Come l’industria della bellezza ha inventato il problema della cellulite per farci un pacco di soldi - THE VISION

Nel suo classico del 1991 Il mito della bellezza Naomi Wolf scriveva: “Le qualità che, in un certo periodo storico, vengono definite come tratti di bellezza delle donne, non sono altro che simboli del comportamento femminile che la società di quel periodo considera desiderabili”. Secondo la scrittrice, nella società contemporanea il concetto di bellezza femminile – ma non solo – non riguarda quindi la semplice valorizzazione di un insieme di qualità estetiche, ma riflette, piuttosto, la capacità della donna di adeguarsi a uno standard socialmente imposto, variabile nel tempo e nello spazio a seconda dei modelli economici e culturali di riferimento. È con questo presupposto che, all’inizio del secolo scorso, in Europa e negli Stati Uniti cominciò a diffondersi quella che, molti anni più tardi, sarebbe stata riconosciuta come una vera e propria invenzione: la cellulite.

Naomi Wolf

Fino al 1873, quando i medici francesi Émile Littré e Charles-Philippe Robin introdussero il termine nella dodicesima edizione del Dizionario di medicina francese, nessuno aveva mai sentito parlare di “cellulite”. Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tuttavia, le scienze mediche e chirurgiche attraversarono un periodo di rapida evoluzione, grazie all’introduzione del metodo scientifico e all’invenzione dell’anestesia. La diffusione di nuove conoscenze si accompagnò così a quella di nuovi termini, tra cui cellulite, una particolare forma di infezione batterica che poteva colpire qualsiasi parte del corpo e che, soprattutto, non aveva nulla aveva a che fare con l’accumulo di grasso o di liquidi sottocutanei.

Nello stesso periodo, un’ulteriore novità fu rappresentata dalla nascita nella società francese dell’industria cosmetica, culminata con l’apertura, nel 1895, del primo salone di bellezza moderno. Rispetto a oggi, tuttavia, erano diverse le competenze delle persone che vi lavorano. Come nota l’esperta di storia europea e docente presso l’Università dell’Alabama Holly Grout nel suo libro The Force of Beauty: Transforming French Ideas of Femininity in the Third Republic, i saloni di bellezza diventarono in breve tempo punto d’incontro di discipline anche molto diverse fra loro: il confine fra estetica, salute, chimica e medicina era, quindi, molto sfumato.

A interferire improvvisamente con la proliferazione dell’industria cosmetica arrivò, nel 1914, la prima guerra mondiale: se per lo sviluppo del settore terziario il conflitto costituì un’inevitabile freno, tuttavia, per le donne rappresentò anche un’inaspettata occasione per emanciparsi dai ruoli di genere tradizionali e varcare per la prima volta il confine delle mura domestiche, a causa della necessità di ricoprire ruoli prima riservati esclusivamente ai mariti, ora chiamati a combattere. Con la fine della guerra le donne occupate nell’industria bellica furono poi costrette ad abbandonare la posizione conquistata, ma lo stesso non valse per quelle occupate in alcune strutture specializzate come le operaie dell’industria tessile o le impiegate – né per molte donne impegnate in professioni liberali, come giornaliste o mediche. Al di là del ruolo ricoperto, gli anni del conflitto segnarono in modo indelebile la consapevolezza di tutte coloro che avevano sperimentato anche solo temporaneamente l’autonomia economica e che ora ambivano a studiare, frequentare l’Università e partecipare attivamente alla vita pubblica. Soprattutto, però, la possibilità di occupare nuovi ruoli sociali aveva donato alle donne – e quindi ai loro corpi – una nuova, inaspettata visibilità.

L’estetica cosmetica a inizio 1900

Dal dopoguerra in poi, l’aumentata presenza delle donne nelle strade cittadine e nei luoghi di lavoro cominciò a riflettersi in una sempre più frequente rappresentazione della figura femminile anche in ambito mediatico, soprattutto nelle campagne pubblicitarie; nel frattempo, il fatto che una parte della categoria femminile – quella delle classe media – potesse finalmente disporre di denaro proprio rese le donne il target preferito dell’industria cosmetica, la cui popolarità stava continuando a crescere. La scelta di rivolgersi quasi esclusivamente alle donne non fu, tuttavia, una mera esigenza di marketing: in una società patriarcale come quella francese, infatti, il fatto che le donne aspirassero ad abbandonare la loro funzione domestica rischiava di pregiudicare la stabilità dell’intero sistema, strutturalmente fondato su una rigida e binaria distinzione del lavoro: quello produttivo, riservato agli uomini, e quello domestico, di esclusiva competenza femminile. 

Donne sulla spiaggia, Francia, circa 1920

Dal punto di vista di chi deteneva il potere sociale, politico ed economico, il nuovo archetipo della femminilità moderna rappresentava quindi un pericolo, ma l’industria cosmetica, la cui diffusione era avvenuta anche e soprattutto grazie all’emancipazione delle sue clienti, in mano al patriarcato aveva le potenzialità per trasformarsi in un inedito strumento di controllo – se non sulle aspirazioni professionali delle donne, almeno sui loro corpi. La strategia fu quindi quella di promuovere un unico modello di fisicità femminile socialmente “accettabile”, stigmatizzando, allo stesso tempo, qualsiasi caratteristica che vi si distaccasse – a partire dalla cellulite, un dettaglio condiviso dalla stragrande maggioranza delle donne e che, fino a quel momento, non era stata altro che un banale inestetismo cutaneo, quando non una caratteristica da valorizzare.

