La Sicilia nascosta delle cripte e mummie merita di essere scoperta

Che la Sicilia sia una meta estiva per vacanze all’insegna di granite, barocco e spiagge è risaputo. Negli ultimi anni poi, il turismo è in crescita: un dato che se da un lato indica anche una possibilità di sviluppo economico per l’isola, dall’altro rischia di trasformarla nell’ennesimo parcheggio per visitatori pigri e commercianti furbi – cosa che in alcune parti è già avvenuta, come nel caso di Taormina. È piuttosto comune che l’arrivo di forestieri si traduca in una corsa al guadagno facile, senza rispettare nessun criterio nei confronti del territorio che già di per sé soffre per i lunghi anni di incuria e criminalità. Come è abbastanza diffusa l’idea stereotipata della vacanza in Sicilia incorniciata da limoni, cassate, hashtag con parole in dialetto e spiagge da colonizzare con ombrelloni taglia XL. Questa terra, come chiunque abbia un minimo di curiosità e spirito critico avrà notato, offre ben altro che i villaggi turistici e i secchielli di mojito nelle discoteche in spiaggia: un patrimonio artistico e naturale che nonostante le deturpazioni subite rimane comunque uno dei più belli che l’Italia possa offrire. E non si tratta solamente di una cartina immaginaria da percorrere per visitare i luoghi più famosi, dall’Etna alla Scala dei Turchi passando per i siti archeologici di Siracusa e la Palermo normanna: la Sicilia, con la sua storia frastagliata e meticcia, offre anche una lunga serie di possibilità alternative ai classici tour de force tra arancini e carretti. Una delle cose più strane che si possano fare, per esempio, se non si ha voglia di seguire i percorsi classici da ferragosto in coda sull’autostrada, è ripercorrere la storia di questa terra attraverso la morte.

Imbastire una vacanza su cadaveri e cimiteri potrebbe sembrare una proposta piuttosto folle, ma se l’intento di una partenza non è solamente il semplice dolce far nulla delle ferie – opzione assolutamente condivisibile, visti i ritmi di lavoro a cui siamo sottoposti oggi – ma anche quello di vedere qualcosa di completamente diverso da ciò a cui siamo abituati, un percorso attraverso la sovrabbondante collezione di morti mummificati che offre la Sicilia non è affatto male. Del resto, la visita alle catacombe sicule era proprio una meta del Grand Tour dell’Europa continentale per i giovani aristocratici del XVIII e XIX secolo, che non esitavano ad addentrarsi in questi cimiteri a vista per trarne profonde riflessioni sul senso della morte e sulla caducità della vita. Sparse per tutta l’isola, infatti, sono presenti migliaia di mummie, alcune conservate con metodi scientifici che rasentano la magia, altre un po’ più dismesse, ma tutte parte di una grande e variegata collezione di cadaveri appesi – perlopiù nei conventi dei Cappuccini. È ovvio che se ci si sente affini a uno spirito esistenziale in stile famiglia Addams, incline al gotico e al macabro, una visione simile non generi particolare stupore, al massimo gradimento. Ma se invece ci si ritrova, come nel mio caso e come nel caso dei più, ad avere un rapporto con la morte e con i corpi senza vita segnato da tabù e rimozioni, trovarsi di fronte a una realtà del genere può essere un interessante spunto di riflessione, persino terapeutico.

Parlando con persone anziane ho sempre avuto la sensazione che il modo in cui ci rapportiamo ai morti sia molto cambiato rispetto a qualche generazione fa. La visione stessa di un cadavere, oggi, è già di per sé possibile causa di shock. È normale, in fondo, tenendo conto di come è cambiata la prospettiva di vita dai primi del Novecento: se prima era scontato che un bambino potesse morire per cause tutto sommato stupide – una semplice febbre, una malattia per la quale oggi esiste un vaccino – il valore che nel 2018 attribuiamo alla vita e alla salute è decisamente maggiore. L’idea di vedere un corpo privo di vita, per un uomo nato all’inizio del Novecento, non era affatto strano, e le guerre del Ventesimo secolo di sicuro non hanno che accentuato la naturalezza con cui ci si relaziona a una persona defunta.

