In Svezia il sesso senza esplicito consenso è una violenza. È la soluzione agli abusi o la fine dei rapporti?

Non credo sia mai stato facile essere donna, se non in brevi parentesi storiche o entro determinate classi sociali – non penso che la Regina Vittoria se la passasse male – ma in questi ultimi mesi, da quando è scoppiato il caso Weinstein e da quando il dibattito sul #metoo è diventato sempre più vivo, sembra che non ci si possa sottrarre dall’essere al centro di un dibattito che sta ridefinendo le categorie a cui eravamo abituati: il nostro ruolo sociale, culturale, ma anche giuridico. Ultimamente, noi donne siamo chiamate a ricollocarci, a schierarci con chi ci sentiamo di supportare, a distaccarci da chi invece non ci rappresenta e a dover necessariamente riempire le fila di una battaglia, anche quando non la sentiamo nostra – in quanto esseri umani – dobbiamo comunque trovare una via d’uscita per spiegare che sì, siamo di fronte a un cambiamento, ma è sempre e solo positivo? Racchiude davvero tutte le istanze a cui vogliamo appellarci in quanto esseri senzienti? Siamo nel mezzo di una guerra, e combattere stanca, divide, fa emergere le esigenze di ognuna, spesso contraddittorie, tutte più o meno legittime. In questo caos di notizie e di sconvolgimenti però ci sono cose che ci riguardano in modo più concreto. Al di là delle questioni che nascono a Hollywood e che assumono i toni di una gigantesca produzione americana, emergono anche episodi meno spettacolari, legati alla vita vera e non alle cornici dorate dello showbiz dove il marcio è stato nascosto sotto al red carpet per anni ed è improvvisamente saltato fuori. Questo è il caso, ad esempio, della Svezia e della sua nuova legge che entrerà in vigore dal primo luglio.

Il Primo Ministro svedese Stefan Lofven

“Il sesso senza consenso verrà considerato stupro,” una proposta che “conferma l’ovvio”: nel testo della legge, il punto decisivo del cambiamento di rotta sul tema delle violenze sessuali da parte della Svezia  – che segue le scelte di altri stati come Gran Bretagna, Canada e Germania – è quello di far sì che non basti non opporre resistenza per dare il via libera a un rapporto consenziente. È una decisione che sembra sottolineare un principio di base dei rapporti sessuali, tra qualsiasi genere e in qualsiasi parte del mondo, considerato che il concetto di abuso si presenta proprio quando manca la volontà da una delle due, o più, parti coinvolte. In molti l’hanno definita una legge che più che per il suo valore legale ha soprattuto una rilevanza culturale, in quanto espressione di un sentire ormai consolidato e uniformato a un’idea di società moderna. Non si tratterebbe dunque tanto di una riforma che cambi lo stato attuale delle cose ma di una regola che conferma il presente: è normale e universalmente riconosciuto che il sesso senza consenso è un reato, come si legge: “sex must be voluntary – if it’s not, then it is illegal”.

Le nuove categorie introdotte sono quindi quella di “negligent rape” e di “negligent sex abuse”, che si manifestano laddove appunto non si verifica una vera e propria contrapposizione fisica, né verbale, rispetto al proprio aggressore. Questo è un grande passo in avanti rispetto, per esempio, a tutte quelle occasioni in cui la vittima si trova in uno stato di shock tale da non riuscire a reagire in nessun modo di fronte alla violenza che si sta consumando sul suo corpo. Si è discusso molto in Svezia riguardo a questo genere di violenza dopo un episodio del 2013 in cui una ragazza è stata abusata da altri sei coetanei. La sentenza non le ha riconosciuto uno stato di vulnerabilità, al momento dei fatti, tale da considerare l’avvenuto uno stupro. È normale che, viste le profonde modifiche culturali rispetto al tema delle violenze sessuali, un caso del genere a distanza di cinque anni appaia inconcepibile. La diretta emanazione del sentire comune dovrebbe appunto essere una legge che garantisca che non succeda più. L’ordinamento giudiziario è stato infatti paragonato a un’altra conquista in termini culturali, quella che riguarda la legge introdotta in Svezia nel 1979, che vietava ai genitori di poter usare la violenza fisica contro i propri figli. Una sorta di passaggio di staffetta da un’epoca a un’altra: la società che cambia e che, di conseguenza, adatta il suo sistema giuridico al nuovo assetto mentale.

I cambiamenti, per quanto positivi, portano spesso con sé anche una dose di dissenso. Tra chi vede minato uno schema comportamentale ritenuto valido e chi intravede nelle modifiche dei rischi per certe derive estremiste, è normale che il corso della storia non sia un perenne rettilineo culminante in un progresso assoluto nella terra promessa della giustizia e del quieto vivere. Altrimenti, dopo diversi millenni di civiltà oggi dovremmo essere praticamente perfetti. Sulla Svezia poi, e sui paesi scandinavi in generale, nutriamo una serie di complessi che alimentano certi stereotipi consolidati: sono popoli emotivamente freddi, le città funzionano meglio di qualsiasi altro posto sulla terra, e soprattutto sono sessualmente più evoluti – se per “evoluti” intendiamo più a loro agio con un certo libertinismo. Parlando con due amiche svedesi, che non sono un campione statistico rilevante ma hanno di certo qualche idea un po’ più concreta su come funzioni il loro Paese, mi sono trovata a constatare che, come sempre, alla base del mito c’è un fondo di verità. Non so dire se in Svezia si vive meglio che in Italia, né se si tratti di un agglomerato di persone emotivamente stitiche, ma mi è sembrato di capire che in effetti, per quanto riguarda gli usi e i costumi relativi alla vita sessuale, è emerso che la loro visione sulla questione è leggermente diversa dalla mia. Il femminismo, per esempio, è vissuto come una necessità imprescindibile nelle nuove generazioni: nessun ragazzo oggi potrebbe mai dichiarasi un maschilista convinto, sarebbe decisamente contro il sentire comune. Le donne, poi, mi spiegano che sono abituate a un assetto sociale in cui lavorano e vivono una vita emancipata da più generazioni rispetto a noi. È comprensibile dunque, alla luce di una realtà sociale più predisposta verso certi cambiamenti, contestualizzare leggi che traducano per iscritto un sentimento condiviso da un’intera società.

