Perché stanno rinascendo in tutta Italia comuni ed ecovillaggi

Tra i tanti, spesso asettici, trend statistici che riguardano i giovani, ce n’è uno particolarmente interessante. Negli ultimi anni stiamo assistendo a una sorta di ritorno alla terra che sta trascinando la nostra generazione verso nuove esperienze imprenditoriali nel campo dell’agricoltura, così come nella ricerca di nuove forme di vita aggregata in quelle che una volta si chiamavano “comuni”. Questo è l’atteggiamento di una generazione che sta cercando vie alternative, senza recidere i contatti con il mondo esterno, ma provando a ritagliarsi un proprio spazio di libertà e armonia attraverso il ritorno alla vita comunitaria e alla natura.

Ancora oggi, spesso, l’idea di comune è vista dall’opinione pubblica con un’accezione negativa per la cultura a cui da sempre afferisce, legata al clima di rivolta o di eccessi degli anni Sessanta e seguenti. Ma non è questo il caso dei giovani che nel 2018 aspirano alla comune in cerca di nuove vie per costruire il proprio futuro: laureati, tecnici, figli della buona borghesia metropolitana, o arrivisti delusi, la nuova ondata di ritorno alla terra coinvolge una generazione di giovani colti che rinnegano i loro legami con la frenesia metropolitana. La sveglia presto alla mattina, il rispetto delle stagioni e dei ritmi della natura: i boschi sono tornati a vivere, popolati da persone di qualsiasi età. Non solo turisti o appassionati occasionali, alcuni di loro vivono a stretto contatto con la natura tutto l’anno, aggregandosi in vere e proprie comunità. Le cosiddette “comuni” di cui tanto si parlava mezzo secolo fa, identificandole con le comunità hippy, non sono mai scomparse e, anzi, negli ultimi anni sono cresciute di numero in tutta la Penisola.

Il movimento comunitario moderno nasce in America intorno agli anni’60, e solo in seguito si svilupperà anche in Europa. All’inizio, le comuni sono luoghi dove i giovani rivoluzionari sperimentano forme alternative rispetto ai canoni della società, sia per protesta, sia per cercare un’alternativa al nucleo famigliare fondato su patriarcato e maschilismo. Il superamento della famiglia tradizionale e della proprietà viene spesso inteso in senso affettivo e sessuale, in un pensiero che troverà piena espressione nel ’68. Dopo quegli anni, molti sono i tentativi di creare un nuovo modello per la vita comunitaria, che unisca le questioni irrisolte delle nuove generazioni: l’agricoltura, l’esoterismo, le culture orientali, il marxismo, l’ecosostenibilità. La coesistenza di questi elementi, anche molto diversi tra loro, ha reso l’universo comunitario vario ed eterogeneo, pur mantenendo alla base la vita condivisa e il ritorno alla natura.

Comunità di Ovada – foto dall’ Archivio Storico Underground Stampa e Gigi Respighi

Negli anni le comuni hanno iniziato a organizzarsi in gruppi nazionali e internazionali, e da realtà isolate si sono affermati veri e propri movimenti, guidati da filosofie condivise. Oggi, quando parliamo di comuni, ci riferiamo a due fenomeni simili: le comunità intenzionali e gli ecovillaggi. Secondo la Fellowship for Intentional Communities (Fic), una comunità intenzionale corrisponde a “un gruppo di persone che hanno scelto di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune.” Più moderno è invece il termine che deriva dall’inglese eco-villages, concepito dal pensatore Robert Gilman nel testo Eco-villages and Susteinable Communities, scritto insieme alla moglie nel 1991. Si tratta in questo caso di “insediamenti umani che integrano varie attività, non producono danni all’ambiente naturale, si basano sullo sviluppo olistico e spirituale dell’uomo e possono continuare indefinitamente nel tempo.” La maggior parte di questi ultimi sono confederati a livello internazionale nel Global Ecovillage Network (Gen), mentre in Italia, dal 1996, è attiva la rete Rive, che aderisce alla Gen e riunisce tutti gli ecovillaggi della penisola.

