Il problema del nostro patrimonio artistico non è Chiara Ferragni. E se lei lo promuove è solo un bene.

Sabato scorso la pagina Instagram della Galleria degli Uffizi ha pubblicato un post che ritraeva Chiara Ferragni di fronte alla Venere di Botticelli, con una descrizione che paragonava i canoni di bellezza del Rinascimento a quelli odierni. L’influencer si trovava nel museo per un servizio fotografico per Vogue Hong Kong e la direzione ha intelligentemente pensato di sfruttare l’occasione anche per scattare qualche foto e postare qualche storia per fare promozione. La foto ha però scatenato un putiferio che ha coinvolto non solo chi critica Ferragni per il solo oltraggio di esistere, ma anche esponenti della cultura italiana che hanno subito gridato all’o tempora, o mores! Un dibattito che può essere riassunto con quel meme che mette a confronto il dinosauro di Toy Story e quello di Jurassic Park: italiani che si indignano per l’incuria a cui viene quotidianamente sottoposto il nostro patrimonio artistico-culturale vs. italiani che si indignano se Chiara Ferragni va agli Uffizi.

Si tratta infatti di una polemica che non ha senso di esistere: non è di certo la prima volta che una persona famosa collabora con un museo o una galleria per ragioni pubblicitarie, né dobbiamo interpretarlo come un funesto segno dei tempi. Anzi, in un momento tanto drammatico come quello che sta attraversando ora il settore culturale, in cui 1 museo su 8 rischia di non riaprire più, una storia su Instagram in cui una famosa influencer dice: “Questo è uno dei musei più belli al mondo, venite a visitarlo” dovrebbe essere l’ultimo dei nostri problemi.

Chi accusa gli Uffizi di non sapere più cosa inventarsi, evidentemente non si è accorto che dall’inizio dell’anno la Galleria ha adottato una nuova strategia di comunicazione, per cui la partnership con una testimonial come Ferragni è solo l’ultimo tassello. Ad esempio, è approdata su TikTok, dove i tanto vituperati “balletti” vengono eseguiti dalle opere d’arte: un’operazione di marketing tanto curiosa quanto di successo da meritarsi un articolo sul New York Times. “Potrà sembrare stupido”, ha raccontato al quotidiano americano la social media manager Ilde Forgione, “ma a volte devi dare alla gente un punto di vista diverso, qualcosa che dica ‘L’arte non è noiosa, non è solo quello che impari a scuola, ma è qualcosa che puoi anche scoprire da solo’”. Gli Uffizi non sono l’unico museo a sfruttare il social network preferito della Gen Z: anche il Prado di Madrid, il Rijksmuseum di Amsterdam, il Naturkundemuseum di Berlino e il Grand Palais di Parigi hanno aperto i loro account, riunendosi nella “Settimana dei musei” organizzata su TikTok lo scorso giugno. E, prima di Ferragni, l’altra influencer a prestare la sua notorietà per il museo è stata proprio una tiktoker, Martina Socrate. Un bel cambiamento per un’istituzione culturale che fino a pochi mesi fa non aveva nemmeno una pagina Facebook.

Chi si scandalizza perché Chiara Ferragni fa quello che è il suo lavoro, l’influencer, probabilmente non ha ben chiaro che i musei non vivono d’aria, ma sono aziende a tutti gli effetti. Che ci piaccia o no, non possiamo pretendere che a visitarli siano solo i critici d’arte e chi di cultura si occupa per lavoro. Non solo perché così non assolverebbero la loro funzione sociale, ma anche perché non sopravviverebbero. Si può criticare la progressiva privatizzazione delle istituzioni museali, l’esternalizzazione dei servizi che ha aumentato il precariato dei dipendenti, ma tutte queste sensate e necessarie critiche mostrano con maggiore forza che il problema non è e non può essere un’influencer al museo. A indignarci dovrebbe infatti essere la mancanza di una promozione culturale che valorizzi l’immenso patrimonio che abbiamo nel nostro Paese: il che non significa fare qualche triste pubblicità progresso da mandare su Rai1, ma regolarizzare i lavoratori del settore, migliorare le infrastrutture (anche in termini di accessibilità), incoraggiare il turismo responsabile, favorire la digitalizzazione e la riqualificazione dei siti a rischio.

