo Hemmings ha rilevato come le principali vittime della psicosi da pandemia sono i soggetti già affetti da disturbi di ansia e stress, vittime dell’isolamento reale ed emotivo. “La risposta è nella consapevolezza,” spiega, “maggiore è la consapevolezza che abbiamo, più rapidamente affronteremo la situazione”. Il bisogno di mettere a tacere psicosi e paranoie, porta a una ricerca spasmodica di informazioni online. “L’informazione è potere, perché più ne abbiamo, più abbiamo l’illusione di avere il controllo. Purtroppo, non tutto quello che circola sui social network è accurato, o sono opinioni di speculatori”. Non dobbiamo aver paura del futuro né sottostimarlo, ma dobbiamo affrontarlo in qualità di esseri razionali, non di bambini viziati che pretendono di essere consolati a tutti i costi.

Come vettori di instabilità politica ed economica, ansia e senso di solitudine trovano per di più non solo spazio nella nostra vita interiore ma anche nella realtà che ci circonda, con effetti importanti e spesso gravi. Il sito del Centre for Economic Policy Research (un network di circa 1300 ricercatori) VoxEU, ha recentemente pubblicato lo studio “Coronavirus perceptions and economic anxiety in cui si evidenzia come la percezione emotiva dell’epidemia abbia un profondo impatto anche sull’economia e la finanza globale. “Lo studio,” si legge, “suggerisce come l’informazione e l’istruzione pubblica giocheranno un ruolo fondamentale nel contenimento e gestione dell’impatto economico negativo determinato dall’ansia crescente”. Dopo il 29 febbraio, lo stesso studio evidenzia inoltre come Google sia prolificato di ricerche con parole chiave “recessione”, “crash del mercato azionario”, oltre a quelle legate a teoria cospirazioniste e complottiste. Questa tipologia di ricerche è incrementata del 20-50% nel periodo subito precedente all’avvento dell’epidemia nel resto d’Europa.

In questo scenario è importante capire che, per quanto la tecnologia renda possibili cose che un tempo erano inimmaginabili, non può però sopperire ai nostri bisogni psicologici. Così i social hanno accelerato le nostre richieste di attenzioni ora che le relazioni umane sono importanti più che mai per non farci sentire soli, ma ravvivare i rapporti stantii non è la scappatoia a un problema macrosistemico, in cui tutti siamo connessi e responsabili.

Per fare quello scatto evolutivo che la “costanza dell’oggetto” prevede, dovremmo superare i nostri traumi infantili e imparare a chiedere aiuto esplicitamente, oltre che a percepire le persone indipendentemente dai nostri bisogni e dalla nostra paura di rimanere soli. Dovremmo esercitare l’umiltà di mettere da parte il nostro Super Io e di affidarci a mani esperte, senza sfogarci sugli altri. Non è un caso che stiano aumentando gli sportelli di ascolto psicologico virtuale, anche gratuito, i consigli per i cittadini daparte delle istituzioni, o le reti di supporto per tutti i medici che in queste ore sono sottoposti a turni esasperanti. Per arginare una crisi globale, che abita profondamente la psiche degli individui, non basta un flash mob in balcone o una catena su WhatsApp.

Animali sociali o no, fu Aristotele il primo a mettere in luce i limiti della natura umana, il bisogno delle persone, anche quelle misantropiche, di trovare un contatto con l’altro, una forma di condivisione che ai tempi del lockdown sembra essersi trasformata in una vera e propria istanza di sopravvivenza.

Per respirare e sentirci vivi, un tempo saremmo dovuti uscire di casa, sconnetterci. Ora che non è più possibile uscire di casa per sentirci liberi e vivi, la nostra finestra sul mondo è diventata proprio la rete, questo però ci richiede un nuovo tipo di connessione con noi stessi e con gli altri e di interrogarci su un uso più consapevole del mezzo. Per queste ragioni ora più che mai dovremmo raccogliere l’invito a lavorare sulle nostre zavorre emotive, sui nostri vecchi traumi e i pattern che hanno generato, per trovare una libertà più profonda e agire con cognizione di causa, senza scaricarli sugli altri, che probabilmente vivono simili difficoltà.

Segui Barbara su The Vision