Quando le strade di una città o di un paese sono disseminate da soldati e civili morti, l’eccezione diventa regola. Prima che farmaci come la penicillina facessero il loro ingresso nella vita delle persone, passare a miglior vita da giovani era molto più comune e il rapporto tra vivi e trapassati era decisamente più vicino di quello che abbiamo oggi, basti pensare all’usanza vittoriana di fotografarsi con i cadaveri dei propri cari che non erano arrivati in tempo allo scatto. Sicuramente è un bene il fatto che ci siamo allontanati così tanto dall’aldilà: è indice del fatto che diamo un valore più intenso alla vita, e che di conseguenza abbiamo più considerazione dell’essere umano – fino a quando ovviamente non si tratta, ad esempio, di un migrante su un barcone, in quel caso la sua vita sembra valere meno della nostra. Per altri versi, tuttavia, questo distacco genera una censura, che come ha conseguenza quella di farci cogliere completamente alla sprovvista dalla morte. Quando arriva, che si tratti di una persona che conosciamo molto bene o che abbiamo visto una sola volta, ci pervade con un forte senso di estraneità. Eppure, ci riguarda tutti. Una passeggiata tra i cunicoli di un condominio di zombie che sta là da oltre quattro secoli, dunque, non è solo un tour nella casa degli orrori, uno spettacolo voyeuristico verso il proibito nascosto dalla paura. È anche un modo concreto per riavvicinarsi all’idea della morte, alla consapevolezza che siamo prima di tutto un corpo, che nasce e poi, inesorabilmente, diventa cibo per vermi.

Fotografie post mortem di epoca vittoriana

La più famosa tra le attrazioni mortifere siciliane sicuramente sono le Catacombe dei Cappuccini (che in realtà sarebbero un cimitero, ma tutti le chiamano così), di cui parla Thomas Mann ne La montagna incantata e da cui passarono tanti giovani esploratori del continente europeo in anni di formazione. Si tratta dei sotterranei del convento soprastante, nel quartiere Cuba di Palermo, e risalgono al Sedicesimo secolo: dentro i vari cunicoli gotici, ci sono circa ottomila mummie appese, da poter ammirare per una bella terapia d’urto contro la paura della morte. Ma al di là della semplice esorcizzazione di una fobia, ciò che trovo davvero interessante in questo percorso tra corpi imbalsamati è il contatto diretto che si può avere con esseri umani vissuti dai quattrocento ai cento anni prima di me. Quando si studia la storia le persone si possono immaginare, ci si può appellare al supporto di qualche film o di qualche ricostruzione da Piero Angela, ma non è possibile trovarsi veramente faccia a faccia con una donna o un uomo del 1700. In questo contesto, si verifica una strana sensazione duplice, che se da un lato ti fa sentire che attorniato dalla morte e della decadenza del tempo che fugge, dall’altro dà la sensazione di essere circondati da una strana forma di vitalità. I corpi sono ancora vestiti di tutto punto, le distinzioni sociali e di sesso si riflettono nel posizionamento delle mummie, ma la varietà è tanta: da bambini a vergini vestite da sposa, da ufficiali a borghesi a intere famiglie. Ovviamente, la mummificazione non è mai stata una pratica accessibile per un certo ceto, dunque manca nella collezione di persone defunte la componente più bassa del tessuto sociale dei secoli scorsi.

