Chi è Clarice Lispector, la scrittrice che già nel 1922 fuggì bambina dall’Ucraina invasa dai russi - THE VISION

In pochi sanno che esattamente cento anni fa, nel 1922, la famiglia di quella che oggi è considerata una delle più grandi scrittrici brasiliane di tutti i tempi, Clarice Lispector, fu costretta ad abbandonare l’Ucraina, diventata terra di conquista della Russia. Insieme alle figlie Leah, di dieci anni, e Chaya (poi Clarice), che doveva ancora compierne due, i coniugi Lispector riuscirono ad attraversare il confine con la Romania dopo un viaggio estenuante e si diressero in Germania. Da Amburgo si imbarcarono poi per il Brasile, dove tutti cambiarono nome.

In quegli anni la situazione in Ucraina era rovente. Dopo il 1917, in seguito alla Rivoluzione d’ottobre, diverse zone dell’ex impero dichiararono la loro indipendenza. Tra queste l’Ucraina, insieme alla Polonia, alla Finlandia e all’Estonia. La Repubblica Popolare Ucraina vedeva alla guida Symon Petljura, ma ben presto entrò nelle mire sia dell’Armata Rossa dei bolscevichi che di quella Bianca dei controrivoluzionari, appoggiata da potenze straniere come Stati Uniti, Francia e Regno Unito. A farne le spese fu il popolo ucraino, specialmente le famiglie ebree, come quella dei Lispector. Fu la stagione dei pogrom, con le sommosse antisemite che causarono più di cinquantamila morti e violenze quotidiane ai danni degli ebrei. I principali responsabili furono le truppe dell’Armata Bianca, ma la persecuzione avvenne anche per mano degli stessi nazionalisti ucraini. Persino Petljura fu accusato di violenze contro gli ebrei, anche se ci furono poi diverse versioni sul suo reale coinvolgimento, e quando l’Ucraina fu definitivamente conquistata dai bolscevichi e annessa all’Unione Sovietica, nata nel dicembre del 1922, egli stesso scappò in Europa. 

Symon Petljura
Vladimir Ilyich Ulyanov Lenin ispeziona le truppe russe a Piazza Rossa, Mosca 1919

Nel 1926, a Parigi, mentre stava facendo una passeggiata fu raggiunto da Sholom Schwartzbard, anarchico ebreo nato in Ucraina, che lo uccise con sette colpi di pistola per poi consegnarsi alla polizia dicendo: “Ho ucciso un grande assassino”. La famiglia Lispector trovò la sua pace in Brasile, nel Pernambuco, ma restarono i traumi e le ferite. Decisero così di recidere qualsiasi legame con la loro terra d’origine, e Clarice crebbe da vera e propria brasiliana. Quando le capitava di fare domande sull’Ucraina, i genitori le parlavano degli orrori provati in quegli anni, degli ebrei costretti a nascondersi e dei russi che intanto erano impegnati alla presa di Kiev e delle principali città. Clarice non tornerà mai più in Ucraina. D’altronde non ricordava niente di quei luoghi, era così piccola che, come scrisse, “su quella terra non ho letteralmente mai messo piede: mi hanno portata in braccio”.

Clarice perse la madre all’età di nove anni e il padre dieci anni più tardi. Orfana dei genitori e della propria patria, iniziò a scrivere il suo primo romanzo, Vicino al cuore selvaggio, durante il corso di Giurisprudenza all’Università di Rio de Janeiro. Quando l’opera vide la luce, i critici letterari restarono ammaliati da uno stile che non si era mai visto in Brasile. Lispector considerava la trama quasi marginale, si affidava più all’introspezione a un flusso di coscienza feroce, quasi disturbante. Tra le sue letture spiccavano Virginia Woolf e James Joyce, quindi certe influenze erano inevitabili, ma Lispector aggiunse un tocco di mistero e di intangibilità trasformando le sue opere in una rappresentazione di se stessa come carne viva, pulsante, dai tratti quasi ferini. Con gli animali, d’altronde, Lispector aveva un rapporto viscerale, d’amore e conflitto, essendo stata morsa sia da un serpente che da un cane. Lei stessa scriveva: “Non essere nata animale è la mia più grande nostalgia”. Era di una bellezza disarmante. Gli occhi da felino, i lineamenti marcati, sembrava una diva di Hollywood. Questo aspetto, unito a una scrittura quasi ultraterrena ed estremamente cinica, portò Gregory Rabassa, uno dei suoi traduttori, a scrivere: “Se Kafka fosse donna e brasiliano, e se Marlene Dietrich fosse scrittrice, sarebbero Clarice Lispector”.