Nel 2016, gli ecovillaggi associati alla Rive erano una ventina; undici villaggi risultano oggi in costruzione e altri dieci sono in fase di progettazione. È comunque difficile tenere il conto di quanti siano quelli presenti sul territorio, perché più della metà dei progetti fallisce nel giro di tre anni, a causa delle problematiche che un’organizzazione di questo genere deve gestire. Anche il numero di persone che vivono negli ecovillaggi è difficile da stabilire. Ad esempio, in Piemonte a Damanhur si tocca il picco di 600 persone, mentre in media le comuni ne ospitano circa una ventina. La crescita è comunque esponenziale, e capita sempre più spesso che il valore sociale del vivere comune venga riconosciuto dalla pubblica amministrazione. Nel nostro Paese, infatti, sono in crescita le amministrazioni locali che promuovono bandi per l’assegnazione di luoghi destinati al co-housing sociale. Casi di questo genere si sono registrati in Lombardia, Toscana e Emilia-Romagna, ma anche altrove. La maggior parte dei nuovi membri, che siano volontari a breve o lungo termine, è formata da giovani insoddisfatti dalla vita di città, critici rispetto al modello capitalista della società occidentale e desiderosi di donare il proprio tempo a un nuovo modo di concepire la propria quotidianità e all’agricoltura. È quello che è successo a Giorgio, ragazzo torinese di 23 anni che da diversi anni passa parte del suo tempo in ecovillaggi italiani ed europei. “Finito il liceo, a 19 anni, sono partito per la Spagna, dove ho fatto la mia prima esperienza in un ecovillaggio,” racconta. “Avevo trovato il posto su un sito internet che organizza scambi di questo genere.” La sua prima esperienza, continua, è stata molto intensa. “Mi ha aperto la mente, così ho deciso di continuare. Ora di anni ne ho 23, e nel frattempo ho fatto molte altre esperienze, in particolare a Malta e in Toscana, nella zona di Siena.”

La Comunità Damanhur e i suoi Templi dell’Umanità

Secondo Giorgio la realtà delle comuni è estremamente ampia ed eterogenea al suo interno. “La costante è quella del luogo, sempre immerso nella natura. A spingermi è stata infatti la mia vicinanza ai temi del cibo genuino, dell’agricoltura e dell’artigianato: ho sempre cercato luoghi che mi potessero insegnare qualcosa, che fosse tessere o costruire case in pietra.” Giorgio fa parte di quei giovani che dopo aver concluso le scuole superiori hanno deciso di prendersi del tempo per sé. Ma gli ecovillaggi accolgono anche persone più mature, deluse dalla vita di città. “Durante le mie esperienze,” racconta ancora Giorgio, “Mi sono accorto che la maggior parte delle persone che entrano in comune sono divise in due grandi gruppi. Ci sono persone della mia età che hanno appena finito gli studi, hanno voglia di scoprire il mondo e nutrono una sorta di ribellione nei confronti del sistema, e poi ci sono quelle persone sopra i 30 anni che escono da una situazione di stress e che non riescono più a sostenere la vita metropolitana.” Secondo Giorgio non è solo una questione di stress. “Credo che nella nostra società sia forte il bisogno di capire cosa sia andato storto negli ultimi decenni e la voglia di tornare a un sistema di vita più semplice e genuino. Lo stress è un sintomo, ma non è utile concentrarsi sul sintomo, la causa è a un livello più profondo: spirituale e sociale.”

Foto di Volkan Kiziltunç

Il secondo gruppo di ecovillaggisti sta diventando sempre più corposo. Ne fa parte Giulio, membro della comunità di Gaia Terra in provincia di Udine e socio fondatore di Agroselectiva, azienda specializzata nella selezione di varietà di canapa. Giulio ha circa 30 anni e ha alle spalle un passato complicato. “Vengo da una famiglia molto ricca, che poi è andata in fallimento ed è rimasta con milioni di euro di debiti,” racconta. “D’estate, per guadagnare dei soldi, facevo il bagnino e nella vita pensavo sarei finito a fare il meccanico. Mi sono ritrovato quasi adulto senza nessun input, ero solo stressato e non trovavo un senso nella mia vita. Grazie alle esperienze negli ecovillaggi e alle persone che ho conosciuto, sono cresciuto e maturato.” Giulio ha colto quest’occasione per rimettersi in gioco: “La nostra generazione deve fare massa critica e provare a cambiare davvero la società. In definitiva, dobbiamo tutti insieme trovare una linea sostenibile e puntare all’autosufficienza.”

