Tra consumismo e fuga dalla morte, con “Le città invisibili” Calvino predisse la società di oggi - THE VISION

Quando Italo Calvino pubblicò Le città invisibili il mondo era in piena Guerra Fredda, la Germania era divisa in due e l’Italia si trovava nel pieno degli anni di piombo. Era il 1972 e quella realtà oggi ci sembra enormemente distante. Tuttavia, è interessante provare a leggere quest’opera, che naturalmente parlava al contesto civile dell’epoca, con gli occhi di un cittadino del ventunesimo secolo. Perché in alcuni passaggi Calvino sembra davvero parlare a noi.

Il muro di Berlino, 1970

Le città invisibili raccoglie cinquantacinque ritratti di città immaginarie, talvolta surreali, nelle quali si intrecciano dimensioni profonde della società umana. Per esempio, la città di Leonia delinea un’immagine di quella mentalità consumistica che al tempo iniziava a influenzare le abitudini delle persone, e a cui oggi siamo totalmente assuefatti. “La città di Leonia rifà sé stessa tutti i giorni – scrive Calvino.  – Ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio”. A Leonia la durata degli oggetti è brevissima, i suoi abitanti percepiscono come necessario ciò che è del tutto superfluo. È il principio dell’economia di consumo: chi produce crea un bisogno per dare respiro al mercato, anche se questo bisogno in realtà non è così urgente. In questo modo si fa largo il desiderio di possedere sempre il meglio e gettare ciò che non emana più il profumo della novità. È una società tanto effimera quanto fragile.

L’ostentazione di prodotti che diventano obsoleti in un batter d’occhio non è la sola scala di misura sociale di questa città. “Ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere di cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità”. Figure centrali a Leonia sono gli spazzaturai, che ogni giorno portano fuori dalle mura della città gli scarti dei cittadini. Insieme alle strade puliscono la coscienza degli abitanti, pronti a ricominciare a produrre nuove cose da gettare presto, chiudendo naturalmente gli occhi sulle conseguenze del loro modo di vivere. Basta leggere i reportage di ciò che accade nei Paesi del Golfo di Guinea, trasformati in discariche abusive da milioni di tonnellate di nostri scarti, perché l’immagine di Leonia balzi subito alla mente.

Secondo un recente report dell’Onu soltanto il 17% dei rifiuti elettronici europei e statunitensi viene raccolto e riciclato correttamente, su un totale di 53 milioni di tonnellate. Ma del resto, nel nord del mondo come a Leonia, soddisfare i propri capricci ha la precedenza su tutto. “Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzatura nessuno se lo chiede”, scrive Calvino. Gli abitanti di questa città sono talmente schiavi del proprio modo di vivere che sono incapaci di invertire la rotta anche quando sono le conseguenze del loro stesso egoismo a minacciarli. La precarietà della società del consumo si mostra col tempo e risulta irreversibile: le montagne di rifiuti, infatti, finiscono per sommergere Leonia cancellandola. Ma allo stesso modo gli abitanti delle città vicine “Sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire sé stesse, allontanare i nuovi immondezzai”. Illudendosi, forse, di essere esenti dallo stesso destino.

La società del consumo, come ormai è noto, si sviluppa partendo da un assunto impossibile: immaginare uno sviluppo infinito in un mondo in cui le risorse sono limitate. Ci convinciamo di continuo che la crescita economica sia potenzialmente inarrestabile, illudendoci di non avere confini. E proprio nella negazione del limite sta una delle caratteristiche chiave della società attuale, in cui si allontana il più possibile la consapevolezza della transitorietà della nostra vita. È ciò che fanno gli abitanti della città di Eusapia: una città che fugge dalla morte esattamente come facciamo noi. “Non c’è città più di Eusapia propensa a godere la vita e a sfuggire gli affanni. E perché il salto dalla vita alla morte sia meno brusco, gli abitanti hanno costruito una copia identica della loro città sottoterra. I cadaveri, seccati in modo che ne resti lo scheletro rivestito di pelle gialla, vengono portati là sotto a continuare le occupazioni di prima”. Calvino delinea una società che ostenta la vita cercando di cancellare la morte, tanto da costruire una copia della propria città abitata dai suoi morti – cosa che in effetti facevano anche gli egizi. Questo dovrebbe servire a rendere meno traumatico il momento del distacco, ma finisce per confondere gli abitanti, che si ritrovano così ossessionati dalla città-copia da confonderla con la realtà stessa. “Dicono che nelle due città gemelle non ci sia più modo di sapere quali sono i vivi e quali i morti”. Se è vero che l’immagine di Calvino richiama direttamente il culto dei morti nell’antichità, bisogna ammettere che questa metafora si cala perfettamente nell’attualità. Nel paradosso degli uomini che inseguono l’aldilà per cercare di allontanarsene emerge una percezione distorta e paranoica della morte che si riflette sulla vita reale.

Dalla descrizione dei cittadini di Eusapia permea soprattutto un’enorme paura dei cambiamenti. Per paura di guardare avanti finiscono per rigirarsi continuamente nel proprio passato. È un tratto comune anche a un’altra delle città calviniane, che prende il nome di Eutropia. “Entrato nel territorio di Eutropia, il viaggiatore vede non una città ma molte, di eguale grandezza e non dissimili tra loro. […] Eutropia è non una ma tutte queste città insieme; una sola è abitata, le altre vuote”. Quando i suoi abitanti si stufano delle proprie occupazioni, delle relazioni sociali e della loro vita, si spostano tutti insieme nella città vicina. Come i pezzi di una scacchiera, i cittadini riprendono la propria vita cambiando occupazione, famiglia, abitazione, ma ricreando poi una società identica a quella precedente. “Così la loro vita si rinnova di trasloco in trasloco. […] La città ripete la sua vita uguale spostandosi in su e in giù sulla scacchiera vuota. Gli abitanti tornano a recitare le stesse scene con attori cambiati”. È una città in cui tutto cambia per finta, mentre alla fine le cose restano sempre uguali. È un luogo dove il desiderio di stravolgere la realtà finisce per ricrearne una in cui le dinamiche sono identiche e a cambiare sono soltanto gli attori.

In questo mondo che finge di cambiare non possiamo che rivedere i tentennamenti con cui, oggi, si affrontano le sfide cruciali che segneranno il nostro futuro. La transizione ecologica, la lotta contro le disuguaglianze, le battaglie per i diritti civili: le partite attraverso cui si delineerà la società di domani vengono costantemente affrontate con apparente risoluzione ed evidente approssimazione. Vogliamo cambiare ma pochi sono disposti ad accettare le rinunce e i sacrifici che il cambiamento necessariamente impone. Il risultato, come in Eutropia, è una traslazione in cui a mutare è solo la superficie, mentre il paradigma rimane identico. Così ci ritroviamo di continuo imbrigliati nelle stesse problematiche che si trascinano nel tempo.

Tra le pagine de Le città invisibili è facile ritrovarsi a osservare il mondo attuale trattando Italo Calvino come un contemporaneo. Le nostre fragilità infatti si rispecchiano in quelle che lo scrittore mostrava cinquant’anni fa. Forse perché anche noi, proprio come i cittadini di Eutropia, ci convinciamo di cambiare quando le inconsistenze della nostra realtà, in fondo, non ci pesano così tanto. “Sola tra tutte le città dell’impero, Eutropia permane identica a sé stessa”.

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