Il primo utilizzo del termine – il cui significato originale era ormai stato completamente stravolto – in una pubblicazione mainstrem si ebbe nel febbraio del 1933, quando il magazine francese Votre Beauté descrisse la cellulite come un insieme di “acqua, residui, tossine e grasso, che formano un miscuglio contro il quale non esistono molti strumenti”. Le presunte cause del “disturbo” erano le più varie – dall’utilizzo di indumenti troppo stretti a disfunzioni del sistema endocrino –, così come lo erano le parti del corpo che, sempre secondo la stampa, erano le più “a rischio” – casualmente, proprio quelle che la nuova moda femminile dell’epoca si accingeva a scoprire, come il collo o le spalle. Per tutte le donne francesi che desideravano partecipare attivamente alla vita sociale, andò così consolidandosi uno standard estetico sempre più rigido e irraggiungibile, per conformarsi al quale l’unico strumento a loro disposizione era rappresentato da creme, massaggi e prodotti di bellezza, oltre ad alcuni esercizi di ginnastica. Con l’attenzione sempre più rivolta al modo in cui il proprio corpo si presentava al mondo, il tempo da dedicare ad attività “maschili” non poteva che diminuire.

Campagna pubblicitaria per combattere la cellulite, Francia, circa 1920

Con la seconda guerra mondiale, gli effetti riscontrati a seguito del primo conflitto si ripeterono in modo ancor più amplificato, con un numero sempre maggiore di donne interessate a partecipare alla vita pubblica e politica del proprio Paese; di riflesso, anche la pressione estetica esercitata dal sistema sul corpo femminile crebbe a dismisura, sfociando in una vera e propria grassofobia e nella parallela diffusione della cultura della dieta. A  far approdare lo stigma della cellulite anche negli Stati Uniti fu il mensile Vogue, che nel 1968 pubblicò un articolo intitolato “Cellulite, una nuova parola per il grasso che prima non riuscivi a perdere(“Cellulite, the new word for the fat you couldn’t lose before”). Il fatto che la cellulite venisse trattata come una condizione da “diagnosticare” – ma dalla quale, con i dovuti trattamenti, era possibile “guarire” – sancì così una volta per tutte la sua patologizzazione su scala internazionale – un approccio che resiste ancora oggi, nonostante la medicina abbia ormai dimostrato che la cellulite non rappresenta in alcun modo un problema per la salute. Di nuovo, a giovare di questa errata convinzione era l’industria della bellezza, unica vera alleata delle donne nella loro lotta contro la “buccia d’arancia”.

Come se ciò non bastasse, ad alimentare la necessità di corrispondere a un unico modello di corpo si aggiunse, negli anni Cinquanta, il più classico degli slogan neoliberisti: quello del “se vuoi, puoi”. Coraggio, determinazione e auto-disciplina divennero valori imprescindibili in ogni contesto della vita quotidiana, compresa la cura di sé e del proprio corpo; il fallimento, al contrario, divenne presto sinonimo di debolezza, al punto che anche “fallire” una dieta – e, quindi, non corrispondere allo standard estetico di riferimento – cominciò ad arricchirsi di un significato molto più profondo. Il corpo grasso, ora, non era più solo un corpo considerato brutto, ma anche un corpo immorale, in cui l’istinto aveva prevalso sulla ragione. Per l’ideologia capitalista, in fondo, ogni persona è artefice del proprio destino e quindi anche – e soprattutto – della propria immagine corporea. Peccato che tutto questo per gli uomini non valesse. Così, la cellulite diventò per le donne il segno più visibile del proprio fallimento personale.

I trattamenti anti-cellulite, inizialmente limitati a creme e massaggi, nei decenni successivi cominciarono a includere impacchi, oli e bendaggi, ma anche tè dimagranti, iniezioni di sostanze omeopatiche e perfino la somministrazione di piccole scosse elettriche sottocutanee, la cosiddetta carbossiterapia. Nel frattempo, all’aumento dei trattamenti si è accompagnato quello dei prezzi: secondo il Guardian, per esempio, nel 2005 la spesa delle donne britanniche in creme dimagranti è ammontata complessivamente a 30 milioni di sterline annue. Una spesa “necessaria” in una società in cui essere belle – ma soprattutto volerlo essere – assomiglia molto a un dovere ma, purtroppo, non altrettanto utile in termini di efficacia. Ad oggi, infatti, non esiste prodotto o tecnologia in grado di far scomparire la cellulite: riprendendo il dottor Victor Neel, uno dei pochi dermatologi statunitensi esperti in cellulite ma estraneo al mondo del marketing, “Nel migliore dei casi, una crema può migliorare temporaneamente l’aspetto della pelle”. Un risultato piuttosto discutibile, per una condizione che la ricerca stessa ha definito “la non-malattia più investigata in assoluto”.

Oggi è evidente come la cellulite rappresenti forse il caso più eclatante del cosiddetto disease mongering (mercificazione della malattia), un meccanismo volto ad ampliare il più possibile il concetto di malattia al fine di espandere anche i mercati per coloro che vendono e forniscono trattamenti. Così facendo, tuttavia, a crescere non sono solo i guadagni economici delle industrie coinvolte, ma anche – come in questo caso – i loro margini di controllo sui corpi di chi si sottopone a tali trattamenti. Prendersi cura di sé, del proprio corpo e della propria salute fisica e mentale, anche valorizzando alcune delle proprie caratteristiche o scegliendo di modificarne altre, è un diritto che in teoria qualsiasi persona dovrebbe acquisire con la nascita. Quando si parla di bellezza femminile, tuttavia, ci è richiesto di compiere un passo ulteriore: quello di chiederci non solo che cosa vorremmo cambiare, ma anche – e soprattutto – per chi.

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