Tra tutte le mummie spicca quella della famosa bambina morta a due anni di polmonite nel 1920: Rosalia Lombardo, detta La bella addormentata, è l’esempio di come si possa spingere la pratica della mummificazione a livelli inquietantemente alti. La piccola defunta giace in una teca di vetro per preservare le sue fattezze, a dir poco intatte, opera di un grande maestro del settore, l’imbalsamatore Alfredo Salafia, e oggetto di studio e curiosità degli anni successivi. Era una fase, quella in cui la bambina è stata imbalsamata, in cui la medicina aveva fatto un grande passo in avanti, mentre l’etica nei confronti della sperimentazione e dei pazienti rimaneva ancora indietro. Oggi sarebbe impensabile concedere a un medico di sperimentare una tecnica simile su una morta, specialmente se così giovane, e a nessuno verrebbe in mente di imbalsamare i propri cari per preservarne l’immagine – anche se c’è ancora chi riutilizza i cadaveri dei compianti come personaggi di presepi viventi. Ma il lavoro di Salafia, che ha reso Rosalia un vero e proprio pezzo da museo e che è anche stato il restauratore del corpo di Francesco Crispi, è davvero incredibile: è stato uno dei primi a sperimentare la mummificazione tramite iniezione di sostanze chimiche, e i suoi metodi si sono rivelati così efficaci da renderlo una sorta di celebrità di quegli anni, convocato perfino a New York dall’Eclectic Medical College per dare delle dimostrazioni.

La mummia di Rosalia Lombardo

Oltre alle Catacombe dei Cappuccini, ci sono tantissime altre mummie sparse sull’isola in catacombe e cimiteri analoghi, oggetto di molti studi, anche recenti, volti a definire attraverso l’analisi delle patologie e dell’alimentazione come fosse la vita di persone morte duecento anni fa. A Savoca, per esempio, in provincia di Messina, sono conservate diciassette mummie nella cripta della Chiesa di San Nicolò, tutte appartenenti a ceti abbienti e che riportano i segni inconfondibili della vita agiata, tra diete equilibrate e patologie “da re”, come la gotta. Si tratta di corpi mummificati quasi del tutto naturalmente, attraverso un processo di “scolatura” delle parti liquide e un successivo essiccamento dovuto al clima della cripta. A Burgio, in provincia di Agrigento, quarantanove mummie in una cappella di Cappuccini sono state rimesse a punto e salvate da topi e ragnatele come nella migliore avventura di Indiana Jones. A Gangi, in provincia di Palermo, il dottor Dario Piombino Mascali – l’antropologo a capo di questi studi horror in Sicilia – ha condotto diversi studi sulle mummie presenti nella cripta di San Nicolò di Bari. Ed esistono molte altre cripte decorate con cadaveri rinsecchiti e appesi: Piraino, Santa Lucia del Mela, Militello Rosmarino.

Le usanze funebri siciliane riflettono la complessità del rapporto con la morte, quando la fede, la superstizione, la lotta perenne dell’uomo contro la consapevolezza della sua transitorietà sulla terra si mettono insieme in uno spettacolo perturbante, ma anche, per certi versi, rassicurante. Il critico francese André Bazin diceva che il cinema serve a soddisfare quel “complesso della mummia”, la necessità psicologica dell’uomo di “salvare l’essere mediante l’apparenza”, imbalsamando le immagini, i suoni, il tempo. Oggi non metteremmo più i nostri amici e i nostri parenti in un loculo per poterlo vedere trasformarsi in una versione incartapecorita e rigida di sé, ma continuiamo comunque a provare in tutti i modi a conservarci dall’inesorabile destino finale. I nobili e il clero del qualche secolo fa pensavano di poter letteralmente interrompere questo processo facendo durare i corpi per sempre, noi ci scattiamo foto su foto per non dimenticarci di come eravamo cinque minuti prima. Farsi un giro in questo mondo che sembra così distante in realtà non ci svela altro che la paura verso l’inspiegabile mistero dell’esistenza alla fine ci accomuna tutti, frati Cappuccini del 1700 e uomini e donne del futuro. La gita nei luoghi del barocco con degustazione di cioccolato di Modica è bella, ma anche un tour nei meandri dell’esistenza non è male: per fortuna la Sicilia offre entrambe le cose.

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