Franz Kafka

Nel 1943 sposò Maury Gurgel Valente, un diplomatico brasiliano, e lo seguì nei suoi viaggi di lavoro in giro per il mondo. L’anno successivo approdò in Italia, a Napoli, e come spinta da qualche congiunzione astrale, il suo arrivo coincise con avvenimenti storici irripetibili. Giunse infatti nella città partenopea durante quella che fu l’ultima eruzione del Vesuvio. “Quando piove c’è ancora fumo”, scrisse in una lettera inviata ad amici. E poi: “Qui le persone sembrano vivere per brevi istanti. E tutto ha un colore sbiadito, ma non come se avesse un velo in cima: questi sono i suoi veri colori”. Invece di restare all’ambasciata brasiliana come una classica “moglie-di” dell’epoca, decise di lavorare all’ospedale militare di Napoli come infermiera. C’era ancora la guerra e lei si prendeva cura dei feriti. Visitava la città e prendeva appunti: “Le strade, principalmente i vicoli, sono tappezzate di bambini. Restiamo scioccati passando tra di loro: nei vicoli tutti vivono per strada, cucinano anche. Ci sono bambini che gattonano, hanno un aspetto sporco e sano al tempo stesso”.

Vesuvio durante l’eruzione del 1944

L’anno seguente visitò Roma, dove incontrò il poeta Giuseppe Ungaretti, che rimase così colpito dalla donna da tradurre parti del suo primo romanzo. Anche Giorgio De Chirico cedette al suo fascino. Decise di farle un ritratto, e sempre secondo la logica misteriosa delle coincidenze legate alla sua vita, questo avvenne proprio il giorno in cui fu annunciata la liberazione dell’Italia dal regime nazifascista. Proseguì quindi a seguire il marito in giro per l’Europa e negli Stati Uniti, continuando a pubblicare romanzi. Ebbe due figli. Si portava con sé ogni ispirazione che le avevano dato i tanti luoghi visitati, ma anche un tratto d’inquietudine che riversava nelle sue opere e che faceva parte della sua disposizione. Ne La passione secondo G.H., ad esempio, scrive di una donna che si ritrova a mangiare uno scarafaggio in seguito a un’esperienza mistica, ed è l’apoteosi della vicinanza alle tematiche kafkiane quali l’angoscia e l’impotenza dell’essere umano.

La liberazione dell’Italia, 25 aprile 1945

La sua inquietudine si acuì in seguito alla separazione dal marito e al ritorno in Brasile con i figli. Le sue opere divennero ancora più tortuose, incastonate in un paesaggio di desolazione, interrogativi sul mistero della vita e della morte. Gli anni Sessanta furono per lei un periodo di vera e propria alienazione. Una notte prese un sonnifero e si addormentò lasciando una sigaretta accesa sul letto. Rimase ferita e rischiò di perdere la mano destra in seguito alle ustioni. La vita per lei era immediata e ineluttabile, come scrisse nel suo capolavoro Acqua viva: “Il mondo non ha ordine visibile e io ho solo l’ordine del respiro. Mi lascio accadere”. L’opera abbandona definitivamente ogni forma di trama, è un unico flusso di coscienza che si riallaccia a riflessi primitivi dell’esistenza, a partire dall’attesa della morte e della vita stessa che diventa insostenibile per sua natura. “Água viva”, in brasiliano, vuol dire anche medusa e rispecchia la personalità urticante di Lispector, distante da qualsiasi convenzione sociale. Chiamata nel 1969 a intervistare Pablo Neruda, riuscì infatti a sconvolgerlo quando già alla terza domanda gli chiese, come se fosse il quesito più semplice del mondo: “Chi è Dio?”. Da parte sua rilasciò soltanto un’intervista televisiva, nel 1977 alla Tv Cultura di San Paolo. Nel suo stile, tra una sigaretta e l’altra, disse all’intervistatore: “Io ora sono morta. Vediamo se resuscito di nuovo. Per il momento sono morta, sto parlando dalla mia tomba”. Morirà pochi mesi dopo per un tumore all’utero.

Pablo Neruda

Oggi, a Rio de Janeiro, sulla spiaggia di Copacabana, i turisti possono ammirare una statua dedicata a lei. I negozi di souvenir della zona vendono le sue foto come fossero dei santini. Per i brasiliani Clarice Lispector è l’equivalente di una nostra fusione tra Dante e Sophia Loren e rivendicano con orgoglio la sua appartenenza al Brasile. Nei suoi libri la scrittrice ha spesso parlato del tema dell’abbandono della madre, ma senza forse ammetterlo nemmeno a se stessa anche della sua terra d’origine.

Oggi, a cent’anni di distanza da quando la piccola Chaya lasciava l’Ucraina, tante bambine stanno facendo lo stesso, rifugiandosi in Europa per fuggire dalle atrocità della guerra. Forse nessuna di loro cambierà nome, forse nessuna diventerà scrittrice, ma si spera che molte di loro potranno continuare la loro vita e possibilmente se lo vorranno tornare nelle proprie case, con le proprie famiglie, ritrovare vivi i propri papà, fratelli e zii; altre invece si faranno una nuova vita altrove, inserendosi in altre culture. Queste eterne Chaya, destinate nella Storia a fuggire dalla violenza, si porteranno però con sé la stessa cicatrice di Lispector, a prescindere da ciò che diventeranno e dalle sorti del loro e del nostro pianeta.

Segui Mattia su The Vision | Facebook