Questo nuovo periodo d’oro degli ecovillaggi non capita per caso, ma è sintomo di una sempre maggiore insoddisfazione rispetto alla fase che la nostra società sta attraversando, e ha lasciato increduli anche i pionieri delle comuni italiane. Il primo a dirsi sorpreso è Mimmo Tringale, direttore della storica rivista Terra nuova, e fondatore e presidente di Rive per oltre dieci anni.“Stiamo assistendo a una crescita senza precedenti,” ci dice. “Io non sono giovanissimo, ho 63 anni, e faccio parte della prima generazione che ha portato alla nascita di Rive. Quando la rete è nata ricordo che ero preoccupato proprio perché aderivano pochi giovani. Poi è successo che se ne avvicinassero sempre di più e ora sono i loro progetti a trainarla. Questo è un elemento sicuramente positivo per l’ambiente culturale e sociale in cui viviamo, dove l’utopia sembra qualcosa che appartiene al passato.”

Secondo Tringale, la vera forza della nuova generazione sta nella progettualità e nell’organizzazione, a differenza della prima ondata, mossa soprattutto dall’idea di lottare contro il sistema. “Oggi l’ecovillaggio mette insieme esperienze eterogenee, tutte spinte da un’insoddisfazione verso la società attuale e il desiderio di renderla più umana. La ricerca di realtà a misura d’uomo, insieme all’uso di nuovi strumenti di comunicazione e di democrazia sono la vera forza della nuova stagione degli ecovillaggi: si sta creando davvero qualcosa di nuovo per il futuro.” A spingere i giovani a un ritorno alla terra è anche il precariato. “Lavorare nell’agricoltura permette di sviluppare la propria creatività: non c’è un padrone. Quella di dare vita ad un’azienda agricola, così come ad un ecovillaggio, è un’idea che fa innamorare molti giovani, anche se poi è molto difficile portare avanti questi progetti senza una precisa organizzazione e i giusti strumenti.”

Uno dei concetti più interessanti legati agli ecovillaggi è quello della resilienza: nella tecnologia dei materiali per resilienza si intende la capacità di assorbire un urto senza rompersi; in senso più ampio è la capacità di qualsiasi sistema di ricostruirsi a seguito di un cambiamento subito dall’esterno, e mantenere il proprio funzionamento restando sensibile alle opportunità positive che la vita offre. Per gli ecovillaggi, che si definiscono “comunità resilienti”, ciò significa poter scegliere determinati stili di vita, produrre autonomamente il proprio cibo, così come poter dare risposte concrete ai propri bisogni e alle grandi domande delle future generazioni. Allo stesso tempo però la reazione nei confronti del mondo esterno deve essere propositiva e affiancare l’autoproduzione all’interconnessione: gli ecovillaggi creano situazioni di scambio di saperi, prodotti e strumenti con le realtà che li circondano. I membri, da liberi cittadini, fanno pieno uso delle istituzioni della società civile come le scuole e gli ospedali.

Foto di Volkan Kiziltunç

Mi fermo un attimo a pensare alla mia infanzia, alla mia adolescenza, agli orizzonti malinconici della nostra Italia. Non so se vi è mai capitato, ma passare qualche giorno d’estate rifugiati in un angolo disperso dell’Appennino tosco-emiliano può rivelarsi un’ottima scelta per abbandonarsi al relax e lasciarsi alle spalle l’arsura metropolitana, tra prati in cui riposarsi e corsi d’acqua in cui rinfrescarsi. Dalle zone di San Bendetto in Alpe, in provincia di Forlì, dove l’imponente cascata del fiume Acquacheta attira ogni giorno visitatori, ai boschi attorno a Palazzuolo Sul Senio, piccolo paesino attraversato dal corso d’acqua omonimo, situato nel nord della Toscana, non è raro imbattersi in gruppi di giovani che vendono caffé per racimolare qualche soldo, o in qualche donna più anziana, dai capelli lunghi e grigi e il seno scoperto, che si lava nel fiume. La stagione d’oro delle comuni italiane è appena iniziata.

 

Foto copertina di Foto di Volkan Kiziltunç

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