Galleria degli Uffizi, Firenze

È chiaro a tutti che non sarà qualcuno di famoso a risolvere questi problemi complessi e strutturali, ma perché accanirsi nei suoi confronti e non verso chi ha permesso negli anni che si arrivasse a questo stato delle cose? La presenza di un testimonial non può di certo essere un danno. Jay-Z e Beyoncé nel 2018 hanno scelto il Louvre di Parigi come location per il loro videoclip “Apeshit”, operazione che si crede abbia incrementato del 25% i visitatori del museo. Anche restando in Italia, lo stesso giorno in cui è esplosa la bomba sugli Uffizi, Mahmood annunciava di aver girato il video del suo ultimo singolo “Dorado” al Museo egizio di Torino. Forse di Sethi II ci frega meno che della Venere di Botticelli, ma nessuno si è strappato i capelli per l’indignazione. La stessa Chiara Ferragni poche settimane fa aveva documentato su Instagram il suo tour privato della Cappella Sistina, di cui avevano fruito anche il calciatore Daniele De Rossi e gli attori Isabella Ferrari, Salvatore Esposito e Ludovica Bizzaglia.

Chi critica questo tipo di iniziative sembra quasi ignorare che l’uso dei testimonial è solo una piccola parte del grande lavoro di promozione che tutte le istituzioni culturali fanno. Lamentarsi perché un museo “ha svenduto la propria immagine a un’influencer” per  un post su Instagram è follia: come dimostra proprio la questione Ferragni e Uffizi, la sua visita fa parte di una campagna ben strutturata che senza ombra di dubbio vedrà la partecipazione di altri voti noti e appetibili per un pubblico giovane. E il fatto che gli Uffizi stiano su TikTok a memare con le canzoni di Todrick Hall non significa affatto che abbiano abbandonato i mezzi di comunicazione più canonici. Le pagine Facebook e Instagram di Treccani comunicano attraverso i meme, spiegano le parole citando le canzoni di Tutti Fenomeni e fanno panel di linguistica con Myss Keta e Nicola Lagioia, ma ciò non implica che sia passata dalle enciclopedie a fare shitposting. Eppure con questa strategia, dai 4mila like su Instagram del dicembre 2018 è passata ai 65mila attuali.

Myss Keta

Treccani è l’esempio perfetto di quanto sia importante impostare la propria comunicazione su dei linguaggi vicini alle nuove generazioni: da “quello che vende le enciclopedie porta a porta”, l’Istituto è diventato “quello che ti spiega Gilles Deleuze con i meme dank”. Sbaglia il critico Tomaso Montanari quando afferma con sicurezza che nessun adolescente andrà agli Uffizi perché c’è stata Chiara Ferragni: nessun adolescente andrà agli Uffizi grazie a una comunicazione culturale che ragiona come se fossimo negli anni Cinquanta, incapace non solo di capire il presente, ma anche solo di guardarlo con franchezza. Mentre gli intellettuali piangono per la mercificazione dell’arte, i musei si svuotano. Ed è inutile fare accorati appelli e lanciare strali contro queste operazioni “culturalmente miserabili e indegne di una istituzione culturale pubblica”: i musei continuano a svuotarsi.

Allora forse sarebbe il momento di mettere da parte l’idea che l’arte sia soltanto il giocattolo di critici e intellettuali che un’influencer non è degna di toccare. Perché questo ragionamento implica che a poterla toccare allora siano solo gli “eletti”, e tutti gli altri possono solo ammirarla da lontano. Anzi, nemmeno, visto che è considerato un sacrilegio persino apprezzarla da un post di Instagram. Chiara Ferragni non risolleverà la sorte dei beni culturali italiani, né è stata chiamata per farlo: per quello serve la progettualità politica che, finora, non abbiamo ancora delegato agli influencer. Se la sua visita agli Uffizi incuriosirà anche uno solo dei suoi 20,5 milioni di follower sparsi in tutto il mondo non potrà che essere una buona notizia, senza contare gli introiti per l’affitto degli spazi per lo shooting, organizzato con la First Initiative Foundation di Hong Kong, una no profit del mondo dell’arte. Possiamo illuderci che esista l’arte per l’arte, che i soldi non abbiano nulla a che fare con quadri, sculture e installazioni, che i giovani si interessino all’arte di loro iniziativa. Nel 2018 meno dell’1% del bonus cultura per i neomaggiorenni è stato speso in visite a monumenti e musei. Vogliamo dare la colpa a Chiara Ferragni anche di questo?

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