Questa è l’interpretazione più romantica, che attribuisce al carro della civiltà che avanza il traino di un sistema sociale in evoluzione. Poi c’è un discorso che riguarda invece ad esempio il numero crescente di stupri, con conseguenze anche estreme, come la chiusura di uno dei più grossi festival musicali in seguito a un numero molto alto di casi di violenze sessuali, tra molestie e abusi. Dunque dove esiste un problema in crescita, si tenta di arginarlo con misure più risolute, che in teoria servirebbero anche a facilitarne la prevenzione. Se è il linguaggio stesso a definire il pensiero, allora chiamando il sesso non consensuale “stupro” anche l’idea in sé dell’atto cambia la sua posizione all’interno delle categorie di ciò che è lecito e ciò che non lo è. Sembrerebbe così che a contribuire alla nascita di questa legge siano state due forze in contrapposizione: da un lato un’esigenza culturale, dall’altro un’emergenza sociale. La questione però, al di là della sua natura di carattere generale, entra inevitabilmente in contatto con la sfera personale. Ma non una sfera personale qualsiasi, quella più intima e complessa del genere umano: la sessualità.

Vista da una prospettiva strettamente disciplinare, l’idea che ci debba essere un segnale chiaro di consenso è perfettamente comprensibile nei casi in cui si trovano a relazionarsi due persone che non hanno nessun tipo di intimità. Se invece proviamo a cambiare il set in cui ci stiamo immaginando una situazione in cui si potrebbe verificare una violazione della legge, gli scenari possibili si moltiplicano e con questi anche i confini tra le percezioni dei singoli individui coinvolti. Sembra molto facile pensare come intervenga la legge in una situazione in cui c’è da dire di no, o da interpretare i messaggi del corpo di una persona che non sta acconsentendo a un approccio sessuale. Non appare invece altrettanto chiaro come si traduca questa formula quando si tratta di dire sì. C’è bisogno di esplicitare apertamente che la nostra volontà è quella di avere un rapporto consenziente?

La prima perplessità che può sorgere è che in un assetto sociale di questo tipo si rinunci alla spontaneità. E allora ci possiamo anche immaginare un futuro in cui dovremmo mettere la firma prima di ogni situazione promiscua per essere certi che alla fine non ci si ritorca contro. Non solo, la sessualità appartiene a una sfera comportamentale prettamente soggettiva, e credo sia capitato quasi a tutte le donne di ritrovarsi alcune volte a domandarsi se volessero effettivamente continuare, nonostante avessero dato palesemente segno di consenso all’inizio del rapporto sessuale. Ma se ci si ritrova a vivere questa esperienza come una violazione, è  possibile attribuire una qualche responsabilità all’altra persona coinvolta, nonostante non le siano stati dati dei segni verbalmente espliciti? Il tutto andrebbe ricollocato nel grande contenitore del buonsenso, e ognuno di noi, individui senzienti e autonomi, dovrebbe essere in grado di capire quando è davvero colpa di chi non capisce i nostri segni, o quando invece la responsabilità è di chi non ha comunicato bene. Non mi riferisco a chissà quale sorta di victim blaming, cercherei piuttosto di scavare più a fondo nei meandri delle personalità di ciascuno, chiedendomi perché capiti di non riuscire a dire di no, dove comincia l’auto-indulgenza e dove finisce la colpevolezza di chi ci circonda.

Da questo punto di vista, per esempio, un punto della legge svedese mi lascia perplessa: “The responsibility of men and boys must be clarified, while all victims must be aware of their rights and have the courage to report.” Non capisco perché, nel mondo del progresso femminile, il disegno della donna sia solo ed esclusivamente quello di vittima e mai di carnefice, e non vedo perché non venga incluso nel progetto di un futuro più giusto anche l’idea che non esista una guerra tra sessi che vede una categoria “cattiva” e l’altra succube. Trovo molto più sessista relegare le donne a un ruolo di creature incontrovertibilmente innocenti, prive di ogni forma di volontà, anche sbagliata e violenta, piuttosto che inserire nel discorso sulle violenze sessuali altre forme di soprusi che includono situazioni promiscue e potenzialmente traumatiche o lesive anche per gli uomini, non solo per le donne. È ovvio che le statistiche parlano e che i casi in cui sono le donne a subire questo genere di violenza sono molto più frequenti, ma penso anche che un discorso improntato sulla parità e sulla consapevolezza delle proprie responsabilità e dei propri diritti da parte di entrambi i sessi sia la via giusta da percorrere per il progresso. La legge svedese, come tutte le leggi che si muovono tra i confini sottili e nebulosi delle zone intime dell’essere umano, ha un grande valore di base, quello del rispetto della volontà altrui. Ma il rispetto, a mio parere, non ha genere.

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